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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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In Perù un sisma violentissimo, di 7, 9 gradi della scala Richter ha completamente distrutto la città di Pizco e causato (ma il numero è destinato ad aumentare di dieci volte) 500 morti e 4000 feriti.
Questo è un video sulle distruzioni
Nel 1985, un terremoto della stessa magnitudo ha semidistrutto il centro di Città del Messico, provocando più di 20.000 morti e centinaia di migliaia di sfollati. Uno di quelli ero io, costretto ad abbandonare la mia casa gravemente lesionata dal sisma.
(Città del Messico, 19/09/1985)
Ore 7 e 19 del mattino. Una mattina nuvolosa di settembre. Due persone abbracciate in un letto che non riesce ad essere matrimoniale. Està temblando, Claudio. Come? Fammi dormire, Isabel. Muoio di sonno. Claudio, si muove tutto, alzati, in fretta. Una scossa di terremoto, è normale. Alzati, per Dio, alzati, non è come le altre volte.
- Non è la prima volta che mi toccava un terremoto. Il Messico è zona sismica, al largo di Acapulco e lungo tutta la costa dell’America Latina si sfiorano due grandi faglie che ogni tanto si scontrano, liberando tutta la loro energia. Ma, in passato, si trattava di piccole scosse, quindici o venti secondi e via. Ma adesso no, l’intensità cresce progressivamente, le oscillazioni diventano sempre più estese, simili a onde lunghe che investono una barca. Tutto scricchiola vibrando, una forza superiore scuote la casa dalle fondamenta, rovescia pile di libri, fa cadere i mobili come se fossero di carta, sovverte il tranquillo disordine dell’appartamento. Mi aggrappo alla porta della stanza per non cadere, per non cadere sul pavimento che sembra diventato un tapis roulant, Isabel s’afferra a me con disperazione, come un naufrago a un salvagente-.
A un tratto parve loro che il movimento diventasse sussultorio e volesse coinvolgere rabbiosamente tutta la città nella sua rovina, mentre la lampada della camera da letto sbatteva più volte contro il soffitto. Poi entrò il silenzio.
- E’ finita, sant’Iddio, è finita. Mi guardo intorno con smarrimento, cercando di ritrovare le immagini ordinarie. Sul pavimento mobili rovesciati, acqua nel corridoio, sul balcone piante divelte. Non vedo niente, mi affaccio al balcone e non vedo niente. Fumo e polvere, una nuvola spessa simile a nebbia che copre gli edifici, la strada. Quando la cortina si dirada, scorgo una moltitudine di persone simile a un esercito di sfollati che cammina nel centro della strada, tenendosi lontana dai marciapiedi. Lo sguardo sale ai palazzoni di fronte. Lì una sbrecciatura, davanti un balcone crollato, in fondo intravedo un tetto mezzo sfondato. Decine di sirene, di allarmi stridono senza interruzione non si sa da dove.
Il telefono. Come state ? Bene, mamma, stiamo bene, però è stato spaventoso. Lo sapete che è successo a Tlatelolco? No, che è accaduto. Accendete la televisione, ci sono migliaia di persone sotto le macerie. Non restate lì, non è sicuro, venite da noi.
- Il tam-tam telefonico allarga gli scenari del disastro. Sembra che centinaia di case, di edifici, palazzi siano crollati. I grandi edifici, di dieci o dodici piani, sono tra i più colpiti. La televisione rimanda immagini del Ministero dei Trasporti, il cui corpo centrale è stato quasi raso al suolo, mentre nella Piazza delle tre Culture un enorme condominio che ospita più di mille persone si è letteralmente sbriciolato. Si parla di fughe di gas, l’ospedale generale è distrutto. Il reparto maternità è esploso. Davanti all’Alameda Central due hotel sono diventati un cumulo di macerie e un giornalista terrorizzato parla in mezzo a fiamme e sibili. Sappiamo dal telegiornale che il nostro quartiere è tra i più colpiti. L’elenco delle distruzioni traccia un cerchio stretto intorno alla nostra casa-.
Claudio, vieni qui. Cosa c’è, Isa? La casa di Francisco è distrutta. Distrutta? Sì, guarda. Un’intera parete è crollata e si è trasformata in un’enorme finestra, sotto l’impatto di un garage di cemento armato di sei piani che il movimento oscillatorio ci ha scagliato contro. Il pavimento sbrecciato termina nel vuoto.
- Scendo in strada, non ce la faccio a restare a casa. Le vie sono un caos, un casino inimmaginabile. Iniziano ad arrivare i primi soccorsi, ma sembrano impotenti. Tutt’intorno, un palazzo crollato a ogni isolato. Calle del Oro, Tamaulipas, Medellin, Vicente Guerrero, un perimetro di rovine. Il terremoto ha colpito a caso, determinando forme architettoniche nuove. Alcune case sono venute giù completamente, ogni piano ha distrutto quello inferiore e assomigliano a castelli degradati in mucchi di sabbia. Altre sono distrutte parzialmente, il crollo si è arrestato nei piani superiori, mentre il resto ha mantenuto la sua forma originaria. Altre ancora sono sgretolate, come se fossero state corrose e morse da un gigante incattivito e mantengono un equilibrio quasi impossibile, mostrando oscenamente i propri interni.
Ma non c’è tempo per pensare o per prestare i soccorsi. Bisogna lavorare per spostare i mobili dalla casa di Francisco alla nostra, relativamente intatta. L’appartamento si riempie fino all’inverosimile, non riusciamo neanche a muoverci e questo rende definitiva la dimensione dell’evento-.
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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