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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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Racconto di Elsa Berardi
“Coloro che per primi dettero un nome a questa terra la tennero in bocca come se fosse sua. E aveva il sapore della pannocchia che con il peso piega la canna. Del miele spesso e bianco della guanabana. Della polpa lunare della prugna. Del seme oleoso di zapote. Della linfa che filtra lentamente dal tronco ferito della palma. Aveva un alito come la nebbia del primo mattino che lascia il segno sulle foglie. Aveva il fiato caldo della bestia pacifica ed il respiro furtivo della fiera. Aveva la brezza misurata delle pianure di notte. Ed un segno: quello che traccia il fagiano quando vola alto, il rettile quando striscia sulla sabbia”
”Balun Canan” – Rosario Castellanos
La mia terra, nella quale le mie radici sono profonde, è un tappeto composto da mandorli, ulivi, oleandri, vigneti. Ho imparato ad amarla dai racconti di mia madre, da contadini dalle mani callose, dalle mille rughe sparse sui volti, dagli occhi vivaci.
Nella valigia che raccoglie i miei ricordi di infanzia, c’è la mia terra. Non c’è questa grande, frenetica città del nord nella quale sono nata. Ci sono odori, profumi, persone, bambini che giocano all’aperto , donne dai lunghi capelli raccolti e dai vestiti severi, uomini che scrutano il cielo, pane caldo appena sfornato, figli partiti per luoghi lontani, occhi ansiosi che attendono l’arrivo del postino, un sole rovente d’agosto, un cielo terso, temporali minacciosi. Papaveri, tanti: dai petali delicati e dal gambo forte, che ondeggiano nel vento. Ci sono mandorle sgusciate, adagiate su tappeti di tela di sacco, le voci dei contadini che passano sotto la finestra all’alba, il loro ritorno quando il sole è ormai alto. Ci sono stivali di gomma che camminano sulla terra arsa dal sole, c’è fatica, ansia, speranza, tenacia.
C’è il nonno che mi portava la frutta raccolta all’alba e una bambina di città che lo osservava mentre lui apriva un melone, ne estraeva i semi e, sorridendo con orgoglio le porgeva una fetta. C’è la nonna le cui mani odoravano di rucola, di pomodori, di fichi appena colti. Ci sono decine di volti, di storie, storie di terra. Balconi fioriti, madie, fontane.
Ci sono Antonio, Giando e Luigi, montagne, strade sterrate, feste di paese, camini accesi, scarpe infangate, lenzuola ruvide e profumate di sole, altalene , panni stesi, donne che lavano alla fonte, le loro risate, il loro sapone fatto in casa. C’è il negozio di Rosina che non sapeva cosa fosse la coppa, nemmeno il gorgonzola.
C’è un ragazzo alto, magro, che raccoglie un fiore di oleandro e lo offre a una ragazzina di città. Ci sono i piatti messi ad asciugare al sole, c’è il ritorno dalla mietitura.
Ogni anno, quando torno per le vacanze, c’è una nuova casa chiusa. La sera, sotto un cielo illuminato da migliaia di stelle, mi piace stare in silenzio ad ascoltare i rumori, le voci che non ci sono più. Non provo dolore, ma una sensazione di appagamento. Quel fazzoletto di terra è mio. Posso affondarci le mani, i pensieri, le nostalgie. E’ nostro, quel pugno di terra. Lo tengo tra le mani e sento le mie radici. E quel velo di paura non c’è più.
IL MIO ROMANZO
CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
BESA EDITRICE
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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