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Ho visto un film che mi ha molto colpito. Tratta del fondamentalismo in Mali e dell'oppressione delle comunità musulmane locali. E' un'opera rigorosa, che riesce a fondere la denuncia di una situazione intollerabile con squarci di poesia. Il regista è Sissako, il film s'intitola "Timbuktù".
Sfiancala, non ucciderla", questa è la frase di un gruppo di jihadisti che insegue una gazzella a bordo di un pick up nella savana del Mali. "Sfiancala, non ucciderla" appare come una metafora, è un'espressione che interpreta l'essenza stessa dello jihadismo, spesso forza d'occupazione che arriva da altri paesi, assoggetta intere comunità musulmane e impone una ideologia regressiva basata su una distorsione fondamentalista del Corano. E' proibita la musica, è proibito il fumo, il calcio, non si può stare seduti sulla soglia di casa, le donne devono portare velo integrale e guanti, è proibito conversare in gruppo per strada.
Metafora parziale perché i fedeli non vengono soltanto sfiancati dalle proibizioni e dalle censure, ma vengono anche uccisi - la lapidazione della coppia non sposata-, frustati a sangue -i giovani che sfidano il divieto di fare musica-, violentati nelle loro tradizioni-le donne date in matrimonio forzosamente ai combattenti-.
Il film di Sissako -regista nato in Mauritania, vissuto in Mali e maturato artisticamente in Francia- ricostruisce in modo rigoroso e formalmente ineccepibile l'oppressione di una comunità soggetta alla shari'a nei pressi di Timbuktù, mitica città tuareg, crocevia dei sultanati che raggiunsero un elevatissimo grado di civilizzazione più di 600 anni fa.
Lo fa mettendo a confronto l'ideologia totalitaria e violenta dei fondamentalisti con la spiritualità autentica dell'imam locale e soprattutto con l'affetto profondo di una famiglia che vive sotto una tenda tra le dune del deserto allevando una piccola mandria di mucche. Una delle mucche, portate ad abbeverarsi nel fiume, si impiglia nelle reti di un pescatore e viene uccisa. Kidane -così si chiama il capofamiglia- non accetta il sopruso e cercherà giustizia...
Qualcuno ha scritto che Timbuktù non è un film antiislamico. La notazione è pienamente condivisibile. E' il fondamentalismo ad essere una pratica antireligiosa e disumana, mentre i membri della comunità vivono una spiritualità profonda e connaturata col loro modo di vivere, che convive con un ambiente maestoso e splendido, fotografato in modo magnifico. Il film di Sissako sviluppa questa antinomia in modo intenso e fluido, con una grande padronanza tecnica ed espressiva, evitando di cadere in facili contrapposizioni pedagogiche. Gli jahidisti fumano di nascosto, parlano di calcio, applicano la legge coranica in modo ottuso e spietato, ma evitano gli eccessi degni di un film dell'orrore commessi dall'Isis. Assomigliano ai Talebani in Afganistan, ma ciò è forse ancora più inquietante, perché suggerisce che il fondamentalismo, nella sua pratica quotidiana, non ha bisogno di decapitare ostaggi o bruciare vivi i piloti, "si accontenta" di sottomettere le coscienze e la vita quotidiana delle comunità che opprime.
L'opera di Sissako mi è parsa dolorosamente splendida, intrisa di emozioni autentiche, di spiritualità che sembra nascere e levarsi dal cuore pulsante dell'Africa, dai suoi fiumi, dalle sue estensioni ondulate senza fine. Suggerisce che la lotta per liberarsi da oppressioni vecchie e nuove è complicata e lunga, ma indispensabile per recuperare dignità e una prospettiva di speranza.
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CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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