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Vaccino Covid, l’Ue predilige i profitti delle multinazionali contro la vita

Post n°4628 pubblicato il 13 Marzo 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Fabio Marcelli Giurista internazionale Mondo - 13 Marzo 2021

Non ci sono parole per definire la prevedibile scelta dell’Unione europea di anteporre i profitti delle multinazionali chimico-farmaceutiche ai diritti alla salute e alla vita dei suoi cittadini e di quelli del pianeta più in generale. Questa infausta presa di posizione segna l’epilogo definitivo di una tristissima vicenda e il naufragio delle speranze malriposte da qualche troppo ingenuo o troppo furbo politicante nei confronti della signora Ursula von der Leyen.

Il punto decisivo è stato la scelta di respingere la proposta formulata da India, Sudafrica, Venezuela ed altri Stati di derogare, di fronte al dilagare della pandemia Covid e delle sue micidiali varianti, al regime di difesa rigida della proprietà intellettuale delle multinazionali che possiedono i brevetti relativi ai vaccini da impiegare contro il Covid. La proposta era stata formulata in seno all’Organizzazione mondiale del commercio ed è stata respinta coi voti di tutto l’Occidente capitalistico, Stati Uniti e Unione europea in prima fila, che hanno goduto dell’appoggio determinante del presidente brasiliano Bolsonaro, deferito alla Corte penale internazionale qualche tempo fa per l’effetto genocida delle sue deliberate e scellerate politiche di minimizzazione del rischio rappresentato dalla pandemia in corso, che sta mietendo milioni di vittime in tutto il pianeta e ne ha provocate, ad oggi, oltre 270mila nel suo Paese.

E’ evidente come l’ostacolo rappresentato dai brevetti impedisca la produzione del vaccino in tutto il mondo e quindi una risposta adeguata specialmente da parte dei Paesi più poveri e bisognosi, dato che i vaccini sono concentrati nelle aree più ricche del pianeta. Dato il carattere contagioso del virus, si tratta non solo di un attacco alla vita e alla salute altrui ma anche a quelle proprie.

La Commissione europea aveva del resto da tempo dimostrato la propria totale subalternità alle lobby farmaceutiche, concludendo accordi fallimentari e per di più secretati in loro clausole essenziali, colle multinazionali attive nel settore, che avevano poi deciso e continuano a decidere di dirottare i propri prodotti, comunque insufficienti rispetto agli enormi bisogni esistenti, su offerenti migliori e disposti a pagare prezzi più elevati. Per non parlare delle davvero allarmanti notizie relative alla stessa sicurezza dei vaccini, su cui hanno aperto da ultimo delle inchieste alcune Procure italiane.

Come da tempo denunciato, siamo completamente in balia di organizzazioni guidate dall’esclusivo proposito di aumentare i propri già enormi profitti e non già da quello di debellare il virus in nome del bene comune e del diritto alla salute e alla vita di tutti gli abitanti del pianeta. Esistono già oggi alternative praticabili, come i vaccini cinesi, cubani e russi, ma il bieco servilismo atlantico dei governi europei e di quello guidato da Mario Draghi in particolare impedisce di ricorrervi.

E’ infatti evidente come il governo Draghi, che ha enunciato l’atlantismo e l'”europeismo” (alla von der Leyen & C.) come fari ispiratori della propria politica estera, si asterrà dall’intraprendere cooperazioni indispensabili nel campo della ricerca e della produzione di vaccini ed altri presidi sanitari necessari a combattere la pandemia colla Cina, colla Russia e con Cuba, salvo poi permettere che determinate proprie appendici stremate ricorrano alle brigate mediche cubane, com’è avvenuto in Lombardia e Piemonte in primavera, ma già ce ne siamo dimenticati.

Nei tragici attuali frangenti del dilagare della pandemia si conferma l’irriducibile antinomia fra il capitalismo, specie quello delle rendite, sia finanziarie sia legate alle privative industriali e alla proprietà intellettuale, da un lato e la vita dall’altro. La Commissione europea continua a scegliere di privilegiare il capitalismo contro la vita, dato il peso delle lobby che da tempo immemorabile infiltrano le istituzioni di Bruxelles e ne condizionano l’agire quotidiano, nonché quello del credo neoliberista che pervade fino al midollo i leader di quest’Europa, con in testa la von der Leyen, Macron, Merkel e Draghi. Camicie di forza asfissianti che vanno distrutte al più presto, prima che distruggano la nostra vita e la nostra salute.

Capitalismo ed atlantismo vanno superati, derogando ai brevetti e instaurando una vera e propria cooperazione globale affinché tutte le energie del pianeta siano dedicate a sconfiggere il virus, come richiesto del resto dall’Organizzazione mondiale della sanità. Non è questa a quanto pare l’opinione di lorsignori, interessati più a contare i quattrini che entrano in tasca a Big Pharma che le vittime che continuano a morire come mosche in tutto il mondo ogni giorno.

 
 
 

“In un anno arretrata la speranza di vita guadagnata in un decennio”.

Fonte: Il Fatto Quotidiano | 10 Marzo 2021

 

I 100mila morti per Covid in Italia all’8 marzo sono la fotografia dello tsunami che il coronavirus ha scatenato sulle nostre vite. Un’onda travolgente che ha investito anche il futuro. La pandemia “ha annullato, completamente nel Nord e parzialmente nelle altre aree del Paese, i guadagni in anni di vita attesi maturati nel decennio. È un arretramento che richiederà parecchio tempo per essere pienamente recuperato”, afferma il decimo Rapporto Bes dell’Istat sul benessere equo e sostenibile, rilevando che nel 2010 la speranza di vita alla nascita era di 81,7 anni, nel 2019 di 83,2 e nel 2020 il dato è sceso a 82,3. Gli indicatori hanno registrato impatti particolarmente violenti su alcuni progressi raggiunti in dieci anni sulla salute, annullati in un solo anno” ha detto il presidente Istat, Gian Carlo Blangiardo. Del resto i morti per il virus il doppio di quelli di Aids, 34 volte quelli del terremoto dell’Irpinia, 50 volte quelli del Vajont, 300 volte quelli de l’Aquila. Solo per far un paragone con eventi che sono impressi nella memoria collettiva.

Nel 2020 il 44,5% della popolazione esprime un voto tra 8 e 10 sulla soddisfazione della propria vita, in leggero aumento rispetto all’anno precedente (43,2%). Si mantengono le differenze territoriali, con una maggiore percentuale di soddisfatti al Nord (48,4%), quasi quattro punti percentuali in più della media nazionale, e livelli più bassi al Centro e nel Mezzogiorno (43% e 40%). Nel nostro Paese la soddisfazione per la vita rimane diseguale non solo tra territori ma anche per titolo di studio conseguito, età e, sia pure in misura minore, tra uomini e donne.

E nel periodo in cui l’emergenza provocata dalla pandemia ha costretto alla chiusura delle scuole di ogni ordine nelle zone rosse non può non preoccupare la riflessione sui dati che mostrano le diseguaglianze nello studio: “In Italia, nonostante i miglioramenti conseguiti nell’ultimo decennio, non si è ancora in grado di offrire a tutti i giovani le stesse opportunità per un’educazione adeguata. Il livello di istruzione e di competenze che i giovani riescono a raggiungere – prosegue – dipende ancora in larga misura dall’estrazione sociale, dal contesto socio-economico e dal territorio in cui si vive. La pandemia del 2020, con la conseguente chiusura degli istituti scolastici e universitari e lo spostamento verso la didattica a distanza, o integrata, ha acuito le disuguaglianze”.

L’8% dei bambini e ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado è rimasto escluso da una qualsiasi forma di didattica a distanza. Tale quota sale al 23% tra gli alunni con disabilità. Del resto un terzo delle famiglie in Italia non dispone di un accesso ad internet da casa e di almeno un computer. Il rapporto descrive comunque come “notevolmente migliorata” la situazione della transizione digitale dell’Italia nell’ultimo decennio: la percentuale di famiglie con accesso alla banda larga è passata dal 10% del 2011 all’88,9% del 2019. “Nonostante i progressi – spiega il rapporto -, l’Italia si trova però ancora leggermente al di sotto della media europea. L’infrastruttura per la banda larga non è più sufficiente a coprire le esigenze di connessione attuali, cosicché si è ritenuto necessario investire su una connessione più veloce, cioè la banda ultralarga”.

In generale il “divario con l’Europa sull’istruzione continua ad ampliarsi: nel secondo trimestre 2020 il 62,6% delle persone di 25-64 anni ha almeno il diploma superiore (54,8% nel 2010); tale quota è inferiore alla media europea di 16 punti percentuali. Tra i giovani di 30-34 anni il 27,9% ha un titolo universitario o terziario (19,8% nel 2010) contro il 42,1% della media Ue27″, sottolinea l’istituto di statistica.

Nel secondo trimestre 2020 sale poi al 23,9% la quota di giovani di 15-29 anni che non studiano e non lavorano (Neet), dopo alcuni anni di diminuzioni (21,2% nel secondo trimestre 2019). Incide particolarmente la componente dovuta all’inattività, specie nelle regioni del Centro-nord, dove la ricerca di lavoro ha subito una brusca interruzione dovuta alla pandemia. In Italia l’aumento è stato più accentuato rispetto al resto d’Europa, accrescendo ulteriormente la distanza (+6 punti percentuali nel secondo trimestre del 2010, +10 punti nel 2020). Altrettanto alta è la quota di giovani che escono prematuramente dal sistema di istruzione e formazione dopo aver conseguito al più il titolo di scuola secondaria di primo grado (scuola media inferiore). Nel secondo trimestre 2020, in Italia, il percorso formativo si è interrotto molto presto per il 13,5% dei giovani tra 18 e 24 anni, valore in netto calo rispetto al 2010 ma pressoché stabile dal 2017.

 

 

 
 
 

Rispunta la “task force” ma questa volta a pagamento..

Post n°4626 pubblicato il 06 Marzo 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano | 6 Marzo 2021

 

“La task force di Conte è una pazzia” tuonava prima di Natale Matteo Salvini. “No alle task force, sì al Mes” gridava Matteo Renzi solo lo scorso dicembre. Tre mesi dopo non abbiamo il Mes ma abbiamo una nuova task force, solo che è fatta di consulenti esterni e quindi a pagamento. Il governo Draghi ha scelto infatti di affidare alla statunitense McKinsey la consulenza per la messa a punto del Recovery plan per l’utilizzo dei fondi europei. Eppure la lista di chi ha polemizzato contro la formula della task force, uno sui punti su cui più se battuto per attaccare il governo Conte, è lunghissima. “Un modo per aumentare poltrone e consulenze”, secondo Teresa Bellanova. “Inutile spreco”, “No all’ennesima inutile task force” sono alcune delle dichiarazioni di alcuni esponenti del Partito democratico. Antonio Misiani, senatore Pd, in mattinata ha invitato Draghi a non disattendere l’impegno: “La governance del Pnrr è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti aveva detto Draghi al Senato. Se lo schema è cambiato, va comunicato e motivato al Parlamento”, ha scritto su twitter.

La scelta del presidente del Consiglio non sembra in effetti delle più felici, quanto meno per la tempistica. A lungo McKinsey è stata considerata la più prestigiosa società al mondo nel suo campo, che è poi quello di suggerire ad aziende e governi come aumentare i profitti e ridurre le spese. Ma negli ultimi tempi nubi sempre più cupe si stanno addensando sulla società statunitense. Dal coinvolgimento nella crisi dei farmaci oppioidi negli Usa, agli stretti legami con regime autoritari come quello dell’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salaman, il principe ereditario implicato nell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.


Il ruolo nella tragedia degli oppioidi – La reputazione di MkKinsey è così compromessa da aver spinto due dei più importanti quotidiani del mondo, il New York Times e il Financial Times a pubblicare editoriali in cui si invita la società ad agire per arginare la progressiva erosione di credibilità. Il mese scorso la società ha patteggiato una multa da quasi 600 milioni di dollari con 47 stati americani per il ruolo avuto nella crisi dei farmaci oppioidi. “Hanno messo il profitto davanti alla vita delle persone”, ha detto Phil Weiser, procuratore generale del Colorado, uno degli stati più colpiti. McKinsey è stata infatti per 15 anni consulente della casa farmaceutica Purdue che commercializzava il farmaco OxyContin. Si stima che la dipendenza da questo medicinale abbia causato sinora la morte di 232mila persone. McKinsey ha suggerito tra l’altro di aumentare il dosaggio delle singole pillole per incrementare i guadagni e ha fornito indicazioni di marketing su come neutralizzare gli appelli contro la commercializzazione del medicinale delle madri di ragazzi morti per overdose di OxyContin.

“Risparmiare sul cibo per i migranti” – Tra i tanti carichi assunti dalla società c’è stato anche quello di consulente dell’ Immigration and Customs Enforcement (ICE), ente statunitense che si occupa della gestione dei flussi migratori. Incarico per cui la società ha incassato 20 milioni di dollari. Nelle sue raccomandazioni per gestire al meglio le strutture di accoglienza McKinsey ha proposto tra l’altro di risparmiare sul cibo per i migranti e di inviarli in zone rurali del paese per minimizzare la spesa. Un trattamento che ha messo a disagi molti funzionari della struttura. Il contratto si è interrotto nel 2018 dopo che il New York Times ha pubblicato un’inchiesta sulle disastrose condizioni dei centri di accoglienza.

L’associazione no profit di giornalismo investigativo ProPublica ha creato una pagina web in cui sono raccolti tutti i disastri riconducibili al ruolo avuto da McKynsey. Molto si capisce già da titoli come “New York ha pagato milioni a McKinsey per un piano per ridurre la criminalità che invece è aumentata”. Il sito ricorda anche come nell’ultimo anno la società abbia fatto incetta di contratti per aiutare i governi a rispondere alla pandemia e tracciare i contagi, con risultati molto discutibili.

Arabia e Sudafrica – Nel 2016 McKynsey ha perso molti dei suoi clienti in Sud Africa dopo essere stata coinvolta in una vicenda di corruzione che ha portato alle dimissione del capo del governo di Pretoria Jacob Zuma. McKinsey aveva infatti stretto un alleanza con la società di consulenza Trillian della famiglia sudafricana Gupta che ha sfruttato le sue relazioni con Zuma per accaparrarsi illegittimamente commesse da 1,6 miliardi di dollari. McKinsey ha accettato di restituire al governo sudafricano 100 milioni di dollari e si è pubblicamente scusata con la popolazione del paese. Dal 1974 è presente in Arabia Saudita con un ruolo che è andato via via crescendo nel corso degli anni. Fino alla messa a punto nel 2015 il documento “Saudi Arabia beyond oil” commissionato dal principe Mohammed Bin Salman e in cui si suggerisce come reinventare l’economia saudita spezzandone la dipendenza dal petrolio.

Il disastro Enron del 2002 – Non che anche in tempi meno recenti McKinsey non sia stata protagonista di vicende poco edificanti. Basti ricordare il crack del colosso dell’energia statunitense Enron del 2002. Fu proprio McKinsey ad aiutare Enron a “reinventarsi” da gruppo che vendeva energia e gestiva gasdotti a società specializzata nella speculazione sui prezzi energetici utilizzando sofisticati strumenti finanziari. Del resto lo stesso numero uno di Enron Jeff Skilling proveniva da McKinsey. Finì malissimo: bancarotta, 20mila persone per la strada e senza pensione e Skilling condannato a 24 anni di prigione. Il crack spazzò via dal mercato la storica società di revisione Arthur Andersen incaricata di controllare i bilanci di Enron, mentre McKinsey riuscì a defilarsi quasi indenne, grazie soprattutto agli accordi che abitualmente firma con i suoi clienti in cui specifica che quelle fornite sono “semplici opinioni”.


Il mercato globale della consulenza vale circa 150 miliardi di dollari all’anno, McKinsey non diffonde dati ufficiali sui suoi ricavi, che vengono comunque stimati intorno ai 10 miliardi di dollari. Al primo posto davanti a Boston Consulting che si ferma a 8,5 miliardi. Il gruppo ha una lunga tradizione di “porte girevoli” con governi e grandi aziende. Il ministro per l’Innovazione digitale e la transizione ecologica Vittorio Colao è ad esempio uno dei tanti “ex”.

 

 

 
 
 

Contagi e vaccini, vi racconto le differenze abissali tra Italia e Regno Unito

Post n°4625 pubblicato il 03 Marzo 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società - 28 Febbraio 2021 Loretta Napoleoni

Dopo un lungo e durissimo lockdown londinese e la prima vaccinazione sono rientrata in Italia per alcune settimane. La cronistoria del mio viaggio e di ciò che ho visto di certo non fa notizia, ma ho pensato di raccontarla per illustrare le differenze abissali tra l’Italia ed il Regno Unito in materia di gestione del Covid e vaccinazioni.

La prima cosa che balza agli occhi quando si atterra in Italia è la confusione di ordinanze. Non esiste una regola applicata a tutta la nazione, ma tante, diverse, in costante cambiamento a livello regionale, provinciale e persino comunale. E questo è un male perché la gente si perde e finisce per non sapere cosa deve fare. In secondo luogo, in Italia si riempiono moduli su moduli che nessuno ha idea se servano davvero o se finiscano nel riciclaggio della carta, ma alla fine c’è poco controllo dei movimenti. Infine, a differenza del Regno Unito, in Italia si ha la netta sensazione che il virus non sia poi così pericoloso, che il peggio sia passato e quindi sia giusto riprendere le vecchie abitudini.

Faccio un esempio: in aereo da Londra non c’erano inglesi, a loro è vietato viaggiare, mentre a noi italiani è permesso grazie al nostro passaporto. Atterrati a Milano, come di prassi, la British Airways ha specificato che avrebbero sbarcato per file, hanno chiamato le prime sei, io ero alla undicesima e diverse persone intorno a me si sono alzate. Quando ho fatto notare che non era il nostro turno sono stata aggredita. Un signore che mi aveva riconosciuta, anche se avevo due mascherine, ha urlato che mi ha sempre detestata perché scrivo per questo giornale.

Sul bus e in fila per il controllo passaporti nessuno ha mantenuto la distanza sociale, erano tutti belli appiccicati gli uni agli altri, pronti per schizzare fuori dall’aeroporto. Alla fila per il tampone le solite lamentele, e quando la polizia ha fatto passare una famiglia con un bambino piccolo sono partite le occhiate di disapprovazione. Nessuno a Linate ha voluto vedere i risultati del mio tampone londinese, né il certificato di vaccinazione, ma si sono presi l’autocertificazione senza neppure leggerla; quando ho chiesto quando avrei avuto i risultati del tampone che mi stavano facendo, mi hanno risposto “se è negativa mai”. E così, sono uscita dall’aeroporto. Perché vivo nel Regno Unito da quarant’anni non mi è neppure passato per la testa di non fare la quarantena. Nessuno però ha controllato, né chiamato, avrei potuto infischiarmene, insomma!

Finita la quarantena sono andata a vedere cosa succede nelle stazioni sciistiche della Lombardia, che sono aperte fino a lunedì. Nel weekend fiumi di gente si sono riversati lungo le strade, bar strapieni fino alle 18:00; da quell’ora in poi quelli degli hotel si popolano dei loro clienti, nessuno controlla se con loro ci sono amici non residenti nell’albergo. Discorso analogo vale per i ristoranti degli alberghi dove i clienti mangiano ai tavoli decisamente non distanziati. E non potevano mancare tra i commensali i raccomandati del luogo, lascio alla vostra immaginazione la scelta di chi sono costoro.

Secondo punto cruciale: le vaccinazioni. Nel Regno Unito la politica perseguita da Boris Johnson è stata la seguente: lockdown totale, vaccinazione a tappeto e riapertura graduale dopo aver vaccinato tutti gli operatori sanitari, quelli che hanno più di 60 anni e chi è a rischio a causa di patologie specifiche. È chiaro che questo programma ha funzionato benissimo perché ci sono i vaccini. Ed è bene spiegare il motivo: ci sono perché, a differenza di Bruxelles, Londra li ha ordinati e pagati prima che venissero approvati dalle autorità preposte, ha rischiato e ne è valsa la pena. La storia che non ci sono vaccini a sufficienza perché le case produttrici li hanno venduti a caro prezzo, anche agli inglesi, è una frottola, in Italia come in Francia, Spagna e nel resto dell’Unione Europea i vaccini scarseggiano perché Bruxelles li ha ordinati tardi.

Anche per le vaccinazioni in Italia ci sono mille regole, a seconda delle regioni o di chi è a capo del governo, ma così non si va bene avanti. Di certo il fatto che io, 65enne, sia stata vaccinata a Londra un mese e mezzo fa e mia madre 88enne residente a Roma lo sarà il 30 marzo non depone a favore del sistema italiano. Tralascio l’assurdità di far prenotare gli ultra-ottantenni online, mi piacerebbe sapere quanti lo hanno fatto da soli… Nel Regno Unito il sistema è infinitamente più semplice: i medici di base chiamano le persone seguendo un ordine specifico, identico in tutto il paese. Le vaccinazioni vengono somministrate in posti diversi, dagli ambulatori agli stadi. Un sistema elettronico nazionale fa sì che, una volta chiamati, ci si vaccini in 20 minuti: 5 per avere l’iniezione e 15 di osservazione, nel caso si verificasse uno shock anafilattico. Non si compila nessun documento, né si mostrano le tessere sanitarie, basta il nome, il cognome e la data di nascita e il sistema viene aggiornato. Si potrebbe anche parlare delle liste di attesa alle quali ci si può iscrivere per avere alla fine della giornata le dosi restanti dei vaccini, quelli che devono essere scongelati a 6 dosi alla volta, ad esempio.

Ma basta quanto detto per illustrare ai lettori perché le cose funzionano meglio nel Regno Unito e quali sono i veri problemi del contagio e delle vaccinazioni in Italia.

 

 

 
 
 

Ero certo che dopo il Covid tutto sarebbe tornato come prima: ora non ne sono più sicuro

Post n°4624 pubblicato il 27 Febbraio 2021 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Federico Bastiani Società - 27 Febbraio 2021

 

Circa un anno fa, all’inizio della pandemia, scrissi una riflessione sul futuro della socialità. Osservando le Social street sparse per l’Italia, notavo una gran vivacità “on line”, vicini di casa che si sostenevano a vicenda, trovavano modi alternativi per stare insieme, per condividere. Concludevo il post dicendo che l’uomo è un animale sociale e che, finita la pandemia, tutto sarebbe tornato come prima inclusa la socialità che è innata nell’uomo. Dopo un anno non sono più tanto d’accordo con me stesso.

Stiamo vivendo grandi trasformazioni, molte forse le stiamo subendo, ma non sono per niente sicuro che finita la pandemia il mondo tornerà dove l’avevamo lasciato. Abbiamo scoperto che possiamo fare a meno dei cinema perché abbiamo le piattaforme streaming. Molte uscite di film sono state rimandate in attesa della riapertura delle sale cinematografiche, salvo poi adeguarsi e lanciare le “prime” direttamente on line.

Mi ero occupato delle “dark kitchens” prima della pandemia, ovvero la nuova tendenza dei “ristoranti virtuali”. Perché aprire un ristorante che ha costi di gestione elevati quando è possibile noleggiare dei container già attrezzati con cucine professionali ed annesso servizio di consegna a domicilio? In questo modo si sostiene solo il costo di noleggio della cucina ed uno o due impiegati, finito. Non esiste più l’esperienza della “sala”, del rito di andare al ristorante. Da un anno a questa parte, l’home delivery è esplosa.

Siamo sicuri che le nostre abitudini verranno ripristinate? Siamo consapevoli che dovremo portare la mascherina per molto tempo ancora. Ormai indossare la mascherina è diventato quasi un gesto automatico, una nuova normalità così come non dare più la mano, la pacca sulla spalla, quel contatto che ci “avvicinava” probabilmente non ci sarà più. Torneremo ad abbracciarci tranquillamente dopo aver subito un lavaggio del cervello sulla “pericolosità” del gesto? Sarà automatico tornare a rifrequentare i luoghi affollati? Non ne sono più sicuro.

Probabilmente anche la socialità così come la ristorazione, i cinema, la musica, le radio, subirà una trasformazione verso una nuova forma. In questi mesi ho parlato con moltissimi teenager e la quasi totalità di loro mi ha detto di essere contento di frequentare la scuola on line piuttosto che in presenza. Loro sono il nostro futuro e, forse, conviene osservarli per capire dove andrà il mondo. Il fenomeno degli hikikomori non è una novità. I ragazzi trascorrevano anche prima della pandemia più tempo nella vita virtuale che in quella reale, la pandemia ha solo amplificato il fenomeno. Dobbiamo capire in che modo questa condizione impatterà sulla socialità del futuro, sulle relazioni.

Ho provato a chiederlo al professor Robert Putnam, docente di Politiche pubbliche all’Università di Harvard, che ho avuto modo di conoscere anni fa quando scoppiò il fenomeno delle Social street. Il suo approccio è più ottimista del mio. “Nei primi mesi della pandemia, proprio come i primi anni dei social network, abbiamo vissuto una cyber euforia. Potevamo fare tutto on line, però, dopo un anno siamo passati al cyber pessimismo perché è chiaro che la Dad funziona per i privilegiati, o che vedere i nonni di persona è meglio che vederli su Zoom.” Sono trascorsi vent’anni da quando Putnam pubblicò Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community in cui analizzava i cambiamenti della società. “È difficile prevedere le conseguenze a lungo termine della pandemia così come lo fu quando scoppiò la peste, ma sono molto scettico che il nostro futuro potrà fare a meno delle relazioni face to face”.

Forse la pandemia gioca solo un piccolo ruolo sulla socialità del futuro, la pensa così uno dei più noti sociologi al mondo, Anthony Giddens. “La socialità è già influenzata da anni dalle nuove tecnologie, dall’Intelligenza Artificiale, per analizzare bene il fenomeno bisognerebbe districare ogni componente ed analizzarla, inclusa la pandemia, non è semplice”. Un po’ come gli acquisti on line, una tendenza in costante aumento che ha avuto un’impennata durante la pandemia. Anni fa, solo determinati acquisti si effettuavano on line, adesso non c’è cosa che non si possa gestire su internet. La pandemia ha funzionato da acceleratore e ha modificato alcune abitudini che probabilmente non verranno ripristinate. La socialità subirà lo stesso processo?

Paradossalmente sono proprio le tecnologie oggi a venirci incontro per ottenere una socialità “reale”. Le app di dating come Tinder hanno fatto registrare un boom di utenti. Con bar, discoteche, luoghi di aggregazione chiusi, la possibilità d’incontro è ridotta ai minimi termini e la tecnologia in questo caso viene in soccorso. Come per le Social street, dal virtuale al reale, lo strumento digitale diventa un modo per tornare lì dove tutto inizia, le relazioni. La pandemia rimescolerà le carte in tutti i settori, anche in quello sociale.

Quello che dobbiamo augurarci è che qualunque siano gli scenari futuri, il mimino comune denominatore sia sempre la parola “ubuntu”, quel legame universale di scambio che unisce l’umanità intera, sia esso virtuale o reale.

 

 

 
 
 

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NON LASCIAMOCISOLI & CHE

O siamo Capaci di sconfiggere le idee contrarie con la discussione, O DOBBIAMO lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza,perchè questo blocca il libero Sviluppo dell'intelligenza "
Ernesto Che Guevara
  

XXI secolo?

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