GABER 2; COMPLEANNO
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Messaggi di Marzo 2019
Post n°4414 pubblicato il 20 Marzo 2019 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Area pro labour
di Umberto Carabelli * Mentre sotto i riflettori dell’informazione televisiva e giornalistica si consuma la vivisezione del Reddito di Cittadinanza (RdC) e di Quota 100 (Q100), nelle stanze della politica si sta lavorando a due importanti interventi in materia di lavoro che toccano altri temi di grande rilievo, rispetto ai quali vi sono proposte del M5S e del Pd. Al confronto, le prime risultano con una certa evidenza più favorevoli ai lavoratori e ai loro sindacati. Quanto al primo tema, entrambe le proposte intendono “perfezionare” l’attuale disciplina delle collaborazioni cosiddette etero-organizzate contenuta nel Jobs Act del 2015. Il disegno di legge del Pd (S. n. 699/2018) prevede che dal 1° gennaio 2016 si applichi la disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni esclusivamente personali, la cui organizzazione sia di competenza del committente. Esso stabilisce, poi, che tale previsione si applichi dal 1° gennaio 2019 anche ai casi in cui la predetta organizzazione avvenga tramite strumenti o procedure informatizzate – come avviene per le piattaforme e i rider – a meno che non vi siano accordi collettivi “adattativi” stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi (invero già consentiti in generale dalla attuale disciplina del Jobs Act). Orbene, la norma specifica costruita per i lavoratori etero-organizzati “digitalmente” ha l’aspetto di un “favore” fatto alle piattaforme, posto che, ove mancassero detti contratti, a esse si intenderebbe comunque offrire un’entrata ritardata nel nuovo regime. Diversamente, l’intervento proposto formalmente dal ministero del Lavoro (in un emendamento al decreto sul RdC e su Q100 in corso di conversione, che peraltro risulta essere stato dichiarato inammissibile), e quindi imputabile latu sensu a Luigi Di Maio/M5S, prevede che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applichi ai rapporti di collaborazione prevalentemente (sic!) personali, la cui l’organizzazione è predisposta dal committente “anche attraverso il ricorso a piattaforme digitali”. Come si vede – a parte l’inspiegabile avverbio di quantità, che finirebbe per estendere la protezione ai collaboratori autonomi “non solitari” – qui non c’è nessuna deroga in favore delle piattaforme, ma un’immediata estensione delle tutele a tutti i collaboratori etero-organizzati, in coerenza, d’altronde, con quanto stabilito da una recente sentenza della Corte d’Appello di Torino, già in sulla base dell’attuale normativa del Jobs Act. A parte ciò, in aggiunta questa proposta prevede rilevanti disposizioni volte a rafforzare la tutela previdenziale dei lavoratori iscritti alla gestione separata Inps e a dettare una tutela della salute e contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali per tutti i lavoratori che operano sotto la morsa degli strumenti digitali. Ma è soprattutto in relazione al secondo tema, il cosiddetto salario minimo orario, che il disegno di legge predisposto dal Pd (S. n. 310/2018) risulta più deludente di quello del M5S (S. n. 658/2018), denotando una scarsa attenzione per le caratteristiche storiche del sistema di relazioni sindacali italiano. Il disegno del Pd prevede che il salario minimo orario non debba essere inferiore a nove euro, al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, nonché un meccanismo incrementale annuale collegato alle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo. Il disegno del M5S prevede, invece, una retribuzione minima oraria complessiva pari a nove euro, al lordo degli oneri previdenziali e assistenziali. Tale minimo, peraltro, assolve a una funzione per così dire residuale per i soli casi in cui i contratti collettivi firmati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative prevedessero minimi inferiori a esso: in via generale, invece, il salario minimo orario sarà quello previsto dal contratto direttamente applicabile al datore di lavoro, ovvero – qualora manchi un contratto collettivo di riferimento – da quello a lui applicabile in quanto il suo “ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente”. Nel caso poi, per scadenza o disdetta del contratto collettivo, ne venga a mancare uno applicabile, il disegno del M5S fissa la regola dell’ultrattività del “previgente contratto collettivo fino al suo rinnovo”, nonché un meccanismo di adeguamento automatico nel tempo dei relativi minimi retributivi (esteso, peraltro, anche al valore minimo dei nove euro lordi). Un’attenta lettura dei due disegni rivela la profonda differenza tra di essi. Quello del Pd ignora totalmente la diffusione capillare nel nostro Paese, dal Dopoguerra fino ad oggi, di una contrattazione collettiva che si è fatta carico di fissare le retribuzioni minime secondo differenziali corrispondenti alle varie professionalità. La previsione del valore unico e secco dei nove euro netti potrebbe, poi, risultare addirittura rischiosa per la tenuta dei contratti nazionali che fissino (come avviene nella maggior parte dei casi) minimi superiori a quel valore: la fuga della Fiat dal Contratto nazionale dei metalmeccanici è ancora davanti a noi a ricordarci la pratica possibilità di tale evenienza, in assenza di un sistema di contrattazione collettiva a efficacia generale. Diversamente, il disegno di legge del M5S appare più rispettoso dell’autonomia collettiva delle organizzazioni sindacali e dei loro contratti, proprio per i motivi sopra indicati, ed evita comportamenti strumentali poiché la clausola di ultrattività impedisce ai datori di lavoro di sottrarsi alla retribuzione minima prevista dai contratti per rifugiarsi sotto l’inferiore importo legale dei nove euro lordi. Il rinvio ai minimi dei vari livelli retributivi previsti dai contratti, inoltre, sembra assicurare la piena rispondenza ai principi sia di sufficienza che di proporzionalità richiesti dall’art. 36 della Costituzione, in quanto garantisce retribuzioni minime differenziate per livelli professionali. Insomma, una normativa, quella del disegno di legge del M5S, che appare ispirata alla recente sentenza della Corte costituzionale (n. 51/2015), la quale ha dichiarato adeguata all’art. 36 Cost., e non in contrasto con l’art. 39 Cost., la norma che impone alle cooperative la corresponsione ai soci lavoratori di trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dei contratti stipulati dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale. Certo, né l’uno né l’altro disegno di legge affrontano di petto la questione dell’attuazione dell’art. 39 Cost., cioè di una legge volta a disciplinare la rappresentanza dei lavoratori e la stipula di contratti collettivi a efficacia generale, che sarebbe la via maestra, auspicata dalle grandi Confederazioni, per la rifondazione di un sano sistema di relazioni sindacali in Italia. Ma se la politica pretende (o è capace) di intervenire al momento soltanto in materia di salario minimo, allora è bene che si rispetti comunque quanto previsto dai contratti collettivi. Concludendo, fa comunque piacere vedere all’orizzonte il ritorno di politiche di sostegno ai diritti dei lavoratori, dopo anni di mortificazione e di decrescita delle tutele. Se però il nuovo Pd vuole davvero candidarsi a rappresentare una sinistra ampiamente inclusiva, sarà bene che si rimbocchi le maniche e si attrezzi a corrispondere meglio alla domanda di tutela che viene dal mondo del lavoro, non soltanto per non essere ancora una volta scavalcato nella corsa alla ricerca del consenso, ma soprattutto per ridarsi un’anima sociale degna di questo nome, dopo tanto amoreggiare con teorie e pratiche neoliberiste. Per far ciò occorrerà anzitutto che metta da canto l’idea di disintermediazione sindacale che ha ispirato le sciagurate politiche dell’ultimo periodo. Il M5S parrebbe averlo già capito. * Direttore della Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale.
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Post n°4413 pubblicato il 19 Marzo 2019 da ninograg1
Fonte: W.S.I. 19 Marzo 2019, di Alberto Battaglia
Grazie al sostegno della Bce il rendimento del Btp ha raggiunto il livello minimo dallo scorso maggio (2,42%), mentre lo spread è passato da 241 a 234 punti – il livello più basso da settembre. Il problema della sostenibilità del debito italiano, però, continua impensierire i gestori della City, riuniti nella convention annuale degli investitori. Il problema sono soprattutto le prospettive di crescita basse unite a un debito pregresso (stock) assai elevato, che riduce le disponibilità di spesa primaria del governo. “Nel caso di una recessione accompagnata da un rallentamento della crescita più ampio anche in Europa, se il costo del debito continua a salire, possono esserci timori sulla solvibilità dell’Italia”, ha detto Paul Brain investment leader della Newton IM, intervistato dal Sole 24 Ore. E se il problema è la crescita, Brain vede poche chance che il governo del cambiamento, possa ribaltare le performance economiche italiane, deludenti da anni: “Al momento non mi sembra ci siano le premesse per un cambiamento di rotta anche con questo governo populista”.
Insomma, quello che l’esecutivo giallo verde aveva annunciato sin dall’insediamento, non fosse che questa è “una strada difficile per l’Italia fino a quando non avrà risolto i problemi dell’alto livello del debito attraverso riforme strutturali”.
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Post n°4412 pubblicato il 18 Marzo 2019 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 18 Marzo 2019 di Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia Risale a dieci giorni fa l’intervento di Mario Draghi che ha illustrato le ultime decisioni operative della Bce. I tassi fermi sono stati enfatizzati dai commentatori forse più dell’altra operazione annunciata, un nuovo round di TLTRO a scadere nel 2021. Soffermarsi su questo evento porterà ad analizzare il vero stato dell’economia europea, forse più della manovra sui tassi. La giustificazione è la problematica aspettativa riguardante il Pil dell’Eurozona e, aggiungeremmo, l’entrata in vigore dei nuovi criteri di analisi dei bilanci dei clienti affidati da parte delle banche, a seguito dell’entrata in vigore dei nuovi principi contabili IFRS9. Nella ricerca di una regolamentazione sempre più adeguata a prevenire i dissesti bancari, la Bce ha previsto l’obbligo per gli Istituti di credito di ragionare sulle probabilità di default dei crediti in portafoglio con una visione prospettica e non più statica. Con l’introduzione dell’IFRS 9, la valutazione degli accantonamenti non avviene più solo come copertura dei crediti deteriorati (incurred loss) ma sulla base delle perdite attese sugli impieghi che potranno deteriorarsi in futuro (expected loss). In sostanza, le analisi della solidità creditizia dei clienti dovranno essere effettuate con una visione di almeno tre anni, per prevenire la possibilità che gli stessi crediti possano addivenire ad un deterioramento qualitativo nel breve termine. Si è creata anche una nuova categoria di crediti, la Stage 2 o underperforming, che conterrebbe i crediti in bonis che, per una combinazione di eventi, potrebbero trasformarsi in inesigibili. La conseguenza più diretta di queste nuove norme sarà l’aumento del patrimonio di vigilanza da accantonare per i crediti Stage 2 identificati dai nuovi sistemi di allerta (Trigger AQR) che le Banche saranno obbligate ad adottare al fine di anticipare i processi di deterioramento dei crediti, accantonamento che ridurrà naturalmente i fondi elargibili per nuovi crediti, creando tensioni sui mercati. Quanto sopra svolgerà pienamente i suoi effetti dalle metà dell’anno, con la pubblicazione dei bilanci e le conseguenti revisioni degli affidamenti, ed è in quel momento che il nuovo programma di TLTRO (Targeted Long Term Refinancing Operations) dovrebbe fornire capitali freschi alle banche europee. La situazione italiana, afflitta dalla cronica situazione di crisi dei consumi e travagliata anche dai problemi causati al commercio internazionale dalle prese di posizione americane con i dazi imposti a mezzo mondo, amplificherà ulteriormente gli effetti delle norme, in considerazione anche alle performance spesso scadenti del sistema bancario nostrano. Ma per le imprese italiane i problemi non si limitano (!) a questo. Entrerà in vigore al 15 agosto di quest’anno, la nuova normativa relativa alle situazioni di crisi d’impresa che riforma il vecchio codice del fallimento. E la combinazione di queste disposizioni con la stretta creditizia sopra paventata, potrebbe essere un colpo tremendo al sistema imprenditoriale italiano. Il decreto legislativo n. 14 del 12 gennaio 2019 recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in ottemperanza a quanto stabilito nella legge delega (L. n. 155/2017) è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 38, del 14 febbraio 2019. L’intento esplicito del Legislatore, prevedere cioè l’introduzione dii strumenti di prevenzione del dissesto definitivo dell’attività, introdotto nel nostro sistema regolamentare l’istituto delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi d’impresa. Si cerca in questo modo di prevenire l’incancrenirsi di situazioni che potrebbero portare ad una procedura concorsuale, permettendo all’impresa che potrebbe ancora svolgere una funzione corretta di produzione di ricchezza e benefici per la collettività, di adottare misure di aggiustamento della situazione debitoria e gestionale. Lo svolgimento concreto della procedura prevede che venga segnalata la situazione di crisi con l’allerta sollevato da in primo luogo, dall’imprenditore, per il quale la corretta attivazione è stata “stimolata” tramite misure premiali o punitive, anche penali (art. 25); in secondo luogo (art. 14) dagli organi di controllo societari, dal revisore contabile e dalla società di revisione , i quali devono rendere noti gli indizi del dissesto all’organo amministrativo e, se quest’ultimo non si attiva, direttamente all’Ocri (organismi di composizione della crisi d’impresa, da istituirsi presso le camere di commercio (art. 16); in terzo luogo (art. 15), dall’Agenzia delle entrate, dall’Agente della riscossione e dall’Inps. |
Post n°4411 pubblicato il 15 Marzo 2019 da ninograg1
Tag: blog, economia Bank of japan, esteri, finanza, fisco, giappone, mercato, MMT, monetarismo, politica, teorie economiche Fonte: W.S.I. 15 Marzo 2019, di Mariangela Tessa
Il numero uno della Banca centrale del Giappone, Haruhiko Kuroda, critica la MMT, Modern Monetary Theory, bollandola come “estrema”. Dichiarazioni che sollevando un polverone sul web, visto che come ricordato alcuni osservatori, il Giappone pratica questa teoria da circa trent’anni.
Sulla base della MMT, quando uno Stato o un’altra autorità centrale emette la moneta con la quale stampa i propri titoli di debito, virtualmente ha sempre la possibilità di ripagare le proprie obbligazioni mediante monetizzazione dei deficit. Ne consegue il fatto che per poter finanziare gli investimenti pubblici utili per poter ridare slancio alla ripresa economica e alla domanda, lo Stato non sia costretto ad incrementare la pressione fiscale. Questa teoria trova piena applicazione in Giappone, dove tra l’altro le politiche ampiamente espansive degli ultimi anni e confermate anche oggi hanno avuto poco o nessun effetto sull’inflazione. Come ha scritto Gearoid Reidy su Bloomberg:
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Post n°4410 pubblicato il 14 Marzo 2019 da ninograg1
Fonte: Informazione consapevole Di Salvatore Santoru In questi giorni si sta parlando molto degli accordi economici che l'Italia dovrebbe fare con la Cina. Tali accordi sono alquanto criticati da una certa parte delle cosiddette 'élite occidentali' e una delle principali motivazioni, tra le altre, sarebbe il fatto che il paese asiatico non sia conforme al modello liberal-democratico occidentale.
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