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Verso la Gianavella...

Post n°260 pubblicato il 07 Aprile 2008 da falco58dgl
 

Il ripido sentiero che attraversa il bosco  si perde in mezzo a un spesso tappeto di foglie, alberi caduti e ricci di castagna. L’agriturismo è ormai nascosto dalla pendenza del terreno. Ci inerpichiamo sbuffando in mezzo alla vegetazione tenendoci agli arbusti, aggrappandoci ai tronchi, saggiando con i piedi un cumulo di pietre in equilibrio instabile. Ritroviamo il sentiero e arriviamo su un cammino più ampio che corre sul versante del colle. Da un lato, la Val Pellice e i paesi di Torre e Lucerna che popolano il fondovalle e lo rendono di notte simile a un presepe pieno di luci; dall’altra parte il vallone di Rorà, quasi disabitato  e aperto su un palcoscenico di montagne innevate.

Scendiamo giù dal colle, prendiamo un tratto di strada asfaltata e deviamo verso la Gianavella di sopra, una frazione di poche case, qualche stalla che pare abbandonata e una  fontana di acqua  fresca – un tubo di ferro che versa un getto d’acqua cristallina in una vasca di pietra e una tazza di plastica che qualcuno ha premurosamente legato all’estremità del tubo- che ci permette di dissetarci, in questo mese di Aprile, in questo giorno di primavera piena.

Ancora qualche centinaio di metri in discesa e arriviamo alla Gianavella di sotto. Mi viene da sorridere pensando che solo nelle valli alpine  un pugno di dieci case viene indicato con due nomi differenti. Ma per la Gianavella di sotto c’è una ragione: è il luogo dove ha abitato nel mille e seicento Giosuè Gianavello, eroe dei valdesi al tempo delle persecuzioni e del “glorioso rimpatrio”. La casa è di pietra antica e, da una veranda, si scorge un panorama superbo sul vallone. A fianco della casa storica, una costruzione di pietra e legno più moderna, un luogo di soggiorno per gruppi e  famiglie, dove parecchi anni fa abbiamo passato vacanze di Natale indimenticabili, con una dozzina di amici, due cassette di Freisa, alimenti per  quattro giorni, la neve che formava una coltre candida sugli alberi e nel bosco e una vasta sala comune riscaldata da una stufa panciuta che accoglieva le nostre risate e il desiderio di stare insieme.

Ci sediamo su alcune sedie poste sul cortile della casa e lasciamo che i nostri occhi vadano alla  ricerca del profilo delle montagne. Il paesaggio è magnifico, pare un giardino zen composto da alberi dai fiori bianchi e tonalità pastello che confina con uno sfondo di monti impervi e imbiancati dalle neve.

Mi sento bene, mi guardo intorno, avverto un senso di pace e serenità che  sospende il corso del tempo,  mi sorprendo a pensare che, ogni volta che torniamo in Val Pellice, la passeggiata verso la Gianavella assume un significato rituale, quasi un omaggio, un tributo a uno dei miei luoghi, una rivisitazione che, negli anni, acquisisce sfumature e significati nuovi, in cui passato e presente si arricchiscono invece di  sottrarsi qualcosa a vicenda.

Sulla strada del ritorno verso l’agriturismo mi sento contento come un giovanotto. Scherzo con mia moglie e mio figlio, ridiamo di sciocchezze. Mio figlio prende un bastone  e lo trasforma in katana,  mi fa vedere quali sono i movimenti base dell’Aikido. Io prendo la katana e la ritrasformo in bastone, pensando che mi tornerà utile nella discesa sul tappeto di foglie. Ho una gran fame, dico loro affrettando il passo.

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Rispondi al commento:
falco58dgl
falco58dgl il 09/04/08 alle 00:11 via WEB
Di quale pubblicità vai parlando, anonimo/a? Ho postato un pezzo su un fine settimana in campagna. Non mi sembri troppo sveglio/a... :-D W
 
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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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