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Morte e distruzione alle foci del Gange

Post n°206 pubblicato il 22 Novembre 2007 da falco58dgl
 

Venite con me,  vi porterò in un paese magnifico e atroce. Un paese che nasce sul delta immenso  di due fiumi sacri, culle di una civiltà luminosa,  il Gange e il Brahmaputra, che si diramano  in  una fitta rete di duecentotrenta fiumi minori. Un paese fatto di pianure alluvionali, canali,  laghi, lagune, isole di mangrovie, grande come l’Italia settentrionale, ma popolato da 150 milioni di abitanti, mille persone rinchiuse in un chilometro quadrato.

 Un paese di una bellezza straordinaria,  minacciato dall’effetto-serra che rischia di far scomparire un quinto delle sue terre e l’esistenza di settanta milioni di cittadini.  Un paese con un ecosistema splendido e fragile, soggetto alle inondazioni dei fiumi e a uragani che spazzano via  come  fogli di carta capanne fatte di legno e  frasche di palma, case costruite con materiali di fortuna, con l’acqua che lambisce i tetti delle abitazioni e i corsi d'acqua impazziti che trascinano via corpi umani, bestiame, tralicci della luce, mezzi di trasporto.

 Già nel novembre del 1970, un disastroso ciclone ha provocato più di trecentomila morti e inondato  i due terzi del territorio. Un  paese che sembra destinato a convivere con le catastrofi, dove i morti si contano a migliaia, non fanno impressione, non suscitano pietà o costernazione, ma al massimo un moto di disgusto come quello che si prova davanti al cadavere di  una vacca gonfio d’acqua che galleggia su un corso di detriti.

 Eppure diecimila morti, tale è il numero di vittime di questi giorni, riempirebbero di corpi dieci campi di calcio, formerebbero una fila di 20 chilometri di donne, uomini, bambini straziati. Pensiamoci un attimo, prima di voltare la testa altrove, è la popolazione di un intero quartiere di una nostra città. Poi ci sono i feriti, gli sfollati  (quasi due milioni di persone costretti a sopravvivere in campi dove manca tutto), i traumatizzati, le persone che si ammalano e muoiono di dissenteria, di tifo, di colera, di fame, di sete, di stenti, di dolore.

Pensiamoci un attimo, prima di voltare la nostra testa altrove, prima di usare il cinismo consueto di chi dice “è sempre stato così, gli aiuti vengono divorati dalle burocrazie locali, da organismi inefficienti, da politici corrotti”. Ci sono organizzazioni serie, affidabili che si stanno mobilitando come “Medici senza frontiere, la Caritas  (cliccare su “Bangladesh”, appaiono le modalità dei versamenti e delle donazioni), il coordinamento delle O.N.G. italiane. Si può anche versare un euro con un sms al 48581, un modo rapido di contribuire.  Non si tratta di mettere a posto la coscienza, ma di dare un aiuto concreto a popolazioni che vivono una difficoltà estrema. Diamoci da fare, non voltiamo la testa altrove.

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Rispondi al commento:
falco58dgl
falco58dgl il 23/11/07 alle 18:16 via WEB
Non mi devi complimentare, la situazione in Bangladesh è spaventosa. Piuttosto, sostieni chi si batte per contenere i danni dell'alluvione. W.
 
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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