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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
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« Un sogno dentro un sogno | Tibet, la marcia del ritorno » |
Pubblico un raccontino "noir" scritto qualche tempo fa. Buona (speriamo) lettura...
Andrea stette a guardare il corpo disteso in una posizione innaturale davanti a lui. Le braccia aperte e rigide, la testa abbandonata, una gamba piegata quasi ad angolo retto dietro l’altra.
Una bruciatura nerastra sulla tempia destra, un foro da cui usciva un rivolo di sangue quasi raggrumato.
Andrea iniziò a lavorare metodico. La gioia che aveva provato nel vedere la rapida agonia di quel corpo era stata sostituita dal desiderio di fabbricare un’altra scena.
Non poteva considerare la propria vendetta compiuta se non l’avesse fatta franca, se non avesse potuto ripensare a quei momenti come a un atto d’amore ben riuscito, portato a termine contro la resistenza iniziale del partner.
Si mise a pulire con scrupolo le tracce, le impronte digitali che aveva lasciato in tutta la stanza, sui bicchieri, sulla scrivania, sulle pareti. Nettò il suo vestito, le mani, le scarpe da ogni traccia di sangue. Spostò il corpo, che stava diventando rigido, verso la poltrona, lo fece sedere, gli mise in mano la pistola con cui l’aveva freddato a bruciapelo sparandogli nella tempia.
Pensò con gioioso distacco che la traiettoria del colpo era perfettamente compatibile con l’ipotesi del suicidio, aveva avuto l’accortezza di sparare come se lui avesse appoggiato la canna alla tempia e si fosse fatto saltare le cervella in un momento di sconforto.
Del resto, tutti sapevano che era pieno di debiti e in preda a crisi depressive. Che abusava di alcool e di psicofarmaci. Sulla scrivania, un flacone vuoto di farmaci. Sul tavolino un bicchiere semivuoto di “single malt”.
Pensò che nessuno avrebbe potuto collegarlo alla vittima. Non si vedevano da quindici anni.
Andrea aveva fatto scomparire le tracce del suo passato con meticolosità maniacale. Nessuna carta di credito, nessun documento recente. Le ultime notizie lo davano trasferito dieci anni fa nelle isole Cayman, dove era scomparso.
Come avrebbero potuto incolpare una persona quasi inesistente? Gli venne voglia di ridere, di mettersi a saltare e a fischiettare, mentre chiudeva la porta, scendeva le scale e si preparava a tornare nell’anonimato.
Era quasi giù per strada quando si guardò le mani. Scorse una piccolissima macchia di sangue sotto l’unghia del pollice. Non riusciva a toglierla, per quanti sforzi facesse. Entrò in un bar, si diresse verso il bagno, s’insaponò le mani con cura, ma non riusciva a dissolvere quella traccia brunastra. Anzi, più moltiplicava gli sforzi, più la macchia s’allargava e ricopriva il polpastrello, l’intero dito, la mano, il braccio.
Scosse la testa, pensò di essere in preda ad allucinazioni, si lavò frenetico le mani sfregando fino ai gomiti, ma il sangue lo guardava lucente, lo assediava, imbrattava i suoi vestiti, colava giù dappertutto.
Quando lo vennero a prendere ringraziò con parole sconnesse gli uomini che lo portavano via.
IL MIO ROMANZO
CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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