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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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Un libro straordinario. E’ diviso in tre parti, scritte a cavallo della caduta del muro di Berlino da una scrittrice che ha abbandonato il suo paese natale (l’Ungheria) nel 1956, dopo la repressione dei moti d’indipendenza da parte dell’esercito Russo e di quelli dei paesi della cortina di ferro, ed è approdata nella tranquilla Neuchatel, sulle rive del lago di Ginevra, nella Svizzera francese.
E’ un romanzo che pare scritto con un bisturi, qualcuno ha affermato. E’ un testo che rappresenta gli abissi dell’animo umano con una lucidità spietata, come se la scrittrice stesse effettuando un’autopsia sui sentimenti e le relazioni abituali, sull’essenza oscura soggiacente alle interazioni convenzionali.
Nella prima parte “”Il grande quaderno” si narra di due gemelli, di intelligenza straordinaria, abbandonati a causa della guerra dalla madre a casa della “nonna”, una vecchia strega che abita in una casa cadente fuori dall’abitato della città di K. I gemelli praticano esercizi per irrobustire il corpo, lo spirito, per abituarsi alla fame, assistono impassibili a un insieme di orrori che sconvolgerebbe qualsiasi adulto, ricattano, minacciano, uccidono, ma sono anche capaci di atti di generosità nei confronti di persone in difficoltà. L’autrice rappresenta la realtà psichica di bambini di 8 o 9 anni in modo sconvolgente, a partire dal punto di osservazione dei due giovani protagonisti. In alcuni punti, la lettura diventa quasi insostenibile, come quando la madre, tornata a casa della nonna per riprendersi i figli, viene uccisa da una bomba, seppellita senza emozione dai figli e poi riesumata per appendere il suo scheletro a una trave del soffitto. O quando il padre, ritornato dopo anni di assenza, viene usato come supporto per evitare le mine che infestano la zona di frontiera. Passando sul corpo del padre dilaniato, i gemelli, che costituivano un’unità psichica e intellettuale, si separano. Uno si dirige verso l’esilio e l’altro rientra a casa della nonna, ormai morta di vecchiaia e consunzione.
Nella seconda parte, cambia la prospettiva e la narrazione segue lo sviluppo di Lucas, il gemello rimasto nella città di K., dall’adolescenza all’età adulta. La scrittura diventa meno estrema e crudele, come se seguisse l’evoluzione psichica del personaggio. Ma anche in questo secondo episodio della trilogia non mancano gli orrori, come il suicidio del bambino “adottato” da Lucas e che pare ripercorrere le stesse tappe di suo “padre” quando era bambino.
Nella terza parte, la realtà si presenta nella sua veste più dimessa e definitiva e i due gemelli, pur rivedendosi a distanza di 40 anni, prendono atto che il tempo li ha separati in modo irreversibile.
Un romanzo crudo, scritto in modo magnifico, senza alcuna compiacenza, con uno stile intermedio tra la favola nera e la dissezione anatomica dei comportamenti e delle relazioni.
Un dei romanzi più intensi letti negli ultimi anni.
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CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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