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Messaggi di Dicembre 2018

Vi dico che cosa penso della manovra modificata. L’articolo del ministro Savona

Post n°4367 pubblicato il 23 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: startmag

di


“Ripristinare la supremazia della politica sulle soluzioni tecniche è il compito che ci attende in Italia e in Europa. Se si accetta l’opposto, la situazione può sfuggire di mano”. L’articolo del ministro degli Affari europei, Paolo Savona

 

La politica si nutre di realismo e l’accordo raggiunto con la Commissione europea porta chiara questa impronta; ma una politica che non sia ispirata da una politeia, una forma condivisa di organizzazione del bene comune, non ha lunga vita. In assenza di una istituzione monetaria dotata di poteri e volontà di svolgere le funzioni di lender of last resort contro la speculazione – protezione che in questi mesi ho insistentemente cercato – la realtà ha fatto premio sulle esigenze del Paese, che erano e restano quelle di garantire una crescita capace di ridurre la disoccupazione e la povertà e impedire il regresso del benessere dei cittadini.

Il governo ha retto nel difendere il minimo necessario per riaprire l’offerta di lavoro, soprattutto ai giovani, e combattere la povertà, mentre l’Unione europea non ha mostrato d’essere sensibile al primo anello di questa ineludibile catena di relazioni; la parola crescita appare solo nel dato statistico che indica una diminuzione del Pil preventivato dall’1,5 all’1%, fermo sui valori del 2018. Dati i vincoli, con la trattativa nulla di più si poteva ottenere, ma già questo dato richiede che l’azione di governo si concentri sul duplice obiettivo di riavviare gli investimenti, che restano lo strumento indispensabile per ostacolare la congiuntura negativa e non aggravare i ritardi di crescita accumulati, e di definire una politeia che restituisca prospettive di crescita all’Italia e di stabilità all’Unione europea.

I due obiettivi sono complementari ed è perciò che gli investimenti aggiuntivi non possono se non essere privati, salvo raggiungere uno specifico accordo europeo che escluda quelli pubblici dai parametri fiscali o rilanci la domanda aggregata a livello comunitario, mobilitando gli ingenti surplus di bilancia estera esistenti.

Una valutazione cautelativa suggerisce che nel corso del 2019 gli investimenti in Italia non possano essere inferiori all’1% del Pil, se si vuole raggiungere la crescita reale prevista; meglio se si raggiunge il 2%, se si vuole mettere il Paese in sicurezza dagli attacchi speculativi. Infatti la crescita del primo semestre sarà prossima a zero e gli effetti provenienti dai maggiori investimenti potrebbero ragionevolmente esplicarsi solo nel secondo semestre. Così facendo il rapporto debito pubblico/Pil, quello che maggiormente preoccupa i mercati e la stessa Commissione europea, riuscirebbe a mantenersi sia pure lievemente su una linea discendente nella prima ipotesi e ridursi ancor più nella seconda; se non accadesse, il quadro di riferimento della politica economica del Governo cambierebbe, per giunta in un contesto europeo di difficoltà decisionali (dalle elezioni al rinnovo dei principali incarichi).

La riunione tenutasi a Palazzo Chigi poche settimane orsono con le principali aziende partecipate dallo Stato e le informazioni di seguito raccolte consentono di affermare che esistono programmi di investimento di importo superiore a quello indispensabile per mettere in sicurezza dalle circostanze avverse la nostra crescita e la finanza pubblica. Il nuovo vertice della Cassa Depositi e Prestiti ha annunciato che le previsioni riguardanti le sue partecipate e i suoi stessi investimenti indicano possibile raggiungere i 200 miliardi di euro per il triennio 2019-2021. Queste iniziative, tuttavia, richiedono che vengano sbloccati piccoli o grandi intoppi che si frappongono alla loro realizzazione che, per alcuni aspetti, sono comuni agli investimenti pubblici ma, per altri, presentano specificità che vanno tenute in prioritaria considerazione nelle scelte del governo e del Parlamento. A tal fine si avverte la necessità di un Commissario ad acta.

La cintura di sicurezza che l’Italia sarà in condizione di attuare con le sue forze non basterà per portare il Paese fuori dalla crisi iniziata nel 2008. L’Ue deve sbloccare i vincoli che pone all’uso degli strumenti di politica economica ampliando i contenuti della sua funzione di utilità basata sulla stabilità, assegnando un peso anche alla crescita, dotandola di strumenti adeguati. Questa esigenza non è solo frutto di una visione positiva del futuro dell’Unione, ma delle divergenze di benessere socio-economico ereditate e di quelle frutto delle sue stesse istituzioni e delle politiche seguite. La necessità di una siffatta integrazione è attualmente molto sentita, tanto da indurre leader politici e opinionisti a chiedere con sempre maggiore insistenza non solo le riforme per i paesi membri, ma per la stessa Unione. Il presidente della Bce Draghi, nel discorso pronunciato recentemente a Pisa, ha dichiarato che l’Unione Monetaria è “incompleta”.

Non è un mistero che la divergenza tra le diverse concezioni dell’Ue è nei contenuti da dare all’incompletezza da rimuovere. Perciò ho chiesto a nome del governo di discuterne nell’ambito europeo di un Gruppo ad alto livello che analizzi la problematica; salvo eccezioni, si è finora fatto finta di non capire che l’invito rivolto era quello di interrompere la stretta relazione, indegna della convivenza democratica, tra la componente speculativa del mercato finanziario e le politiche scelte dai governi e parlamenti; l’Unione utilizza questa relazione per costringere i Paesi membri a seguire riforme che considera “risolutive” delle divergenze, che la realtà ancor prima della logica economica non ha asseverato, come dimostra il peggioramento della distribuzione del reddito intraeuropeo che mina l’intera costruzione comunitaria.

La messa in sicurezza dalla speculazione dei debiti sovrani da parte delle autorità europee rientra tra i doveri di sussidiarietà nascenti dai Trattati. Essa richiede una collaborazione con gli Stati membri che patiscono questa situazione, rinunciando tuttavia all’idea che questa sicurezza possa essere raggiunta perseguendo per decenni politiche deflazionistiche. Si possono individuare tecniche che consentono di farlo, evitando che i debiti di un Paese vengano messi a carico degli altri.

La soluzione del problema investe anche il tema continuamente invocato della protezione del risparmio che non si ottiene solo con norme adatte, ma diffondendo fiducia in chi possiede obbligazioni. A furia di insistere a livello ufficiale che esiste un problema di debito pubblico invece di indicare una soluzione – un cattivo vizio che si è molto diffuso – si è minata questa fiducia. Per chi ha investito i risparmi in titoli di Stato, questi sono ricchezza e la fondatezza di questo convincimento dipende anche dalla qualità della politica; ripristinare la supremazia della politica sulle soluzioni tecniche è il compito che ci attende in Italia e in Europa. Se si accetta l’opposto, la situazione può sfuggire di mano.

 

(articolo pubblicato da Milano Finanza)

 

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Manovra: malumori nel governo. Pesa mina dell’IVA

Post n°4366 pubblicato il 20 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 20 dicembre 2018, di Alessandra Caparello

 

Aria di tempesta all’interno del governo. A fiutare malumori l’ex premier Silvio Berlusconi che, come rivela oggi l’Agi, avrebbe riunito i suoi confidandogli i suoi piani.

Ci mancano 6-8 voti al Senato e sarà ribaltone, stiamo portando avanti i contatti con i 5 stelle responsabili, presto ci saranno delle novità.

Berlusconi è convinto che l’esecutivo cadrà entro gennaio. Non c’è alcuna nuvola all’orizzonte per il governo. Così il vicepremier Luigi Di Maio risponde a chi sottolinea come l’impegno sulla manovra, culminato con la decisione da parte della Commissione europea di non procedere ad aprire alcuna infrazione, abbia minato la coalizione Lega-Cinque Stelle. Il vicepremier Luigi Di Maio ha sottolineato che il governo continuerà il suo programma di riforme e che inizierà a lavorare, a gennaio, per tagliare il numero di parlamentari.

Sia Di Maio che Salvini ieri hanno espresso molta soddisfazione sull’esito della trattativa con Bruxelles che per il momento evita di aprire una procedura di infrazione contro il nostro paese.

Desidero esprimere un sentito ringraziamento a tutti voi, di maggioranza e di opposizione, per la comprensione di questi giorni durante i quali l’iter della manovra ha proceduto con lentezza scontando ritardo con tempi previsti. Rinvii non causati da incertezze interne al governo: il rallentamento è stata l’inevitabile compressione a causa complessa interlocuzione con l’Ue alla quale abbiamo dedicato le nostre più risolute energie e impegno”.

Così il premier Giuseppe Conte riferendo in Parlamento.

“In queste settimane abbiamo lavorato per avvicinare le posizioni senza mai arretrare rispetto agli obiettivi che ci hanno dato gli italiani con il voto del 4 marzo  (…) Non abbiamo ceduto sui contenuti della manovra”.

Il premier si riferisce ai due cavalli di battaglia fatti da Lega e Cinque Stelle durante la campagna elettorale, ossia quota 100 e reddito di cittadinanza ma a ben vedere per soddisfare le promesse elettorali si introducono tagli e nuovi balzelli. A preoccupare maggiormente l’aumento Iva per il 2020 e il 2021. Nella sostanza l’aliquota ridotta del 10% passerebbe dal 2020 al 13% mentre l’aliquota al 22% passerebbe nel 2020 al 25,2% e nel 2021 al 26,5%.A conti fatti il prezzo pagato dal governo giallo-verde è di 4,6 miliardi di euro per il rinvio e la rimodulazione del reddito di cittadinanza e di quota 100 sulle pensioni a cui si aggiungono 4,2 miliardi di tagli agli investimenti e 450 milioni per l’aumento delle tasse su scommesse e gioco d’azzardo.

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per un quadro più chiaro sulle singole materie (con annessa lettera del Governo alla Commissione Europea) leggete quest'articolo su Il Fatto Quotidiano con quest'articolo:

Manovra, tutte le modifiche: dalle clausole di salvaguardia Iva ai 577 milioni di risparmi sulle pensioni alte


 

 
 
 

Economist elegge il “Paese dell’anno” per il 2018

Post n°4365 pubblicato il 19 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 19 dicembre 2018, di Alberto Battaglia

 

La storia più recente ha mostrato che essere incoronati dall’Economist come “Paese dell’anno”, un riconoscimento assegnato alla nazione che ha visto il maggior progresso economico o sociale, può anche portare sfortuna. L’anno scorso le lodi andarono alla Francia, premiata per aver respinto il populismo di Marine Le Pen ed eletto il potenziale “salvatore d’Europa”, Emmanuel Macron. Un anno dopo l’alloro della rivista britannica, i gilet gialli hanno segnato il punto più basso del declino che il presidente francese ha riscontrato molto presto nei consensi. In una certa misura, il populismo può perdere alle elezioni, ma ciò, di per sé, non cancella le condizioni economico-sociali che lo alimentano. E Macron, dal canto suo non ha dato risposte sufficienti a quella realtà.

 
Ancor più drammatici si sono rivelati gli sviluppi per il vincitore del 2015, la Birmania, che non molti mesi più tardi ha attirato l’attenzione di tutto il mondo per i, genocidio dei Rohingya, fuggiti in massa (si parla di almeno 720mila persone) verso il vicino Bangladesh. Una definizione, quella del genocidio, che non è arbitraria, bensì quella riconosciuta dal Tribunale internazionale permanente dei popoli.

 

Quest’anno l’Economist ha accarezzato l’idea di eleggere il proprio Paese, il Regno Unito, per offrire un monito sul fatto che rovinare politicamente una nazione è un compito dannatamente facile. “Persino un paese ricco, pacifico e apparentemente stabile può incendiare distrattamente le sue disposizioni costituzionali senza alcun serio piano su come sostituirle”, ha scritto il newspaper sul caso Brexit. Nonostante questo, il miglior esempio di progresso nel 2018 non proviene da Londra, ma da un Paese assai più piccolo e dalla storia travagliata l’Armenia. Un esempio, scrive l’Economist, di come in  rari casi anche le autocrazie possano svanire pacificamente.

 

“Il presidente, Serzh Sargsyan, ha cercato eludere i limiti di tempo del mandato trasformandosi in un primo ministro esecutivo. Le strade sono scoppiate in segno di protesta”, ha sintetizzato la rivista, “Nikol Pashinyan, un ex giornalista carismatico e barbuto, è stato trascinato al potere, legalmente e correttamente, in un’ondata di repulsione contro la corruzione e l’incompetenza”. Ed è così che un sostenitore di Putin, chiosa il giornale, è stato espulso senza che nessuno si sia fatto male. Non resta che sperare che, questa volta, alle lodi non seguano inaspettate sfortune.

 

 
 
 

“Correzione epica a Wall Street, sarà peggio del 1929″

Post n°4364 pubblicato il 18 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 17 dicembre 2018, di Mariangela Tessa

 

Si susseguono gli allarmi sul futuro del mercato azionario. Dopo che la Bri ha detto ieri che nuovi shock non sono esclusi nei prossimi mesi, anche Ron Paul, politico statunitense, esponente della corrente libertaria del Partito Repubblicano, ha avvertito che le correzioni di quest’anno potrebbero essere solo un assaggio di un crollo epico del mercato, che potrebbe verificarsi prima delle attese degli investitori.

Secondo il politico americano, Wall Street sta diventando più vulnerabile e nei prossimi 12 mesi non si vede nulla di buono. I segnali sono già arrivati: la scorsa settimana la Borsa americana è infatti ufficialmente entrata in fase di correzione per la prima volta da due anni.

“Una volta che questa volatilità dimostrerà di non essere solo una  pausa nel mercato rialzista, allora  gli investitori correranno verso l’uscita”, ha detto Paul intervistato alla CNBC, aggiungendo che quello che può succedere a Wall Street nei prossimi mesi “potrebbe essere peggiore del 1929″.

Durante quell’anno, il mercato azionario ha segnato una correzione di quasi il 90% mentre l’economia americana andava a picco.

Paul, che cita la guerra commerciale USA-Cina in corso come un fattore di rischio in crescita, ha spiegato che il suo scenario base è di un calo del 50% rispetto ai livelli attuali.

“Non sono ottimista sulla soluzione della guerra dei dazi. Penso che il problema si potrarrá anche nel futuro

Oltre alla guerra dei dazi, Paul cita tra le ragioni alla base delle sue previsioni la fine delle politiche monetarie espansive intraprese dopo la crisi finanziaria del 2008.

L’allentamento quantitativo della Federal Reserve ha causato la “bolla più grande nella storia dell’umanità” ha sottolineato l’ex membro del Congresso.

Paul crede inoltre che i legislatori di Washington non abbiano la capacità di risolvere in modo efficace il problema del debito, che quest’anno salirà fino alla cifra record di 1,09 trilioni di dollari.

 

 
 
 

Clima, Cop24: Terra e scienza sconfitte dagli Usa e altri produttori di greggio. “Entro questo secolo, 3-4 gradi in più”

Post n°4363 pubblicato il 17 Dicembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano di | 17 dicembre 2018

Hanno perso i cittadini e il pianeta, ma dalla Cop24 esce al momento sconfitta anche la scienza. La conferenza internazionale sul clima si è chiusa infatti con un documento che rimanda al futuro impegni più ambiziosi, in barba all’appello drammatico ad agire lanciato a ottobre dal panel di scienziati delle Nazioni Unite (Ipcc). A Parigi nel 2015 gli Stati avevano firmato un accordo per mantenere il riscaldamento climatico entro i 2 gradi (possibilmente 1,5) rispetto ai livelli pre-industriali e avevano chiesto lo studio. Poco più di due mesi fa, le menti più illustri della ricerca scientifica avevano presentato i risultati, dicendo chiaro e tondo che i prossimi anni saranno cruciali per la vita sulla Terra così come la intendiamo oggi, ma la loro esortazione a mettere in campo politiche efficaci alla fine è caduta nel vuoto.

Gli stessi Paesi, infatti, non hanno accolto all’unanimità i risultati dello studio. Delegittimando così il lavoro di centinaia di ricercatori di tutto il mondo, e dunque il ruolo della scienza per la democrazia. “La mia più grande preoccupazione”, dice il direttore designato del centro Potsdam Institute for Climate impact research, Johan Rockström, è che la Cop24 “non abbia allineato le ambizioni con la scienza. Continuiamo a seguire un percorso pericoloso che ci porterà in un mondo a 3-4 gradi più caldo entro questo secolo”. E mentre a questo si aggiungono nulla di fatto anche su altri aspetti, gli ambientalisti ricostruiscono le responsabilità. La rete di oltre 1.300 ong da 120 Paesi Climate Action Network punta il dito contro “gli stati canaglia” come Usa e Arabia Saudita, ma ricorda anche la connivenza di chi è rimasto a guardare: “Troppi Paesi sono venuti impreparati e hanno scelto di rimanere ai margini”.

Gli scettici: i Paesi produttori di greggio – A guidare il fronte degli scettici verso la scienza c’erano i maggiori produttori mondiali di greggio: oltre all’Arabia Saudita e agli Usa, anche Kuwait e Russia. D’altra parte, conciliare un’economia basata sulle fonti fossili con la necessità scientificamente provata di dimezzare le emissioni di CO2 al 2030 come previsto nel rapporto dell’Ipcc di ottobre scorso, è impossibile. Una richiesta che non piaceva ovviamente nemmeno alla Polonia, che dal carbone ricava l’80% della sua energia. Anche l’Australia alla Conferenza ha celebrato i benefici del carbone e il Brasile ha ritirato l’impegno a ospitare i colloqui sul clima il prossimo anno.

Gli scenari apocalittici (ma realistici) – Lo studio speciale degli scienziati pubblicato a ottobre scorso, però, non conteneva solo l’indicazione di dimezzare le emissioni di CO2 al 2030. Accanto a questo dato, spesso ricordato in questi giorni, i ricercatori hanno delineato gli scenari apocalittici, ma drammaticamente realistici, legati a un aumento della temperatura di 2 gradi anziché 1,5. Apparentemente questi due target sono vicinissimi, ma se con azioni più ambiziose si raggiungesse il primo, l’innalzamento del livello del mare minaccerebbe 10 milioni di persone in meno, e la popolazione mondiale con scarso accesso all’acqua potrebbe essere minore del 50%. La Terra avrebbe più sete, ma anche più fame, passando da 1,5 a 2 gradi in più: la perdita di pescato, per esempio, crescerebbe da 1,5 milioni di tonnellate a oltre 3 milioni di tonnellate. Anche gli ecosistemi pagherebbero un prezzo altissimo. Nell’Artico, le estati senza ghiaccio in mare si verificherebbero una volta ogni secolo con un riscaldamento di 1,5 gradi, ma ogni 10 anni se si sforasse fino a 2 gradi. In quest’ultimo scenario la barriera corallina andrebbe praticamente perduta.

Da Katowice nessun impegno collettivo – A ottobre gli scienziati calcolavano che gli impegni presi dai Paesi in quel momento avrebbero portato il mondo a un riscaldamento di 3 gradi e nonostante la diffusione del rapporto, chiesta dagli stessi firmatari dell’accordo di Parigi, non è stato raggiunto un impegno collettivo chiaro per mettere in atto azioni più ambiziose e incisive. “I leader mondiali sono arrivati a Katowice con il compito di rispondere agli ultimi rapporti della scienza sul clima. Sono stati compiuti importanti progressi, ma ciò a cui abbiamo assistito in Polonia rivela una fondamentale mancanza di comprensione della nostra attuale crisi climatica da parte di alcuni Paesi”, dice il responsabile Clima ed energia del Wwf internazionale, Manuel Pulgar-Vidal. “I governi hanno deluso i cittadini e ignorato la scienza e i rischi che corrono le popolazioni più vulnerabili. Riconoscere l’urgenza di un aumento delle ambizioni e adottare una serie di regole per l’azione per il clima, non è neanche lontanamente sufficiente allorquando intere nazioni rischiano di sparire”, aggiunge la direttrice esecutiva di Greenpeace InternationalJennifer Morgan.

Bonelli: “Più investimenti per le armi” – La non accettazione comune e completa dei risultati scientifici non è l’unico aspetto grave dell’accordo con cui si chiude la Cop24. Il Wwf ricorda altri punti critici: “La conferenza si conclude con poca chiarezza su come si debba contabilizzare il finanziamento sul clima fornito dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, su come si raggiungerà l’obiettivo dei 100 miliardi entro il 2020 o su come sarà concordato l’obiettivo finanziario globale dopo il 2025”. Proprio rispetto all’obiettivo dei 100 miliardi a sostegno delle politiche sul clima, il leader dei Verdi Angelo Bonelli ricorda che mentre si discute su come raggiungere questo target, “nel 2017 si è raggiunto il record mondiale storico di 1748 miliardi di dollari per le spese in armamenti”. Inoltre, come evidenzia la rete di oltre 1.300 ong Climate Action Network, alla Cop24 non sono state stabilite regole per i mercati delle emissioni di carbonio dopo il 2020.

di | 17 dicembre 2018
 
 
 

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