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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Ritrovarsi

Post n°398 pubblicato il 31 Maggio 2010 da falco58dgl

Ci sono numerose ragioni per essere spaventati o delusi: dalla crisi che sta lasciando un campo di rovine, che ha trasformato centinaia di migliaia di famiglie italiane e milioni di famiglie europee in soggetti ai limiti dell’indigenza, alla legge sulle intercettazioni, che prevede limiti intollerabili per un paese democratico all’esercizio della libertà di stampa e dell’attività della magistratura. Ma, nonostante tutto ciò sia vero e incida nella carne viva del nostro paese, voglio narrare un’altra storia, un momento di piccola felicità condivisa, un frammento di bellezza che ha illuminato un caldo e trasparente pomeriggio di fine maggio.

 

 

 fontana

La fontana dei dodici mesi si spalanca davanti a noi, con i suoi getti d’acqua che vengono rifratti dalla luce del sole calante e proiettano, come in un raggio laser, i colori dell’arcobaleno e le sue dodici statue, uno per ogni mese dell’anno, che seguono i contorni dell’ovale e ne delimitano i contorni. Stiamo lì, a guardare la caduta dell’acqua e le suggestioni liberty e rococò della fonte,  immersi in una luce calda e rarefatta, mentre gli alberi del parco, tappeti di fiori multicolori e uno scorcio del fiume ridiventato limpido, accompagnano lo sguardo.

“E’ bellissimo, vero?”

Mia madre fa un cenno con la testa e sorride, come per dire che è davvero un bel posto. Mormora “quanta acqua”, ha smesso di inseguire i brandelli di passato che, simili ai frammenti di un alfabeto indecifrabile,  occupano i suoi pensieri e la ancorano a un presente che scivola via tra le maglie del ricordo.   

Graciela e io la prendiamo per mano e scendiamo verso il Po, attraversiamo un viale percorso da veicoli a pedale, da famiglie con bambini che si rincorrono e ci fermiamo davanti a  un chiosco con  tavoli all’aperto  disposti su un prato. Ci sediamo, ordino da bere e ci guardiamo intorno: alberi secolari  formano cupole verdi che delimitano spazi ombrosi. Riconosco pioppi, salici, faggi, carpini, aceri, tigli, olmi e querce. I piedi calpestano un erba verde cosparsa di fiori gialli, bianchi e viola. Il fiume scorre lento, qualche barca a remi lo percorre con pigrizia.

Bevo in un bicchiere di plastica e sento venir su un’emozione che non sono in grado di descrivere, qualcosa che si allarga dall’interno e congiunge lo stomaco agli occhi. Una sensazione di circolarità perfetta. Poggio un braccio sulla spalla di mamma, la vedo serena mentre termina il suo gelato, do un’occhiata a Graciela e, senza parlare, mi accorgo che lei condivide lo stesso stato di grazia.

Quando ci alziamo per andare verso il Borgo Medioevale e il giardino roccioso, sono le sette di sera. Percorriamo lo spazio del Castello, l’acciottolato antico, i negozi che espongono armature di cavalieri inesistenti, il ponte levatoio, luoghi che in genere mi infastidiscono, imitazioni contraffatte di un passato inafferrabile, come se li vedessimo per la prima volta, con la curiosità di un gruppetto di turisti approdati per caso in una città secondaria che si rivela all’improvviso bella e seducente.

Il giardino roccioso è una sinfonia di colori che vibrano a contatto con la luce calante: rose rosse, rosa, gialle, bianche, fiori lillà e fucsia, alberi esotici  che non so riconoscere, corsi d’acqua che scendono in alvei protetti, fino ad alimentare un laghetto artificiale popolato di cigni e papere.

Ci sediamo su una panchina, all’ombra, a parlare del presente e del passato: Taranto, la casa di campagna in Monferrato dove mia madre ha trascorso con gioia le  sue ultime trenta estati, curando il suo giardino e potando i suoi alberi, le sorelle che vivono tra Torino e  Roma

Poi ci alziamo e torniamo a passi lenti verso la fontana, le sue statue, la nostra vettura, la strada di casa.

 

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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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