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Farfalla notturna (prima parte)

Post n°216 pubblicato il 13 Dicembre 2007 da falco58dgl
 

Una storia d'amore in due puntate... :-)

Marco esce di casa per andare al lavoro. Chiude la porta a doppia mandata, scende le scale contento di sentire sotto di sé i gradini rimbalzanti, arriva in strada, gira a destra mettendosi a camminare sul viale.E' leggermente in ritardo, ma continua ad andare avanti, pensando che è davvero una bella giornata.

Prenderà il tram non alla solita fermata, ma a quella successiva. Arriva proprio nel momento in cui il 35 sferraglia lungo la curva, rallenta e si ferma per accogliere le persone in attesa.
Marco sale di slancio, si sistema vicino alla macchinetta e dà un'occhiata fuori dal finestrino.
Si volta e scorge una giovane donna che lo guarda con curiosità appena dissimulata.  La mette a fuoco, con pigrizia. La prima cosa che vede sono i suoi capelli ricci castano rossi. Poi il seno prominente, che sembra voler forzare la maglietta attillata e spinge in orizzontale due promontori tondeggianti.

 Marco non sa bene dove guardare, anche se i suoi occhi fanno fatica a distogliersi dalle tette che hanno davanti. Alterna la visione di quella bellezza con la percezione laterale delle scritte, dei divieti e delle pubblicità che saturano la parte superiore del tram.

"Ti piacciono, vero?". Marco crede di aver sentito male, vorrebbe voltarsi per vedere se quella frase è indirizzata a qualcuno dietro di lui, ma indietro c'è solo una fila di platani che scorre all'incedere del tram. "Dai, hai capito benissimo. Non sono male, niente male". La ragazza sta parlando proprio a lui e sta indicando compiaciuta il suo seno colpito dagli sguardi di quel giovane alto e allampanato che prova un tremendo imbarazzo sulla pedana girevole.

"Dice a me?". "Vedi qualcun altro, oppure quel paio di occhi te li ha regalati un donatore?".
"Sa, in verità sono molto miope". "Ah ecco, ho capito. Stavi cercando di mettere a fuoco. Ma almeno ti sono piaciute?". "Per quello che sono riuscito a vedere, sono proprio notevoli".


DUE

A quel punto mi sono messa a ridere, battendomi le mani sulle cosce e anche quello spilungone ha accennato una risatina, prima trattenuta, poi aperta.
Mi piace far ridere la gente, provocare una reazione inconsueta. Se no, non mi diverto.
Uso il corpo come un'esca. Le mie tette sono più attraenti di una calamita, ma chi pesca è il cervello.
Gli uomini sono tutti così scontati e prevedibili. Già m'immagino la loro risposta quando li provoco, anticipo le loro reazioni, prevedo tutta un'intera sequenza di mosse, come in una partita a scacchi giocata da un maestro . Ma ogni tanto qualcuno riesce a stupirmi e trova per vie traverse un accenno di spontaneità. Me li scoperei solo per questo.
Quel ragazzo non è niente di speciale. Troppo alto e vestito in modo casuale, i capelli mal tagliati e un volto normale, una faccia qualunque. Solo il suo naso, forte e dritto, mi piace.

Gli ho chiesto "come ti chiami?" e lui mi ha detto il suo nome quasi con riluttanza, come se si scusasse di rivolgermi una comunicazione così ordinaria e comune. E' rimasto qualche secondo in silenzio, poi abbiamo esclamato insieme "Ti sembrerà banale. Tu invece come ti chiami?". Giù a ridere come pazzi, mentre gli altri passeggeri ci guardavano storto, con occhiataccie torve e livide.

  

TRE 

Laura è proprio matta. Ma simpatica da morire. Sono andato sul lavoro pensando alla sua espressione mentre ride, più ancora che alle sue tette. Mi ha chiesto il numero di telefono e glielo ho scribacchiato sul retro del biglietto. Poi mi ha detto "No, va, chiama tu che è meglio" e mi ha scritto sette cifre su un fazzolettino di carta che sembrava usato. Cosa faccio? Aspettiamo un po', è meglio. Non buttarti avanti troppo in fretta. La fretta è una cattiva consigliera mi diceva sempre mamma. Sì, come no? Se è per quello l'insegnante di storia parlava per frasi fatte. Ragazzi, qui si fa l'Italia o si muore. Voi suonerete i vostri tamburi e noi vi suoneremo come campane, mavaffanculo. La fretta è una cattiva consigliera, ma tra mezz'ora le telefono.

 QUATTRO

E poi non so bene cosa sia avvenuto. Visto dall'esterno, mi appare tutto normale e liscio come una buccia di pesca. Ma da dentro è un'altra cosa. Tutto si è svolto con lentezza, come in una sequenza morbida. Ha telefonato lei, anticipandomi. Mi ha detto "tra due ore ci vediamo in pizzeria". L'ho vista arrivare ondeggiando, con un gran sorriso.Laura non smetteva di fare domande, a cui non c'era neanche bisogno di rispondere. Ogni tanto rideva, squillante.

Anche il vino ci aiutava in questa sospensione del tempo, ma solo un poco. Tutto il resto era lei, le mitragliate di parole e risa, intervallate da sguardi interrogativi, come se volesse mettermi alla prova. Mi sentivo dentro un flusso che mi portava indietro verso un posto non conosciuto, forse intravisto nel riflesso di sguardi altrui.

Non ricordo quasi nulla di quello che mi ha detto. Ma rammento il ritmo, le intonazioni e le pause, che preparavano nuove parole, nuove parole.

CINQUE

 

Non so bene cosa fare di te. Se muovessi un dito, ti affretteresti a obbedirmi felice, potrei farti tirar fuori la lingua o convincerti a rimanere in piedi in mezzo al ristorante su una gamba sola. Ti vedo, sai, mentre bevi le mi frasi quasi incredulo.

Che faccio, adesso? Ti porto a casa, sperando che tu ci sappia fare e non mi lasci a metà, come la maggioranza dei tuoi simili, oppure continuo il gioco? Calma, vai piano. Chi mi corre dietro? Non ho fretta, nessuna fretta. Ma sta attento, scemo, che stai per far cadere la tazzina del caffè. Sei proprio un imbranato, Marco.

(fine prima parte)

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(in seguito a uno spiacevole episodio
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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