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Messaggi di Dicembre 2020
Post n°4612 pubblicato il 21 Dicembre 2020 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 20 Dicembre 2020 Loretta Napoleoni
Fino all’ultimo momento non sapremo cosa succede con la Brexit, ed anche dopo il 31 dicembre non c’è nessuna certezza riguardo a come si svilupperanno i rapporti tra Regno Unito ed Europa Unita. Premesso che una nazione sovrana in quanto tale può cambiare idea su tutto – è infatti un suo diritto e a riprova c’è la stessa Brexit – qualsiasi accordo stipulato oggi e che in futuro verrà reputato dannoso per il Regno Unito o per la stessa Unione Europea potrà essere invalidato. Certo bisognerà fare i conti con le conseguenze di tali decisioni, e qui Brexit docet! È così per tutti gli accordi internazionali. La storia ci insegna che le alleanze si formano e si sciolgono nel tempo. A volte questo succede di comune accordo, altre volte anche all’insaputa del partner. Il tira e molla infinito tra Londra e Bruxelles appare motivato da risentimenti personali più che da motivi politici: la prima non vuol dare a vedere che sta cedendo di fronte alle richieste dell’altra e Bruxelles vuole dare una lezione a Boris Johnson che serva da monito per chiunque pensi di seguire il suo esempio. Il risultato è pessimo dal momento che mette a nudo meschinità e piccolezze di entrambi. L’Unione europea, che comanda un mercato di quasi mezzo miliardo di persone, potrebbe essere più magnanima e invece si ostina a trattare una nazione di poco più di 67 milioni di abitanti come una seria minaccia. Certo nel settore dei servizi finanziari Londra è sempre stata all’avanguardia, ma se è vero che il Regno Unito può rappresentare una minaccia per il mercato unico allora la teoria che l’unione fa la forza, che un mercato di quasi 500 milioni di persone è più forte di uno di 60 milioni crolla. L’idea che Johnson trasformi Londra nella Singapore sul Tamigi e così facendo attiri i capitali europei oltre manica e che Bruxelles non possa fare nulla per evitarlo è anch’essa poco fondata. Esistono altri paradisi fiscali al mondo, anche in Europa, si pensi a Montecarlo, e l’Unione non ha stipulato con loro accordi ad hoc, ha fatto in modo che non la disturbino. Perché Londra dovrebbe far paura e Montecarlo no? Tralasciamo la questione della pesca – l’industria ittica contribuisce per lo 0,1 per cento al Pil britannico – che naturalmente non può da sola impedire un accordo commerciale e contriamoci invece sui danni veri, quelli già esistenti. Dopo anni di negoziazioni né il Regno Unito e né l’Unione europea hanno prodotto, se non leggi, almeno procedure da seguire per quanto riguarda i movimenti di merci e di persone dal primo gennaio del 2021. A due settimane dall’uscita dall’Ue i due partner non hanno un protocollo per l’ingresso o l’uscita dal loro territorio. Con o senza accordo a gennaio avremo il caos alle frontiere e a rimetterci, almeno nel breve periodo sarà principalmente il Regno Unito. La Gran Bretagna invia il 43 per cento delle sue esportazioni nell’Ue; Germania, Francia e Italia inviano tutte circa il 6 per cento delle loro esportazioni nel Regno Unito. La popolazione del Regno Unito è di quasi 67 milioni; quella dell’Ue è di 447 milioni. Anche senza il Regno Unito la l’Unione Europea ha un mercato unico di dimensioni paragonabili a quello degli Stati Uniti o della Cina. Finché l’Unione europea manterrà la sua unità, i due blocchi, sebbene entrambi sovrani, non saranno mai uguali in termini di potere. Morale: vince l’Europa. Le dimensioni dei mercati, ecco ciò che dovrebbe contare in questi negoziati e quello che sicuramente conterà dopo il 31 dicembre. Questo è il motivo per cui la Gran Bretagna ha fatto una serie di dolorose concessioni negli ultimi quattro anni, in particolare accettando uno status separato per l’Irlanda del Nord, che vedrà i controlli doganali sulle merci che attraversano il Mare d’Irlanda, dividendo di fatto il Regno Unito. A questo punto perché continuare a discutere? Il danno è fatto, e da gennaio 2021 con o senza accordo si dovrà trovare il modo di gestire il futuro dell’Europa.
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Post n°4611 pubblicato il 15 Dicembre 2020 da ninograg1
Tag: blog, coronavirus, demografia, esteri, europa, influenza spagnola, pandemia, USA, vaccini, World Bank Fonte: Il Fatto Quotidiano Società - 15 Dicembre 2020 Renzo Rosso Negli ultimi dieci anni, vari scenari hanno sensibilizzato il mondo sui rischi pandemici. Quello elaborato da Air Worldwide – società specializzata in modelli di catastrofi – stimava che una epidemia influenzale pericolosa come quella del 1918 avrebbe potuto produrre tra 21 e 33 milioni di vittime nel mondo. Una mortalità compresa tra 270 e 430 per centomila abitanti. Si trattava di uno scenario affatto ragionevole, dove si teneva conto dei molti fattori di progresso che differenziano il mondo odierno da quello di cent’anni fa, giacché la mortalità della Spagnola viene stimata attorno a 2.500 per centomila, a scala globale. E i dati della John Hopkins University indicano come il mondo sia fortunatamente lontano da questo scenario, poiché le attuali vittime sono circa 1,6 milioni, circa 20 ogni centomila abitanti. Il modello indicava anche i luoghi dove con maggiore probabilità si sarebbe accesa la miccia: Cina, India e Indocina; assieme ad alcuni spot africani, prossimi alle sorgenti del Nilo. E, al momento, la genesi sembra confermata. La distribuzione geografica dell’impatto, tuttavia, sovverte completamente quanto atteso. A 13 mesi da inizio pandemia, lo scenario di Air-Worldwide prefigurava – per la Cina e la maggior parte dei paesi dell’Africa centrale e del Centro America – tra 50 e 100 vittime ogni centomila abitanti. Invece, il conto da pagare è stato, finora, dieci volte meno caro.
Non così per i paesi dell’occidente progredito dove – sullo stesso orizzonte temporale – si prevedevano meno di 25 vittime per centomila abitanti; e meno di 50 a fine pandemia. Che cosa accade, invece? Gli Stati Uniti, con 91 vittime per centomila abitanti, moltiplicano per quattro questo scenario, così come l’Italia, che ha superato quota 100 e, a meno di un anno dall’inizio del disastro, si avvicina a quota 110. Al contrario, l’India resta a quota 11; i paesi africani, pur colpiti, mantengono una mortalità assai contenuta; e in estremo oriente – comunista e non – la mortalità rimane tuttora uno o due ordini di grandezza inferiore a quella occidentale. Scendendo di scala, il Belgio – faro dell’Unione Europea – traguarda quota 160. Per spiegare il fenomeno, la metafora usata da due ricercatori della Banca Mondiale, Schellekens e Sourrouille, è abbastanza convincente. Come un missile a infrarossi – un’arma inesorabilmente guidata sull’obiettivo dal calore emesso dal bersaglio stesso – Covid-19 accelera verso i bersagli più vulnerabili della società affluente. Gli anziani. La metafora varrebbe non solo per i soggetti più vulnerabili nel mondo ricco, giacché gli individui più vulnerabili nel resto del mondo non sono più immuni dei ricchi. Tuttavia, nonostante l’ampia diffusione del virus, la mortalità rimane altamente concentrata nei paesi ad alto reddito. I paesi poco sviluppati rappresentano circa l’85 percento della popolazione mondiale, ma piangono meno del 20 percento delle vittime della pandemia. L’inesorabile bersaglio dell’Angelo Sterminatore – greve ma solenne allegoria di un comico genovese – si riproduce tal quale anche a scala regionale. La Lombardia, con le stesse dimensioni del Belgio, traguarda 240 vittime per centomila abitanti. Tra le aree metropolitane che contano, è quella più fragile: tre volte più letale della Grande Londra e dell’Ile de France parigina, il 30 per cento più dello Stato di New York. La Calabria, per contro, è ferma a 21 vittime ogni centomila abitanti, dieci volte di meno rispetto alla Lombardia: il Pil pro-capite è un terzo di quello lombardo, il reddito per abitante meno della metà di quello di un cittadino del Nord-Ovest, la sanità ostentatamente malmessa. L’insolita disuguaglianza viaggia nella solita direzione, ma ha invertito il verso. Il mondo è soggetto a due diverse pandemie? L’eccessiva inclinazione dei modelli di scenario a riprodurre le peculiarità dei paesi ricchi non va d’accordo con la demografia. Le simulazioni di infettività e mortalità suggeriscono che la quota dei paesi in via di sviluppo potrebbe anche aumentare anche di un fattore tre (dal 20 a più del 60 percento). Fattori ambientali e specifici influenzeranno questi risultati ma è improbabile che li ribaltino. La qualità dei dati ha certamente un ruolo nello spiegare questa “eccessiva disuguaglianza” e, senza dubbio, la pandemia deve ancora fare tutto il suo corso attraverso le distribuzioni per età del mondo. Ma, più si va avanti, più l’apparente anomalia storica del disastro si conferma. Forse è troppo presto per le spiegazioni. Fioccano le ipotesi di lavoro: ambiente, inquinamento, stile di vita, latitudine, assieme a proporzione di anziani, apporto calorico e diffusione del diabete. Ma sono soprattutto le impressioni epidermiche, senza fondamento scientifico, a occupare militarmente social e media. Dove, talvolta, si oltrepassa il confine dell’assurdo. Nella trasmissione radiofonica serale di un canale privato a diffusione nazionale, l’illustre ospite ha recentemente sentenziato che “i meridionali resistono di più al coronavirus perché sono africani bianchi: è una questione genetica”. Non ricordo chi sia, ma è stato presentato quale personaggio istituzionale in servizio permanente effettivo, non come tifoso di una frangia demenziale dell’ultra-tifo calcistico. A cui, forse per mancanza di tempo o per svista culturale, mancava solo l’accenno alle teorie lombrosiane. A loro volta, i paesi ricchi si stanno accaparrando l’intera produzione di vaccino dei prossimi due anni. Come scrive il Sunday Times: “La maggior parte dei poveri del mondo affronterà il coronavirus senza un vaccino perché i paesi ricchi stanno accumulando dosi sufficienti per immunizzare le loro popolazioni tre volte”. Questa prepotenza basterà a invertire l’impatto dell’Angelo Sterminatore, del tutto improvviso e imprevedibile per le classi dirigenti dell’occidente e per la fazione più edonistica di quelle società?
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Post n°4610 pubblicato il 06 Dicembre 2020 da ninograg1
fonte: Il Fatto Quotidiano di Mauro Del Corno | 26 Novembre 2020
Così com’è oggi il Meccanismo europeo di stabilità (Mes o Esm in inglese) non serve più a niente, o quasi. E’ una verità che l’emergenza Covid-19 ha reso evidente. Il problema è che la riforma che gli stati europei si apprestano a varare e che sta generando aspre tensioni politiche all’interno della maggioranza di governo, cambia poco le cose, anzi forse persino le peggiora. E’ una riforma che è stata pensata, ed era già pronta, prima dello scoppio della pandemia e che oggi risulta quindi vecchia ancora prima di vedere la luce. Il mondo è cambiato e lo ha fatto persino la farraginosa Unione europea. Ha creato il Recovery fund, strumento che, per la prima volta, prevede una parziale condivisione dell’onere del debito tra gli stati membri. Bruxelles ha testato, con successo, strumenti come il Sure (Support to mitigate unemployment risks in an emergency), per reperire sul mercato il denaro per finanziare misure a sostegno del lavoro, come la cassa integrazione, nei paesi membri. Un successo. In entrambi i casi tutto passa attraverso la Commissione Ue e quindi, in qualche misura, sotto lo scrutinio del parlamento Europeo. Una differenza fondamentale rispetto al Mes che è un’entità giuridicamente esterna alla struttura dell’Unione, giustificando così la percezione dei paesi membri di avere a che fare un soggetto “terzo”. E’ questo assetto, più che i termini contrattuali con cui vengono erogati i prestiti, che implicitamente rimanda all’idea di condizionalità. Chi riceve i finanziamenti si trova, in ogni caso, debitore di un creditore che ha regole diverse e fuori da qualsiasi possibilità di scrutinio. Paradossale visto che a garantire la capacità del Mes di ripagare i prestiti che contrae sui mercati sono, alla fine, gli stessi stati europei. Il piccolo Fmi all’europea – Non è un caso che sia così. Quando è stato creato nel 2012, per evitare il ripetersi di un crisi dei debiti sovrani, il Mes è stato concepito e voluto esattamente in questo modo. Se c’è da prestare soldi a qualcuno Germania e satelliti non si fidano né degli altri stati né della Commissione Ue. Meglio che ad aiutare chi è in crisi sia un piccolo “Fondo monetario internazionale all’europea” che non faccia sconti e che non li possa fare. Di fatto però il Mes non ha mai svolto questa funzione. E’ stato coinvolto nel sostegno finanziario a Spagna e soprattutto Grecia. A Madrid sono stati prestati 40 miliardi di euro, in cambio sono state pretese riforme, compresa quella del mercato del lavoro con licenziamenti più facili e maggiore flessibilità. Quello che è successo ad Atene è tristemente noto. Nessuno, naturalmente, ha un buon ricordo di questi interventi, nessuno ha mai più suonato al campanello del Mes. I suoi soldi sono diventati politicamente “tossici”. Il famigerato stigma riguarda al fine più il fondo in sé che gli stati che vi ricorrono. Durante la pandemia l’idea è stata quella di dirottare il denaro a disposizione del Mes per erogare prestiti destinati ad interventi tesi a migliorare i sistemi sanitari. Questi finanziamenti verrebbero erogati senza condizionalità, ossia non vengono chieste in cambio riforme o interventi di politica fiscale, e a tassi di interesse che, per alcuni paesi risultano vantaggiosi rispetto ai prestiti contratti direttamente sui mercati emettendo titoli di Stato. Per un paese come l’Italia il risparmio sarebbe tra i 200 e i 300 milioni di euro l’anno, su una spesa per interessi complessiva di circa 60 miliardi. Una convenienza troppo modesta per vincere i timori con cui, legittimamente, gli stati europei guardano al Mes. Un fondo costruito sulla sfiducia – Così, le risorse di cui il Mes dispone rimangono lì, inutilizzate e quindi, fondamentalmente, sprecate. Nessuno ha fatto ricorso ai prestiti destinati all’emergenza sanitarie. Come nota il vicedirettore del Jacques Delors Centre, Lucas Guttenberg, il Mes si basa sulla sfiducia tra i paesi europei. Al contrario Recovery fund e Sure sull’approccio opposto. Così come è oggi il Mes, e come sarà dopo la riforma, può avere una qualche utilità solamente in situazioni davvero pessime. Quando il disastro finanziario è così vicino da indurre uno Stato a mettere da parte la sua legittima ritrosia a ricorrere all'”aiuto” del fondo. In pratica, scrive Guttenberg, il Mes verrebbe usato solo quando ormai è già troppo tardi. La soluzione? “Riportare a casa” il fondo, sotto il controllo della Commissione Ue e all’interno di una cornice giuridica Ue. Una riforma priva di sostanza – Niente di tutto questo è previsto nella riforma che ci si avvia ad approvare. In sostanza le novità sono due. Il Mes potrà essere usato anche come fondo per le risoluzioni bancarie. In sostanza per salvare banche che stanno per fallire o, almeno, attutirne la caduta. E poi l’aspetto politicamente più delicato: il finanziamento agli Stati in difficoltà. L’erogazione dei soldi sarebbe preceduta da una analisi della sostenibilità del debito. In caso di esito negativo si potrebbe arrivare alla ristrutturazione del debito, in sostanza al default. Secondo i critici della riforma questa decisione finirebbe per essere attribuita al fondo, strappando il timone dalle mani dei singoli stati. Anche perché l’introduzione delle cosiddette Cac (clausole di azione collettive), che permettono un voto unico per tutti i creditori del paese e non più voti diversi per ogni tipo di titoli di Stato, agevolerebbe la procedura di ristrutturazione. Contestare la riforma adesso serve comunque a poco, gran parte delle novità erano già state votate, anche dall’Italia, ed entreranno in ogni caso in vigore. Il veto posto dall’Italia prima pandemia ha comportato solo un allungamento dei tempi.
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