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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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D'accordo con il clima depressivo post risultati elettorali, pubblico un breve testo ispirato alla "nausea" di Sartre.
Mille grazie a Eleuterian per aver pubblicato sul suo blog una recensione del mio romanzo.
“Sono io che ho deciso di seppellirmi nella mia tana; non conosco più né il giorno, né la notte; quando non ne posso più, quando non riesco più a farcela, butto giù dell’alcool, dei tranquillanti, o dei sonniferi. Quando va un po’ meglio, prendo degli eccitanti e mi butto a leggere un giallo: me ne sono fatto una provvista. Quando il silenzio mi soffoca, apro la radio e da un pianeta lontano mi arrivano voci che comprendo appena: quel mondo ha un suo tempo, delle sue ore,sue leggi, una sua lingua, occupazioni, divertimenti, che mi sono totalmente estranei”
Simone de Beauvoir
Oggi mi sono alzato presto. Presto rispetto alle mie consuetudini. Le nove e quaranta. Ero andato a dormire alle quattro e mi sono tirato su a fatica, lottando per abbandonare l’inerzia vischiosa del dormiveglia.
Odio alzarmi presto la mattina. E’ come spalancare una serie di possibilità che verranno bruciate dall’incedere del giorno, aprire gli occhi sul vuoto e richiuderli quando è ormai troppo tardi per riprendere sonno. Mi sono infilato i pantaloni con un gesto affrettato, non trovavo i calzini e sono andato in bagno a piedi nudi. Nel fissare le piastrelle, ho avvertito un senso di vertigine che mi colpiva il cervello più che lo stomaco.
Un residuo di sogno era imprigionato da qualche parte, come una metastasi nascosta in un recesso del mio organismo. Avrei voluto espellerlo o dimenticarmene, ma restava lì ostinato a rammentare la sua assenza. Sono andato in cucina e mi sono riscaldato un fondo di caffè avanzato dalla sera prima. Sono rimasto a guardare dalla finestra della cucina, con la tazza in mano, fino a quando le grandi gru e gli edifici in costruzione sono diventati oggetti a due dimensioni che si stagliavano sul profilo di colline molli e astratte. Nel farlo, socchiudevo gli occhi, disegnando un ovale irregolare delimitato dalle palpebre.
Mi sono riscosso ed ho buttato via il caffè ormai freddo. Non ho voluto sedermi sul divano ed accendere la televisione. Ho pensato al mio corpo spiaccicato giù per strada, attorniato da una massa di curiosi che si portavano le mani alla bocca e che parlavano fitto tra di loro, mentre il tran tran del traffico veniva rotto da sirene di polizia e ambulanze. Ho respinto quel pensiero con un moto infantile di liberazione. Troppa fatica. Scavalcare la ringhiera, buttarsi giù a braccia aperte, urlare a pieni polmoni in attesa dell’impatto.
Meglio mettere su della musica che faccia da contrappunto ai pensieri. Flauto andino. Musica triste che s’innalza con sonorità aspre e incompiute. Squilla il telefono. Una, due, tre, quattro volte. Entra la segreteria telefonica ed ascolto la mia voce monocorde recitare “lasciate un messaggio dopo il segnale acustico”. Niente, per fortuna. Solo un fruscio prolungato che termina con un click.
Resisto alla tentazione di guardarmi allo specchio, non voglio. A nessun costo. Ma, nel passare dalla sala al corridoio, ho l’immagine fugace di un corpo e di un volto che potrebbero essere di chiunque.
Mi metto una maglia, esco. Il sole mi acceca. Detesto la luce, la luce del tardo mattino. Una persona mi chiede un’indicazione, bofonchio “non sono di qui”, mi accendo una sigaretta. Sto un po’ meglio, ho messo a fuoco le mie sensazioni. Lei mi ha preso, ormai non devo fare più resistenza. Mi accompagna come una scimmietta fedele, seduta sulla mia spalla. E’ lei che mi dice cosa devo fare, dove devo andare.Per la prima volta da giorni mi sento sollevato. Mi dirigo verso il bar a passi svelti.
IL MIO ROMANZO
CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
BESA EDITRICE
INCIPIT
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avvenuto su un blog della community)
LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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