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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.
SOLIDARIETÀ CON RED LADY E CON LOCANDA ALMAYER!
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(palazzo della Moneda, Santiago del Cile, 11 settembre 1973)
L’ aria è fresca, il cielo terso. Una mattina tranquilla di fine estate su in montagna, nelle valli valdesi, a lavorare nel centro ecumenico. Cosa hai detto? Allende si è ucciso, colpo di stato militare in Cile. No, non si è ucciso, l’hanno ammazzato i golpisti mentre resisteva nel palazzo della Moneda. Ma come? Cazzo, non può essere. E’ così, ti dico, lo sentito adesso alla radio. Sembra che ci siano migliaia di arresti. Grandissimi figli di puttana, c’è la Cia di mezzo, di sicuro. Pinochet, così si chiama quel maiale, il capo dei golpisti. Aspetta, fammi ascoltare. Dicono che Pinochet era il capo di stato maggiore delle forze armate e che ha rovesciato il governo per “mettere fine all’anarchia dilagante nel paese e per riportarlo alla libertà”. Andiamo, andiamo ad avvisare gli altri, non ci posso credere.
***
Meno 6, 32%? Ma che diavolo…forse ho visto male. Infatti, ho visto male. E’ meno 6, 52%. La Borsa da’ i numeri. Cosa sarà successo? Andiamo su “Virgilio”, diamo un’occhiata alle notizie. Forse hanno diffuso i dati trimestrali dell’economia statunitense e agli investitori non sono piaciuti.
Però, il 6, 5% in meno. Cosa? Un’aereo ha centrato una delle due torri gemelle? Quelle altissime, nel sud di Manhattan? Cazzo. I conti tornano. Lì sono concentrate le direzioni delle multinazionali di mezzo mondo. Certo che il traffico aereo… un attimo, un attimo. Hanno centrato anche la seconda torre? Cristo santo, altro che traffico aereo. Non si esclude un attentato terroristico. Certo, come fanno due aerei ad incocciare per caso due scatoloni alti e stretti uno a fianco all’altro? Ma chi può essere stato? Come si fa ad essere così pazzi? Un aereo è caduto sul Pentagono? Pazzesco, qui ci scappa la guerra, la terza guerra mondiale. Corro a casa, ci sarà una diretta interminabile..
***
“El pueblo unido jamàs serà vencido”, ogni volta che scandivo questo slogan mi sembrava di prendere in giro qualcuno. Più il coro aumentava d’intensità, più la menzogna era palese. Cantavamo le canzoni di una persona a cui avevano tagliato le mani nello stadio-lager di Santiago. Accoglievamo militanti stralunati e stupiti o opportunisti in cerca di successo all’estero come se fossero eroi, come un’icona della nostra cattiva coscienza. I massacrati, i desaparecidos, le torture, gli stupri, la Cia che aveva curato la regia dell’operazione, gli interessi imperiali dell’America, li usavamo per riempirci di indignazione, per essere dalla parte dei giusti. Era una vita che avevamo ragione, che esibivamo e ci appropriavamo delle ragioni degli altri.
***
Mi viene da piangere. Cerco di frenare quest’accesso che mi fa singhiozzare come uno scemo, ma l’immagine delle persone che si buttano dal centesimo piano delle torri mi appare insostenibile. La visione ripetuta degli aerei che entrano ed esplodono fondendo l’acciaio è diventata reale, ha perso i contorni di un videogioco. Il dolore attonito delle persone, la ricerca frenetica dei dispersi, lo stupore fisso e traumatizzato di due donne che si nascondono dietro un’automobile, i commenti. “Nulla sarà più come prima, siamo in guerra, attacco armato al cuore dell’occidente”, i titoli dei giornali fungono da cassa di risonanza di un evento gigantesco che non ha bisogno di enfasi o sottolineature per essere percepito come epocale, uno spartiacque tra il “prima” ed il “dopo”, i cui effetti si misureranno nel tempo.
Ma adesso New Iork, la città che vidi dai finestrini di un aereo in un gelido pomeriggio di Gennaio di tanti anni prima, brucia, brucia e avvampa.
***
Siamo scesi in piazza una, due, tre, quattro, cinque sei volte, con rabbia ostinata. Quell’11 Settembre era una data, una ricorrenza, la prova che il male esisteva e che doveva essere sradicato con una lotta tenace. Uno scrittore argentino scrisse che Lucifero governava il mondo e che aveva occultato gli esiti della sua vittoria, facendo credere di essere stato sconfitto da Dio. Storia antica, ma noi non avevamo tempo, avremmo voluto vincere le tenebre negli anni della nostra giovinezza.
Col tempo, altri anniversari si sono avvicendati, la caduta del muro di Berlino, il 23 maggio in cui un’automobile fu disintegrata da mezza tonnellata di esplosivo, un 19 settembre dell’85 che assume un valore troppo personale per essere divulgato.
Ma intanto ci stavamo congedando dalla prima parte della vita.
***
Ho comprato oggi il supplemento di un giornale. Undici scrittori ricordano l’ultimo 11 di settembre. C’è chi racconta dove si trovava in quel momento, chi scrive un racconto su un ciccione che si piscia addosso, chi descrive le sensazioni provate volando sulla città ferita, chi parla di una venditrice di pesce di Odessa, capitata per caso a New York. Ma il testo che più mi ha avvinto sembra non aver nulla a che fare con la ricorrenza. Ha un linguaggio dolce, un andamento lento. Parla di un uomo che non riesce più a pregare. Mi ricorda una giornata di sole di quasi quaranta anni fa, una bella giornata, dall’aria fresca e il cielo terso.
(Twin Towers, New Iork, 11 Settembre 2001)
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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