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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
SOLIDARIETÀ CON RED LADY E CON LOCANDA ALMAYER!
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Col termine "bassa soglia", si definisce un modello di intervento sociale rivolto a soggetti estremamente in difficoltà (come, per esempio, i tossicodipendenti senza alcuna risorsa) che accoglie i pazienti in modo immediato, senza requisiti specifici di accesso e che è impegnato nella politica di "riduzione del danno". Questo racconto, scritto diversi anni fa, è ambientato in uno di questi servizi. Il racconto è molto lungo, posto qui la prima parte. chi lo volesse leggere tutto, mi contatti e glielo mando via mail.
E’ una costruzione lunga e bassa che assomiglia a un fortino in tempo di pace. Ma di pace ce n’è davvero poca, sospirava Raimondo, entrando alle nove e trenta del mattino nella sala d’attesa che lo avrebbe introdotto dentro la lunga teoria di stanze disposte simmetricamente ai lati del corridoio.
A volte gli sembrava che quel corridoio fosse una rappresentazione della sua vita. Tagliava in due il servizio da cima a fondo, trenta metri dall’ingresso alla piccola cucina giù in fondo, dove si poteva preparare il caffè e chiacchierare con qualche collega. Otto stanze, più la segreteria, tre bagni, di cui uno per gli utenti, telefoni, scrivanie e sedie girevoli, lettini per le visite mediche, qualche poster di musei e di preservativi, cartelloni appesi ai muri, tanti computer nell’ampio seminterrato.
”La mia vita… un corridoio che collega spazi non miei, che posso usare, ma di cui non dispongo”.
Non si trattava di uno centro sociale, né di una casa privata, bensì di un servizio pubblico appartenente al sistema sanitario nazionale, pieno di operatori, in maggioranza laureati, di clienti e di confusione, a volte sterile, a volte divertente.
Un Ser.T. Dove Ser stava per servizio e la T non indicava Torino o i Trapianti o le Teorie e nemmeno l’aggettivo Travolgente, ma la Tossicodipendenza – o meglio, le Patologie da Dipendenza, poiché tutte le scuole si trovano d’accordo nel riconoscere che le dipendenze sono molteplici, e non solo in funzione delle varie sostanze, oggetti , ambiti o condizioni. Un servizio pubblico per il trattamento delle tossicodipendenze posto in uno dei quartieri più conflittuali della città, quello che era stato definito da persone con scarsa fantasia “il nostro Bronx” (magari il vero Bronx era diventato nel frattempo un luogo di residenza pieno di opportunità culturali e spazi universitari), o, con un espressione più icastica, “un posto dove è più facile trovare una bustina di eroina che un panino”.
Gli ingredienti c’erano tutti per stimolare professionisti romantici, allevati nel culto della “negazione del mandato istituzionale” e della lotta all’emarginazione sociale, un po’ come successe, in un’altra epoca, a un pugno di operatori della psichiatria, impegnati nello smantellamento dei manicomi. Purtroppo, la realtà opponeva una cocciuta resistenza (la realtà è proprio meschina ed antipatica, sembra quasi che reagisca sulla base di pregiudizi personali, che ce l’abbia con te) ai progetti di cambiamento, determinando ripetizioni e cicli sconfortanti, tramutando l’entusiasmo ed il coinvolgimento in sopportazione o odio aperto.
Ognuno viveva la condizione a modo suo. Raimondo distingueva nei colleghi tre tipologie prevalenti: gli entusiasti, i realisti e i depressi. I primi assomigliavano a vecchi dischi suonati alla velocità di settantotto giri: voce in falsetto, parole pronunciate con grande velocità per risparmiare tempo, attivismo maniacale e movimento scarsamente finalizzato. I secondi riducevano, poco a poco, le proprie aspettative e definivano obiettivi sempre più piccoli, con la speranza di raggiungerli, ma l’impresa assomigliava a quella di una persona che si muove su una veloce scala mobile nella direzione contraria.
Gli ultimi, ribattezzati “i nuovi Werther”, si aggiravano fantasmali negli angoli più remoti del servizio, scomparivano misteriosamente all’interno di nicchie solo a loro conosciute ed esibivano un’espressione di autentica sofferenza, quando erano costretti a ricevere un utente o a presenziare ad una riunione.
Raimondo sentiva di oscillare tra le due ultime categorie, sempre meno realista, sempre più sconfortato e la consapevolezza della transizione lo rattristava oltremodo.
Esistevano tuttavia anche impegni istituzionali, a cui era difficile – e illegittimo- sottrarsi, primo tra tutti l’attenzione alle domande portate e, in qualche caso, gridate dagli utenti. In fondo il servizio era nato per quello e gli operatori dovevano il loro stipendio all’esistenza e alla diffusione del problema.
“Certo che i nostri ragazzi ce la mettono tutta per rendersi intollerabili”, pensava Raimondo , mentre attendeva il terzo appuntamento della giornata. I primi due non si erano presentati e lui si era ritrovato a giocherellare con il computer, immettendo dati inutili, pur di far passare il tempo. “Forse è la nostra organizzazione che fa acqua; se sappiamo che la metà dei nostri utenti non viene ai colloqui, dovremmo andare noi incontro a loro, invece di aspettarli inutilmente in questa torre. Bisognerebbe anticipare i loro desideri, i movimenti, essere là dove la scena avviene e non sprecare parole dopo che l’essenziale è già successo”. Ma intanto, si era messo a giocare a “campo minato”, mentre il fastidio e il nervosismo aumentavano seguendo l’avanzamento delle lancette dell’orologio.
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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