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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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ANTONIO NASAR (da "Sguardi")

Post n°10 pubblicato il 28 Novembre 2005 da falco58dgl

Uno

Antonio Nasar si svegliò sapendo cosa fare. Finito il peso che gravava su di lui come un cumulo di pietre. Terminata l’epoca dell’incertezza, dei rinvii, dei troppi caffè bevuti al bar di Ibrahim mentre aspettava che le ore scivolassero fissando un punto qualunque della strada. Scomparso quel torpore che lo incatenava al letto, alla casa cadente, al vicolo perso nella città vecchia, al quartiere labirintico in cui la sua famiglia aveva vissuto per dodici generazioni, prima di estinguersi quasi per intero. Lontano lo sguardo di Fatima, i giochi nella campagna di Baalback, gli olivi e le colline dove amava camminare per ore, i volti dei ragazzi con cui era cresciuto.
Si sentiva bene, quel giorno, Antonio Nasar. Libero da ricordi, dai rimpianti che, simili a una melma vischiosa, imprigionano
l’esistenza in un continuo vai a vieni dai fallimenti presenti a quelli passati, dal pensiero di ciò che sarebbe potuto diventare se fosse stato differente, più pronto, più coraggioso, meno prigioniero delle consuetudini.
Si alzò dal letto con un solo movimento, si vestì senza perdere tempo, si diresse verso la cucina dove venne salutato dal festoso abbaiare del suo cane. Lo prese in braccio, fece il gesto di accarezzarlo sotto il collo e, mentre la bestia s’inarcava per ricevere l’inaspettata carezza, gli tranciò la gola con un coltello da cucina. Lo tenne stretto un attimo, poi depose il cadavere sul pavimento.
Versò per terra del liquido incolore dall’odore acre con metodo, con pazienza. Cosparse la sala con i divani bassi e i tappeti turchi, la camera da letto,ancora in disordine, l’armadio di legno con i suoi vestiti, il piccolo bagno adornato di piastrelle rosse e marroni, l’entrata quadrangolare spoglia, persino il minuscolo balcone. Accese un fiammifero e vide le fiamme azzurrognole levarsi rapide.
Diede un’occhiata alla sua casa che bruciava, indossò il cappotto, chiuse la porta e scese l’unica rampa di scale che lo separava dal portone.
Si mise a camminare per strada mentre nugoli di persone accorrevano verso il luogo da dove era uscito. Era una giornata fresca, spazzata da un vento teso di maestrale.

Una magnifica giornata, pensò Antonio Nasar, mentre si dirigeva a passi svelti verso il porto.

Due

La nave fendeva i flutti con fatica. Era un vecchio mercantile, quasi una carretta del mare che trasportava il suo carico arrancando. Da Beirut a Cipro, da Cipro a Creta, da Creta a Malta, da Malta a Biserta, da Biserta a Orano da Orano a Cadice.
Antonio Nasar toccò terra di Spagna ventidue giorni dopo essersi imbarcato. Durante il viaggio era rimasto lunghe ore
sul ponte guardando il mare. Dormiva poco e i suoi pensieri non inseguivano più il passato. Scendeva nei porti intermedi,
camminava per quelle città a lui sconosciute, si sedeva sui moli, sostava in caffè dove si parlavano gli idiomi compositi del mediterraneo. Ma non fissava, come faceva da Ibrahim, un punto qualunque della strada. Guardava i volti, le case, i colori delle strade, catturava le espressioni di gioia, dolore, indifferenza, ostilità, derisione, simpatia. Viveva e agiva nel presente.
A Cadice rimase alcuni giorni, in una pensione di quart’ordine. Ascoltava l’andaluso secco e sibilante come una versione ignota di una lingua conosciuta.
Amava il vento, Antonio Nasar, ne decifrava le direzioni, la forza e la durata, l’influsso sulle correnti e sulle onde; amava il bianco, quel candore scritto nelle pietre, nel latte e nella neve che aveva scorto una sola volta in vita sua.
Lasciò Cadice con un larvato senso di piacere, ma senza desiderio alcuno di tornarvi. Prese un treno che, attraverso Siviglia, lo condusse fino a una città posta sull’estuario del Tago. Il fiume era così ampio che sembrava un mare: dietro di lui una grande piazza quadrata, una via rettilinea costeggiata da case basse; davanti a lui una stazione marittima e delle barche che portavano dall’altro lato del fiume.

Antonio Nasar non guardò verso il quartiere dell’Alfama, verso la cattedrale gotica, orgoglio di Lisbona, né verso le costruzioni regolari della Baixa. Aspettò che arrivasse la barca che l’avrebbe condotto a Setubal, in attesa di partire verso un angolo qualunque dell’atlantico americano.

Tre


Vera Cruz vista dal mare assomiglia a un porto qualsiasi: lunghi moli, mercantili, petroliere e navi passeggeri, una fila di
costruzioni bianche, casette con le porte colorate di verde e azzurro. Solo la vegetazione esuberante che copre la pianura e alcune colline molli e lontane la rende diversa da Larnaca e da Heraklion.
Antonio Nasar sta a braccia conserte mentre la nave s’avvicina alla terraferma e attracca. Ha viaggiato per dodici giorni senza interruzione, solo mare, vento e strida di uccelli. Calca il suolo senza emozione apparente, s’avvicina alla dogana dove spiega, a gesti, che non ha nulla da dichiarare. Deve premere un bottone posto davanti a un semaforo. Si accende una luce verde e passa con la sua valigia che assomiglia a una cartella da scuola, mentre una voce esclama “bienvenido a México”. Elude le persone che offrono servizi di taxi e alberghi economici, esce dalla zona del porto, camminando ai bordi di una strada piena di buche delimitata da padiglioni industriali e stazioni di servizio. Arriva in una piazza ampia circondata da
portici, tavolini all’aperto e bar. E’ un luogo allegro pieno di alberi che, a eccezione delle palme, gli sono sconosciuti.Vede alcune persone vestite di bianco che suonano con delle bacchette uno strano strumento che assomiglia a una pianola. Si siede a un tavolo, chiede “un café”, sbircia all’interno e scorge una monumentale macchina per gli espressi cromata e rilucente. Se si avvicinasse vedrebbe scritto, a lettere di bronzo, “Rossi, Torino, 1905”. Ma Antonio Nasar è intento a guardare gli uomini che suonano la marimba. C’è qualcosa in quel suono che lo colpisce, un ritmo argentino e brillante che ricorda altri tempi, altri sguardi, sonorità diverse e antiche, nenie cantate da una persona dal volto indecifrabile a Baalbeck prima di addormentarsi.
Scaccia quei ricordi, Antonio Nasar, come chi allontana
un pugno di mosche fastidiose. Beve il suo caffè, rimane a lungo seduto per appropriarsi del luogo. Si alza per andare a cercare una pensione, mentre il sole inizia a declinare e lo
abbacina per un istante.

“Il mio viaggio è finito”, mormora come se stesse salmodiando un versetto del Corano.


Quattro

Filtra il sole sulla piana di Alvarado, illumina una distesa di campi di mais, di alberi di mango e di ananas, di piantagioni di caffè rosseggianti. Qualche nuvola orlata di rosa, verso l'estremità del cielo.
Antonio Nasar si sveglia presto, come è solito fare ormai da dieci anni. Si affaccia alla porta della casa, intuisce il profilo del fiume, si mette a lavorare nel suo orto, senza perdere tempo, con calma operosa.
I suoi pensieri non hanno più paura di inseguire il passato. Lo accarezzano come mani che curano campi di pomodoro e granturco. L'hotel "Estrella del mar", i lavori casuali trovati al porto,l'amicizia con Mohammed Ibn Al Khalifi, il commercio del caffè, prima come semplice raccoglitore, poi come distributore su un furgone che percorreva le strade tra Vera Cruz e Oaxaca, infine come socio e produttore, la sua casa persa in mezzo al verde e al giallo del mais, le colline e il profilo, nelle giornate trasparenti e adamantine,
del pico de Orizaba, montagna altissima che domina la sierra di Puebla, tutto questo ricorda Antonio Nasar mentre riceve il sole che abbacina il suo volto come in un pomeriggio di tanti anni fa.
Non è un uomo di montagna, Antonio Nasar. Ha vissuto tutta la sua vita tra mare, pianura e lande aride, orizzontali e scabre.
Ma una volta è stato attratto dalla vertigine del vulcano. Ne avvertiva l'odore, il movimento segreto che pulsava nelle sue viscere. E si è incamminato lungo la dorsale dell'Iztaccíuhatl lungo una pista di sabbia che gli ricordava altri luoghi, altri tempi, altre estensioni. Scese dal vulcano con una lieve sensazione di nausea causata dall'altezza che si mescolava a un senso di vertigine come chi rimane troppo tempo aggrappato a un 'idea e non riesce ad allontanarsene, se non a prezzo del proprio equilibrio.

Tornò nella sua casa, nella piana di Alvarado e, ogni tanto, riprendeva a scrutare il mare e a decifrare i venti. Ma adesso ha solo occhi per le sue piante che vuole veder crescere rigogliose ed alte.
Mentre lavora, scorge una sagoma che si muove rapida tra i campi di granturco. Anzi, guardando con attenzione, si potrebbe percepire una doppia presenza. Un corpetto viola su una gonna gialla e un animale che corre, torna indietro, sembra precedere i propri passi.
Ma Antonio Nasar guarda verso il fiume, pare respirare la direzione dei venti, si china verso una pianta e, con un colpo secco, la libera dalle erbacce che l’avvincono.


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Rispondi al commento:
ladyjane1
ladyjane1 il 30/11/05 alle 23:52 via WEB
Te lo scrissi tempo fa... sai esprimere tempi e fotografie come fossero realtà... o forse la realtà è oltre il pensiero del razionale??? grazie come sempre :o) ladyjane1
 
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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