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Messaggi di Dicembre 2018

Crisi, due alternative per uscirne e garantire la crescita economica

Post n°4362 pubblicato il 14 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 13 dicembre 2018 

 

 

di Stefano Di Bucchianico *

Nei modelli economici della teoria dominante non è concepibile che politiche fiscali coraggiose guidino la crescita. Bisogna guardare ai modelli post-keynesiani. Un recente dibattito tra Larry Summers e Joseph Stiglitz apparso su Project Syndicate ha riacceso i riflettori sulla teoria della stagnazione secolare (in seguito SS). Successivamente, Paul Krugman ha preso parte alla diatriba con un intervento sul suo blog sul New York Times. Come si vedrà dalla ricostruzione del dibattito, a confronto vi sono la posizione di Stiglitz, che guarda alla stagnazione come risultato di un’inadeguata politica fiscale espansiva, e quella di Summers e Krugman, i quali da un lato ritengono necessario uno stimolo fiscale in situazioni di trappola della liquidità, ma dall’altro giudicano la polemica di Stiglitz priva di contenuti realmente nuovi rispetto a quanto da loro proposto.

Il dibattito

La SS, coniata originariamente da Alvin Hansen (1939) durante gli anni 30 a seguito della Grande depressione che colpì gli Stati Uniti, è stata ripresa e riaggiornata negli ultimi anni da Larry Summers (2014, 2015). Krugman (1998) ne propose una versione embrionale già nei tardi anni 90, discutendo le possibili cause della perdurante stagnazione giapponese. In seguito ha sostenuto la pressoché totale sovrapponibilità tra la sua spiegazione e quella data da Summers. Nella più recente versione di Summers, la rilevanza della politica fiscale torna in auge: in situazioni di stagnazione persistente essa è giudicata preferibile rispetto alle misure di politica monetaria che convenzionalmente agiscono tramite un abbassamento del tasso di interesse di riferimento controllato dalla Banca centrale. Tale prescrizione di politica economica sarebbe preferibile, in quanto la politica monetaria avrebbe esaurito la propria efficacia una volta raggiunto il cosiddetto “zero lower bound” sul tasso nominale dell’interesse di politica monetaria.

Nel dibattito menzionato in apertura Stiglitz ha criticato la lettura data dai teorici della SS della non soddisfacente ripresa dell’economia Usa nel periodo post-Grande recessione del 2008, ossia che i bassi tassi di crescita testimoniati dall’economia americana sarebbero una situazione destinata a permanere. Stiglitz argomenta come la lenta ripresa sia stata dovuta a uno stimolo fiscale (rappresentato dagli 800 miliardi di dollari del piano Obama) insufficiente, non quindi a un’inerente tendenza alla stagnazione. La SS sarebbe perciò sostanzialmente una scusa per coprire la responsabilità attribuibile alle insufficienti politiche di domanda del governo.

Nelle sue parole: “L’improvviso incremento del deficit statunitense, da circa il 3% a quasi il 6% del Pil, dovuto a un mal congegnato sistema di tassazione regressivo e a un aumento della spesa bipartisan, ha spinto la crescita intorno al 4% e portato la disoccupazione al livello più basso degli ultimi 18 anni. Queste misure possono essere mal concepite, ma dimostrano che con un sufficiente stimolo fiscale il pieno impiego può essere raggiunto, anche se i tassi di interesse salgono ben al di sopra dello zero”.

Summers ha risposto a tali argomentazioni sostenendo che la teoria della stagnazione secolare non ha come idea di fondo l’inevitabilità di una persistente crisi, ma al contrario cerca di porre l’attenzione sulle politiche fiscali come soluzione principale da adottare. A suo dire, seppur lo stimolo fiscale non sia stato pienamente soddisfacente, esso era il massimo ottenibile all’epoca date le condizioni politiche. Concludendo la risposta a Stiglitz, Summers tenta una sintesi tra le due posizioni, puntualizzando però circa l’affidabilità della propria impostazione teorica: “Anche se siamo in disaccordo sui passati giudizi di stampo politico e sull’uso del termine ‘stagnazione secolare’, sono lieto che un eminente teorico come Stiglitz concordi con ciò che intendevo enfatizzare con la riproposizione di quella teoria: non possiamo contare su politiche del tasso d’interesse per assicurare il pieno impiego. Dobbiamo sforzarci di pensare a politiche fiscali e misure strutturali per supportare una sostenuta e adeguata domanda aggregata”.

Continua su economiaepolitica.it

* dottore di ricerca Università di Roma Treua

 

 

 

 
 
 

Deficit Francia vola oltre il 3%, Di Maio protesta. Addio al patto di stabilità Ue?

Post n°4361 pubblicato il 12 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I.  12 dicembre 2018, di Alberto Battaglia

 

La protesta dei gilet gialli, dalle problematiche di ordine pubblico rischia di provocare una nuova disputa politica fra Commissione Ue e governi nazionali. Le concessioni che il presidente Emmanuel Macron ha annunciato per lenire le proteste di piazza, infatti, “avranno conseguenze in termini di spesa [pubblica] e necessariamente implicheranno conseguenze in termini di deficit – e sappiamo che ne avranno sul deficit del 2019”.

Lo ha dichiarato con chiarezza il premier francese Edouard Philippe. E a quantificare tale impatto ci ha pensato il ministro dei Conti pubblici, Gerald Darmanin: il nuovo rapporto deficit Pil, stanti le nuove spese, arriverebbe al 3,4%. Una notizia che ha contribuito a riportare lo spread francese, rispetto ai Bund, ai massimi dal maggio 2017. E ad scatenare le proteste delle autorità dei paesi meno virtuosi come l’Italia.

Patto di stabilità in bilico

Al di là delle conseguenze sul piano strettamente finanziario, il problema che si pone è di tipo politico. La Commissione europea, infatti, di fronte a un deficit previsto al 2,4% dal governo italiano ha immediatamente agitato lo spettro della procedura d’infrazione. Accadrà lo stesso in vista di un deficit francese al 3,4%?

Il patto di stabilità e crescita e con esso la regola aurea della soglia del deficit al 3%, fissata in modo relativamente casuale ai tempi, non sono mai stati così in dubbio.

Soglia deficit: Salvini e Di Maio coglieranno palla al balzo

L’occasione per raccogliere la polemica non è andata sprecata. Il vicepremier Luigi Di Maio ha dichiarato, infatti, che i francesi di “dovranno per forza aumentare il deficit e si aprirà anche un caso Francia, se le regole valgono per tutti“.

“La spesa [pubblica] di Macron incoraggerà Salvini e Di Maio”, ha detto a Bloomberg il politologo e professore ordinario Giovanni Orsina (Università Luiss-Guido Carli di Roma), “Macron avrebbe dovuto essere la punta di diamante delle forze europeiste, se lui stesso è costretto a sfidare le regole dell’Ue, Salvini e Di Maio si faranno avanti sulla spinta di ciò, per ribadire che quelle regole sono sbagliate“.

Al momento la posizione di Bruxelles rispetto alle novità del budget francese restano attendiste: le valutazioni sono rimandate a quando il nuovo piano economico sarà definito nel dettaglio. È in rialzo il rendimento dei titoli di riferimento francesi, con il tasso della scadenza decennale che ha toccato temporaneamente il livello più alto in un anno (di 0,756%). Lo Spread con la Germania si è ampliato a un certo punto a 47,5 punti base (i massimi da maggio 2017).

 

 
 
 

Migranti e debito, la controversa proposta di Soros per l’Europa

Post n°4360 pubblicato il 11 Dicembre 2018 da ninograg1
 

(sentite, anzi leggete) questa...

Fonte: W.S.I. 11 dicembre 2018, di Alessandra Caparello

 

Insoddisfatto dell’attuale politica dell’UE per i rifugiati perché si basa ancora sulle quote d’ingresso, Georg Soros, imprenditore e attivista ungherese naturalizzato statunitense, propone ai capi di Stato e di governo dell’UE una ricetta che si basa sul debito.

Se da una parte considera importante investire nell’arrivo dei migranti che, a suo dire, aiuterebbe a mantenere l’afflusso di rifugiati a un “livello che l’Europa può assorbire”, il filantropo ungherese, acerrimo nemico del premier Viktor Orban, è consapevole che i costi del suo “piano di scambio etnico” sono finanziariamente difficilmente attuabili.

Oltre ai già enormi costi causati dai migranti già presenti in Europa, secondo le stime dell’ONG olandese GEFIRA, un numero così elevato di nuovi arrivati aggiungerebbe circa 30 miliardi di euro all’anno. Il piano di Soros poggia su due pilastri: il finanziamento dei migranti e quello dei paesi extraeuropei che ricevono principalmente migranti (e che egli stesso sostiene con le sue attività filantrope).

Lo speculatore finanziario chiede anche l’introduzione di una nuova tassa per aiutare gli Stati Membri nella crisi dei rifugiati, tra cui un’imposta sulle transazioni finanziarie, un aumento dell’IVA e la creazione di fondi per i rifugiati.

Soros sa, tuttavia, che tali misure non sarebbero accettate da alcuni paesi dell’UE, per cui propone una soluzione politica diversa, che non richiede un voto nei paesi sovrani e che riguarda il debito pubblico. Per il magnate ottantenne il nuovo debito dell’UE dovrebbe essere contratto approfittando del suo status di credito in posizione AAA in gran parte inutilizzato, emettendo obbligazioni a lungo termine, il cui ricavato potrebbe essere usato per dare impulso all’economia europea.

I fondi potrebbero provenire dal MES (ESM nell’acronimo inglese), il meccanismo europeo di stabilità e dal BoPA (Balance of Payments Assistance Facility), istituzione comunitaria di sostegno alla bilancia dei pagamenti. Soros calcola che entrambi gli istituti hanno una capacità di credito di 60 miliardi, che dovrebbe aumentare quando Portogallo, Irlanda e Grecia rimborseranno annualmente i prestiti ricevuti durante la crisi dell’euro.

Così facendo i vecchi debiti verrebbero utilizzati per finanziare nuovi debiti, in modo tale da non gravare ufficialmente sul bilancio di nessuno degli Stati membri dell’UE.

 

 
 
 

I gilet gialli hanno fame? Purtroppo per Macron anche i croissant costano troppo

Post n°4359 pubblicato il 10 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo | 10 dicembre 2018 

 

 

Si avvicinava la fine del secolo, e nella capitale di un Impero una sfortunata regina, suggerì al popolo di mangiare croissant, dato che il pane scarseggiava. Il popolo affamato, stanco, stremato da tasse e soprusi della media nobiltà, non la prese bene. La sua uscita, ammesso che sia stata veramente pronunciata da lei, è divenuta parte del pacchetto della “storia ufficiale” della rivoluzione francese. Emmanuel Macron oggi sembra la versione al femminile della famosa regina (che perse la testa per il popolo e le sue scelte).

C’è una grande differenza tra quella regina, avulsa dal mondo vero, e il signor Macron: l’informazione. Malgrado si possa criticare i media, come delatori, sobillatori o cospiratori del potere, i media hanno ancora lo scopo di tenere informati i cittadini su quello che succede. Al peggio se non ci si vuol fidare dei media i normali strumenti social sono perfetti per acquisire dati grezzi.

La Francia e i gilet gialli sono solo l’ennesimo esempio di una classe politica che ha deciso di ignorare il popolo. Bene inteso il mio non è un discorso politico. Ma mettiamola in questo modo: se Macron è il “nuovo che avanza” come era stato ribattezzato il suo movimento, allora sarebbe meglio tornare al vecchio. Macron dimostra di essere come quella regina, addirittura sono giorni che non si fa vedere sui media (un giorno sui social equivale a un’epoca nel mondo normale).

Ma cosa succede veramente in Francia? In verità nulla di nuovo. La classe media (di cui i taxisti sono solo una parte) si sente sempre più oppressa. I cittadini possono leggere su Internet tutto quello che succede e dissentire. Internet ha creato due grandi opportunità. La prima, all’apparenza, a vantaggio di un governo che ci tiene ai suoi cittadini: se usato correttamente (vedi Cina, correttamente è un eufemismo, si intende) Internet è il miglior sistema di controllo esistente. E la Cina dimostra chiaramente come si può controllare la vita dei cittadini in modo efficace e pervasivo.

Se restiamo nel mondo occidentale, Internet appare essere uno strumento valido per creare il seme di un dissenso che, se non intercettato si manifesta nella vita reale. I gilet gialli sono nati in rete e la loro organizzatrice nemmeno è una taxista: Priscillia Ludosky vende prodotti per aromaterapia in rete. Il movimento di per sé è un confluire di differenti gruppi di rivolta che si sono incontrati (in questo i social aiutano) e hanno cominciato a “scaldarsi a vicenda”. Di qui alla piazza il percorso ha preso alcuni mesi ma ora è mainstream. E la teoria del gregge (roba da sociologi dei decenni passati) fa il resto. Per imitazione altri prendono la piazza, poi si aggiungono un po’ di bravi “spacca tutto” (blackblockers, teppisti scegliete il termine che preferite) e il gioco è fatto.

Viviamo un’epoca della storia umana senza precedenti per fattori di comunicazione e interazione. E sorprendentemente i politici sono così ignoranti e inabili a utilizzare questi strumenti in modo corretto. Nel caso della Cina (ma ci sono anche altre nazioni meno famose) la rete è divenuta uno strumento di controllo efficiente e brutale (nella sua accezione finale, vedi islamici Hyuguri nei campi di concentramento, dove vengono “rieducati”). Nel mondo occidentale bastione della democrazia il massimo che possiamo osservare sono i casi di Trump che, sorprendentemente data l’età del biondo, ha saputo leggere gli animi della classe media (tra l’incazzato e l’atterrito dai rapidi cambiamenti) e ne ha fatto una bandiera. In modo rocambolesco e più primitivo (se parliamo dell’approccio tecnologico) in Italia abbiamo avuto la Lega e i 5 stelle. I partiti più globalisti (leggasi i democratici di sinistra) che, per assurdo sono stati i primi a sposarsi (qualcuno malignamente direbbe a vendersi) al capitalismo sfegatato e alle multinazionali, sono gli ultimi a percepire la potenzialità della rete, dei social e le loro applicazioni.

Alcuni secoli fa l’impero romano cadde sotto la forte pressione di una popolazione che non aveva una crescita economica sostenibile. Allora ci si poteva lamentare che avere dati e informazioni sull’andamento economico e sociale fosse difficile. Oggi non lo è più. Tuttavia l’imperatore della Francia ancora pensa che basti chiudersi in stanza al buio perché tutti i cattivi che lo vogliono alla Bastiglia se ne vadano.

Non è più tempo per i croissant… costano troppo.

@enricoverga

 

 

 

 
 
 

Censis: “Italiani popolo incattivito e rancoroso, il 63% è ostile verso gli immigrati, l’11% in più della media Ue”

Post n°4358 pubblicato il 08 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano di | 7 dicembre 2018

Italiani sempre più cattivi. Frustrati dallo sfiorire della ripresa e da un cambiamento che non è arrivato, hanno deciso di compiere “un salto rischioso e dall’esito incerto”, un “funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto così da vicino”. Così vede l’Italia e i suoi cittadini l’Istituto Censis, che oggi a Roma ha presentato il 52esimo rapporto sulla situazione sociale del paese. Alludendo alla situazione politica, l’Istituto presieduto da Giuseppe De Rita ha parlato della decisione di “forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche”. Una ricerca programmatica del “trauma”, dice il Censis, definibile come una sorta di “sovranismo psichico”, ancor prima che politico, che produce una relativa caccia paranoica al capro espiatorio.

Lo dicono i dati: il 69,7% degli italiani non vorrebbe vicini di casa rom e il 52% è convinto che si faccia più per gli immigrati che per gli italiani. Un “cattivismo” diffuso, lo definisce ancora il Censis, che porta gli italiani a temere non solo l’immigrazione da paesi extra Ue (63%) ma anche da paesi comunitari (45% contro il 29% medio). Non troppo paradossalmente, i più ostili verso gli immigrati sono gli italiani più fragili, anziani e disoccupati, mentre il dato scende al 23% tra gli imprenditori. In generale, per il 75% degli italiani l’immigrazione aumenta la criminalità e solo il 37% ritiene che abbiano un impatto positivo sull’economia.

Convinti di non poter migliorare e pessimisti

Le ragioni di questo salto risiedono, come spesso sottolineato dall’Istituto di ricerca nei precedenti rapporti, nella paura delle classi a basso reddito di restare nella condizione attuale, senza nessun possibile miglioramento: lo credono il 96% delle persone con basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito. L’Italia è ormai il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori: il 23%, contro una media Ue del 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania. Il 63,6% degli italiani è convinto che nessuno ne difenda interessi e identità, e che tocchi a loro stessi pensarci (e la quota sale al 72% tra chi possiede un basso titolo di studio e al 71,3% tra chi può contare solo su redditi bassi). Rispetto al futuro, solo il 33,1% degli italiani è ottimista.

Su le esportazioni in Europa, giù l’europeismo

Mentre gli investimenti e consumi sono più bassi del 2010, sale invece l’export del 26,2% (+7,4% rispetto al 2016), con un saldo commerciale positivo di 47,5 miliardi, un dato che posiziona l’Italia al nono posto tra i paesi esportatori, con 217.431 aziende esportatrici, per lo più in Europa. Nonostante questo, e nonostante l’Italia sia il quinto paese per finanziamenti ricevuti dalla UE e il quarto per numero di progetti finanziati, solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza alla Ue abbia giovato all’Italia, un dato molto basso rispetto alla media europea del 68%. Più europeisti sono i giovani, peccato che il loro numero sia diminuito ovunque in Europa, e soprattutto in Italia, il paese con la più bassa percentuale di giovani (20,8% tra i 15 e i 34 anni).

Italiani, astenuti convinti

Venendo alla politica, il Censis evidenzia come il primo partito italiano sia quello del non voto. 13,7 milioni sono infatti gli astenuti o i votanti scheda bianca alla Camera nelle ultime elezioni, una percentuale che ha toccato nel 2018 il 29,4% contro l’11,3% del 1968. La metà degli italiani, con poche differenze tra chi ha un reddito basso e chi più alto, ritiene che i politici siano tutti uguali. Gli italiani sono invece divisi rispetto all’uso dei social network in politica tra chi li ritiene dannosi e chi utili o preziosi.

Lavoro giovanile, un dramma senza fine

Un dato problematico riguarda senz’altro il lavoro: il Censis segnala come il salario medio annuo sia aumentato tra il 2000 e il 2017 solo dell’1,4%, 400 euro all’anno (+13,6% in Germania e 20,4% in Francia). Non solo: dal 2000 al 2017 sono scesi di oltre un milione e mezzo gli occupati giovani (27,3%), mentre sono aumentati gli occupati “anziani” (55-64). In dieci anni siamo passati da un rapporto di 236 giovani occupati ogni 100 anziani a 99, mentre nel segmento più istruito i 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani del 2007 sono diventati appena 143. Sono raddoppiati i giovani sottoccupati e aumentati esponenzialmente quelli costretti a un part time forzato: ben 650.000 nel 2017 contro i 150.000 del 2011.

La disoccupazione giovanile è fortemente legate al tema della formazione. L’Italia investe in istruzione e formazione il 3,9% del Pil contro una media europea del 4,7%. I laureati sono il 26,9% contro una media Ue che ha toccato il 39.9%, mentre gli abbandoni scolastici riguardano il 14% contro una media Ue del 10,6%. 11.257 sono gli euro spesi per studente contro i 15.998 della media Ue.  Scende pure la spesa pubblica destinata alla ricerca, dai 10 miliardi del 2008 agli 8,5 del 2017.

La corsa della disintermediazione digitale

Mentre i consumi delle famiglie sono ancora appesi al palo – meno 6,3% rispetto a quello del 2018 – e la forbice tra i gruppi sociali continua ad allargarsi – meno 1,8% della spesa per consumi delle famiglie operaie, +6,6% quella degli imprenditori –  corre invece la spesa per i telefoni (+221,6%) e aumenta in maniera esponenziale l’utilizzo di dispositivi digitali e del web, a cui si connette oggi il 78,5% degli italiani, quasi sempre tramite smartphone e quasi sempre sui social network. Per il Censis non si tratta di un fenomeno necessariamente positivo.

Nell’era biomediatica – si legge – in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più”. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente “fondamentale” per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani).

Precari anche i sentimenti

Come sempre, anche in questo rapporto il Censis focalizza la sua attenzione sulle relazioni affettive. La tendenza è la stessa degli anni precedenti: ci si sposa sempre di meno e ci si lascia sempre di più. Crollano i matrimoni religiosi (-33,6% dal 2006 fino al 2016), aumentano le separazioni (+14% dal 2006 fino al 2016). Boom della “singletudine”: i single sono più di 5 milioni.

La politica non ignori il cambiamento sociale

Tracciare un bilancio generale è difficile. Di sicuro, si legge nelle Considerazioni generali al Rapporto, “la ripartenza poi non c’è stata: è sopraggiunto un disallineamento, un inciampo, un rabbuiarsi dell’orizzonte di ottimismo e di rinvigorimento dei comportamenti individuali e collettivi e della loro vitalità economica”. Il problema è che “ogni spazio lasciato vuoto dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi”. Da un lato prevale l’individualismo: “Andiamo”, scrive il Censis, “da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società”. Dall’altro, non senza contraddizione, il popolo, attraversato da tensione, paura, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, “ricostituendosi nell’idea di una nazione sovrana e supponendo, con un’interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale”. Ma la politica, conclude il Censis, vince proprio se resiste alla tentazione di appiattimento, e propone una prospettiva di futuro dando all’annuncio un seguito. Di sicuro l’errore più grande della politica italiana degli ultimi dieci anni è stato quello di ignorare il cambiamento sociale. Anche oggi, dunque, “c’è sempre più bisogno di una responsabilità politica  che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi”.

di | 7 dicembre 2018

 
 
 

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