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Messaggi del 19/03/2020

Le più sentite condoglianze.

Post n°2611 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Si è appreso con tristezza da canali privati che

la prof.ssa Capelli Alessandra, stimata insegnante

in servizio all'Istituto Olivelli, è venuta a mancare

all'affetto dei suoi cari. 

E' con sentito e profondo cordoglio che Blogteca

porge le più sentite condoglianze alla famiglia.

 

 
 
 

Da Nettuno....

Post n°2610 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet
NOTIZIE SCIENTIFICHE

HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Scoperti altri 139 oggetti trans-nettuniani, periferia del

sistema solare sempre più affollata

12 Marzo 2020 Spazio e astronomiaTop news

Il quartiere del sistema solare oltre Nettuno non finisce di

riservare sorprese. Analizzando i dati del Dark Energy Survey

(DES), un team di ricercatori dell'Università della Pennsylvania

ha infatti confermato la presenza di più di 300 ulteriori oggetti

transnettuniani (TNO), di cui centro 139 nuove scoperte, diversi

dei quali considerabili come pianeti minori o pianeti nani,

in queste remote aree del sistema solare.

Lo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal Supplement Series,

descrive anche quello che può essere definito come un nuovo approccio

per trovare oggetti di questo genere, qualcosa di utile anche per le ricerche

future, e soprattutto per trovare il tanto agognato Pianeta Nove, detto

anche pianeta X, un ipotetico pianeta (e non un pianeta nano o minore)

che circolerebbe indisturbato nelle aree più remote del sistema solare.

Il sondaggio DES non era stato inizialmente condotto per scoprire

nuovi oggetti oltre Nettuno ma per comprendere la natura dell'energia

oscura analizzando, tramite immagini ad alta precisione, la zona del

cielo meridionale tutto ciò che da quella posizione si può osservare, in

primis galassie e supernovae.

Tuttavia i dati succulenti hanno fatto gola agli astronomi tra cui anche

lo studente laureato Pedro Bernardinelli e i professori Gary Bernstein

e Masao Sako dell'Università della Pennsylva

nia.
Bernardinelli spiega che per trovare TNO basta trovare un modo per

vedere l'oggetto muoversi sullo sfondo, in questo modo è più facile

rintracciarli.

Il ricercatore, con l'aiuto dei due professori, ha iniziato una prima fase

in cui ha dovuto lavorare su ben 7 miliardi di possibili oggetti rilevati

dal software, movimenti interessanti di oggetti transitori su uno sfondo

fisso, cosa che indicava la vicinanza di questi stessi oggetti rispetto a

galassie, supernovae o altri distanti oggetti.

Man mano questo elenco di candidati è stato scremato, tramite un

nuovo metodo sviluppato dallo stesso Bernardinelli, e dopo molti

mesi di lavoro si è giunti ad un risultato di 316 oggetti trans-nettuniani

confermati, di cui 139 sono nuove scoper

te in quanto mai precedentemente pubblicati.

Dato che i TNO totali sono solo 3000, questo nuovo catalogo

rappresenta il 10% di tutti i TNO conosciuti.

Si tratta di oggetti che sono distanti da noi da 30 a 90 volte la distanza

che separa la Terra dal Sole. Inoltre alcuni di questi oggetti hanno

orbite estremamente allungate a causa delle quali ad un certo punto

saranno lontanissimi, ben oltre Plutone e ben oltre le distanze che

oggi li separano dal Sole.
Il metodo usato da Bernardinelli potrà essere utilizzato in futuro per

fare scoperte simili, come spiega lo stesso ricercatore: "Molti dei

programmi che abbiamo sviluppato possono essere facilmente applicati

a qualsiasi altro set di dati di grandi dimensioni, come quello che

produrrà l'Osservatorio Rubin".

 
 
 

Affascinanti notizie dall'antichità.

Post n°2609 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

La Rivista della Natura

SCOPERTE SCIENTIFICHEMeno di 10.000 anni fa il Sahara

era ricco di laghi e fiumi e i suoi abitanti vivevano di pesca

Meno di 10.000 anni fa il Sahara era ricco di laghi e fiumi e i suoi abitanti vivevano di pescaIl campo base dei ricercatori. ©Archivio Missione Sahara Libico

Sapienza Universita di Roma

In un remoto angolo della Libia sudoccidentale sono state trovate

 migliaia di ossi di pesci che raccontano come negli ultimi 10mila

anni il Sahara si sia progressivamente inaridito, trasformandosi da

eden ricco d'acqua in una distesa infinita di sabbie infuocate, cambiando

inesorabilmente gli scenari per la vita della fauna selvatica.

A rivelare questa nuova importante scoperta è uno studio appena

pubblicato sulla rivista scientifica PLOS ONE, coordinato dal

Dipartimento di Scienze dell'antichità della Sapienza e svolto in

collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università

degli Studi di Milano e il Royal Belgian Institute of Natural

Sciences di Brussels.

©Archivio Missione Sahara Libico Sapienza Universita di Roma

Come cambiò la dieta degli antichi abitanti

Studiando il deposito archeologico del rifugio di Takarkori, infatti,

gli scienziati hanno individuato più di 17.500 resti animali, identificati

come scarti alimentari grazie ai segni di taglio e di cottura che

presentavano; di questi, solo il 19% era costituito da mammiferi, uccelli,

rettili, molluschi e anfibi, mentre il restante 80% era formato da

fauna ittica.

Il deposito archeologico di Takarkori. ©Archivio Missione Sahara

Libico Sapienza Universita di Roma

La datazione dei resti ha attestato la graduale riduzione della fauna

ittica a favore dei mammiferi: tra quelli datati nel periodo 10.200-8.000 a.C.,

il pesce rappresentava il 90% del totale.

Una quota calata fino al 40% nei resti datati tra il 5.900-4.650 a. C.:

questi dati consentono di apprezzare la progressiva affermazione della

pastorizia nel Sahara, durante la quale la risorsa ittica ha gradualmente

perso importanza, per scomparire intorno ai 5.000 anni fa.

Gli scavi a Takarkori. ©Archivio Missione Sahara Libico Sapienza

Universita di Roma

Preziosi indizi dal tipo di pesci trovati

Un'analisi più approfondita della tipologia dei pesci presenti ha permesso

di delineare ulteriormente le modalità di questa transizione nel corso del

tempo: i ricercatori hanno notato, infatti, che i due pesci che costituivano

la maggior parte dei resti (pesce gatto e tilapia) erano presenti in

concentrazioni molto diverse a seconda del periodo studiato.

La tilapia. ©Archivio Missione Sahara Libico Sapienza Universita di Roma

Se in una fase iniziale la tilapia è risultata la specie prevalente tra le

due, i ricercatori hanno registrato nel periodo più recente, un'inversione

di questa proporzione e il pesce gatto, che grazie al suo sistema

respiratorio è grado di sopravvivere in acque poco ossigenate e a basso

fondale, è diventato predominante: questa tendenza rappresenta un

indizio prezioso nella ricostruzione del processo di progressivo

inaridimento della regione e della sua successiva desertificazione.

Fiumi e laghi ormai scomparsi erano collegati al Nilo

Tra 10 e 5mila anni fa, infatti, il Sahara era una regione con un

paesaggio variegato, che alternava dune sabbiose costellate di piccoli

laghi, a fiumi che scorrevano dalle montagne verso ampie pianure

coperte da savana.

Ed era densamente abitato, sia da animali selvatici, sia da comunità

umane, prima di cacciatori-raccoglitori, poi di pastori.


©Archivio Missione Sahara Libico Sapienza Universita di Roma

«La presenza di specie tipiche dell'Africa orientale ha permesso di

ricostruire la progressiva migrazione di pesci dal Nilo al centro del

Sahara, avvenuta quando l'ambiente era più umido e offriva delle

 vie d'acqua tra loro connesse - spiega l'archeologo della Sapienza

Savino di Lernia - e questo rende possibile ricostruire l'antico

reticolo idrografico della regione Sahariana e la sua interconnessione

con il Nilo, fornendo informazioni cruciali sui drammatici

cambiamenti climatici che hanno portato alla formazione del più

grande deserto caldo del mondo».

 
 
 

L'origine della vita sulla Terra.

Post n°2608 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Meteoriti che seminano la vitaI mattoni fondamentali per la nascita della vita

sarebbero arrivati sulla Terra a cavallo di meteoriti

e comete. | SHUTTERSTOCK  

Nuove analisi di un meteorite precipitato in Algeria

nel 1990 hanno permesso di individuare la presenza,

nella roccia spaziale, di una piccola ma completa

proteina mai osservata prima sul nostro pianeta.

Gli scienziati dell'Università di Harvard l'hanno

chiamata emolitina: è composta principalmente da

un amminoacido, la glicina, combinato con atomi

di ferro, ossigeno e litio, in una configurazione del

tutto nuova, per la scienza.

È una proteina di origine extraterrestre, anche se

la sua scoperta non è una prova di vita extraterrestre:

piuttosto, questa molecola potrebbe fornire nuovi indizi

sullo sviluppo della vita sulla Terra.

PIATTO PRONTO. Già più volte, in passato, sono stati

scoperti amminoacidi - i blocchi di base delle proteine

- in meteoriti e frammenti di comete precipitati sulla

Terra in un lontano passato. Nella struttura chimica

delle rocce spaziali sono stati osservati anche i 

precursori degli amminoacidi, come zuccheri e materiale

organico.

Ma un conto è trovare questi ingredienti primitivi sparsi

qua e là, un altro è ritrovarli già "cucinati" in una struttura

complessa e ben organizzata come una proteina.

Ancora non è chiaro come l'emolitina si sia assemblata

nello Spazio, ma si pensa che le unità di glicina si possano

formare sui granuli di polvere stellare, e che le calde

nubi molecolari abbiano garantito le condizioni per

collegare questi tasselli in catene polimeriche e quindi in

proteine.

 

ENERGIA DISPONIBILE.

 Una volta piombati sulla Terra, in epoche remote, i gruppi

di atomi all'estremità di questa proteina potrebbero aver

formato un tipo di ossido di ferro capace di assorbire la

luce solare e dividere le molecole d'acqua in atomi di

idrogeno e ossigeno, le prime fonti energetiche fondamentali

per lo sviluppo della vita. Se la scoperta - pubblicata su arXiv

 ancora senza revisione - fosse confermata, potrebbe forse

essere estesa anche ad altri pianeti potenzialmente abitabili.

 
 
 

Una rete cosmica.

Post n°2607 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

NOTIZIE SCIENTIFICHE

HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Rete cosmica modellizzata al computer osservando

muffe melmose

10 Marzo 2020 Spazio e astronomiaI ricercatori hanno usato un database con più

di 37.000 galassie per generare un algoritmo

con il quale è stata creata un'intricata rete

filamentosa che dovrebbe rappresentare la rete

di filamenti cosmici realmente esistente (credito:

Burchett et al., ApJL, 2020)

Nuove conferme dell'esistenza di una rete

cosmica che collega tutte le galassie dell'universo

sono arrivate da un nuovo studio apparso su 

Astrophysical Journal Letters.

Il nuovo studio ha utilizzato un approccio computa-

zionale ispirato ai modelli di crescita della "melma"

formata dai funghi mucillaginosi.

Si tratta di una struttura su larga scala prevista dalle

principali teorie cosmologiche.

La teoria principale vede la formazione di questa rete

di filamenti interconnessi, separato però da vuoti

enormi, formarsi mentre l'universo si espandeva e

si evolveva a seguito del big bang. Con l'espansione,

la materia veniva distribuita attraverso questa rete

che presentava regioni più dense, quelle occupate

dagli ammassi di galassie, e regioni meno dense,

fatte pressoché di vuoto.

Questa rete sarebbe fatta perlopiù di idrogeno molto

diffuso e dunque invisibile.

Per studiare questa rete cosmica, i ricercatori si sono

rifatti alla rete melmosa del Physarum polycephalum,

un protista melmoso unicellulare di colore giallo.

Questa muffa melmosa in genere cresce sui tronchi in

decomposizione o sui rifiuti vegetali, come quelli delle

foglie morte sui suoli della foresta, formando masse

gialle spugnose sui prati.

Questa forma di vita ha da sempre sorpreso gli scienziati

per la sua notevole capacità di formare reti interconnesse

per la distribuzione di nutrienti.

Per visualizzare meglio la rete cosmica su larga scala, Joe

Burchett ha seguito i consigli di un altro ricercatore, Oskar

Elek, che gli ha suggerito di utilizzare come modello proprio

il Physarum per creare il suo algoritmo, poi denominato

Monte Carlo Physarum Machine.

Per creare l'algoritmo, i due ricercatori hanno utilizzato un

database con 37.000 galassie denominato Sloan Digital Sky

Survey (SDSS).

"È un po 'una coincidenza che funzioni, ma non del tutto.

Uno stampo di melma crea una rete di trasporto ottimizzata,

trovando i percorsi più efficienti per collegare le fonti alimentari.

Nella rete cosmica, la crescita della struttura produce reti

che sono, in un certo senso, anche ottimali.

I processi sottostanti sono diversi, ma producono strutture

matematiche analoghe", dichiara Burchett.

La muffa melmosa ha essenzialmente replicato in tre

dimensioni la rete di filamenti cosmica compresa la materia

oscura, un importante soggetto che da solo rappresenta

una buona percentuale della materia dell'universo e che

permette a questa rete sostanzialmente di esistere.

"Questi risultati non solo confermano la struttura della rete

cosmica prevista dai modelli cosmologici, ma ci danno anche

un modo per migliorare la nostra comprensione dell'evoluzione

delle galassie collegandola ai serbatoi di gas da cui si

formano le galassie", dichiara Burchett.

 
 
 

L'espansione dell'universo.

Post n°2606 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Espansione dell'universo: e se ci trovassimo in una

gigantesca bolla di diversa densità?

10 Marzo 2020 Spazio e astronomia

Uno nuovo studio sulla velocità con la quale l'universo si sta

espandendo sembra risolvere, almeno in parte, le divergenze

che fisici e cosmologi hanno ottenuto tentando di misurarla.

Il nuovo studio, pubblicato su Physics Letters B, lo fa senza

ricorrere ad alcuna "nuova fisica".

Attualmente i metodi messi in atto per misurare questa velocità

sono due: il primo si basa sullo sfondo cosmico a microonde e

sui dati forniti in particolare dalla missione spaziale Planck.

Secondo questo primo metodo si ottiene un valore per la cosiddetta

 "costante di Hubble" di 67,4 (km/s)/Mpc.

Ossia l'universo si sta espandendo di 67,4 km al secondo più

rapidamente ogni 3,26 milioni di anni luce.

Il secondo metodo si basa sulle supernovae che appaiono in

maniera sporadica in galassie distanti.

Misurando questi forti eventi luminosi, si ha invece un valore

della costante di Hubble di 74.

Lucas Lombriser, ricercatore della Facoltà di Scienze dell'UNIGE,

dichiara: "Questi due valori hanno continuato a diventare più precisi

per molti anni pur rimanendo diversi l'uno dall'altro.

Non ci è voluto molto per scatenare una controversia scientifica e

persino per suscitare l'eccitante speranza che forse stessimo affrontando

una 'nuova fisica'".

Secondo Lombriser forse queste divergenze sono attribuibili al fatto

che alla fine l'universo non è poi così omogeneo come sempre affermato.

È sempre stato difficile immaginare, infatti, fluttuazioni, per esempio,

relative alla densità media della materia calcolata su volumi migliaia

di volte più grandi di una galassia.

Proprio per questo Lombriser, nel suo nuovo studio, ha teorizzato

l'esistenza di una gigantesca bolla, del diametro di 250 milioni di anni

luce, in cui è presente anche la nostra galassia ed in cui la densità dell

a materia è significativamente inferiore

 alla densità nota per l'intero universo.

Una cosa del genere avrebbe un impatto sul calcolo della costante di

Hubble perché questa stessa bolla includerebbe le galassie a cui di solito

si fa riferimento per misurare le distanze.

Dunque, stabilendo che questa bolla enorme esiste e stabilendo che la

densità della materia all'interno possa essere inferiore del 50% rispetto

a quella del resto dell'universo, si otterrebbe un valore per la costante

di Hubble che convergerebbe con quello ottenuto utilizzando il primo

metodo, quello dello sfondo cosmico a microonde: "La probabilità che

ci sia una tale fluttuazione su questa scala va da 1 su 20 a 1 su 5, il che

significa che non è la fantasia di un teorico.

Ci sono molte regioni come la nostra nel vasto universo".

 
 
 

Altre notizie da Mercurio.

Post n°2605 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Ghiaccio su Mercurio in crateri permanentemente ombreggiati ai poli

14 Marzo 2020 Spazio e astronomiaTop newsIl ghiaccio sarebbe presente all'interno dei crateri nei poli del pianeta, in zone permanentemente in ombra (credito: NASA / MESSENGER)

Potrebbe esserci davvero del ghiaccio su Mercurio, il pianeta

più vicino al Sole nel nostro sistema solare.

Nonostante infatti sia difficile credere che del ghiaccio possa

essere presente su un pianeta che supera i 400 °C per quanto

riguarda le temperature superficiali, un nuovo studio mostra

che il ghiaccio potrebbe esistere grazie allo stesso calore del

pianeta.

Su Mercurio, infatti, ci sono piccole zone in crateri posti ai poli

che sostanzialmente non vedono mai la luce del Sole.

In queste zone può formarsi del ghiaccio, come spiegano gli

scienziati del Georgia Institute of Technology.

Il modello sviluppato dai ricercatori vede innanzitutto il calore

estremo del pianeta liberare i cosiddetti gruppi idrossilici, minerali

presenti nel suolo superficiale del pianeta.

Questo processo porta alla produzione di molecole d'acqua e di

idrogeno che si sollevano spostandosi intorno al pianeta.

La maggior parte delle molecole d'acqua viene scompos scompost

a te dalla luce solare oppure si alza molto al di sopra della

superficie del pianeta stesso.

Tuttavia alcune di queste molecole finiscono per atterrare nelle

suddette zone vicino ai poli, zone in ombra permanente proprio

a causa della conformazione dei crateri.

Non essendoci un'atmosfera su Mercurio, non c'è neanche una

trasmissione di aria che possa condurre il calore.

Questo significa che queste molecole d'acqua che vanno a poggiarsi

all'interno di questi crateri in ombra si ghiacciano permanentemente.

"È un po 'come la canzone Hotel California.

Le molecole d'acqua possono entrare nell'ombra ma non possono mai

andarsene", spiega Thomas Orlando, l'autore principale dello studio.

Questo processo arriverebbe a formare fino al 10% di ghiaccio totale

presente sul pianeta e potrebbe formare fino a 1013 kilogrammi di

ghiaccio in 3 milioni di anni.

D'altronde già nel 2011 la sonda spaziale MESSENGER della NASA

aveva individuato la presenza di segnali tipici di presenza del ghiaccio

intorno ai poli, segnali che indicavano indicava la presenza di ghiaccio

"sporco" che si nascondeva all'ombra permanente nei crateri polari,

crateri naturalmente formatisi dall'impatto di asteroidi e meteoriti

nel passato del pianeta.

 
 
 

Ricerca di civiltà intergalattiche

Post n°2604 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Parte progetto PANOSETI per cercare extraterrestri

in tutto il cielo visibile

9 Marzo 2020 Spazio e astronomia

È stato denominato PANOSETI (Pulsed All-sky Near

-infrared Optical SETI) il nuovo progetto di ricerca

di vita extraterrestre intelligente che dovrebbe basarsi

su una rete di centinaia di telescopi ottici a infrarosso

che dovranno indagare in tutto il cielo.

Per il momento sono stati inaugurati i primi due telescopi

installati presso il Lick Observatory nei pressi di San José,

Stati Uniti.

Il progetto, portato avanti da ricercatori dell'Università

della California a San Diego, di Berkeley e di Harvard,

cercherà costantemente ogni notte nel cielo i probabili

segnali di vita intelligente all'interno della nostra galassia.

La rete di telescopi sarà specializzata nel cercare lampi di

luce ottica o infrarossa, ossia segnali pulsanti che si

verificano su scale temporali che vanno dai nanosecondi

ai secondi.

Pulsazioni che possono venire non solo da fenomeni astrofisici,

primi fra tutti i cosiddetti lampi radio veloci, ma anche da

fonti artificiali e quindi da civiltà intelligenti extraterrestri.

La rete di telescopi PANOSETI esploderà dunque l'universo

su una scala temporale del miliardesimo di secondo, una

scala che non era stata mai esaminata a dovere fino ad

ora nel contesto dei progetti SETI.

I telescopi del progetto serviranno comunque a scoprire

non solo segnali provenienti da extraterrestri ma anche

nuovi fenomeni astronomici.

"Con PANOSETI osserveremo uno spazio inesplorato per

SETI e le osservazioni astronomiche.

Il nostro obiettivo è quello di realizzare il primo osservatorio

SETI dedicato in grado di osservare tutto il cielo visibile

tutto il tempo", dichiara Shelley Wright, astrofisica della

UC San Diego e una delle responsabili del progetto.

I telescopi permetteranno di controllare grandi aree del

cielo per lunghi periodi di tempo, proprio ciò di cui c'è

bisogno per trovare segnali molto brevi ma potenti nonché

molto rari.

L'inizio dello sviluppo del progetto cominciò nel 2018 quando

ci si decise di dedicare interi osservatori alla ricerca SETI per

cercare nell'intero cielo osservabile, circa 10.000 gradi quadrati.

Il progetto finale prevede l'istallazione di centinaia di telescopi

per ottenere questo tipo di copertura (ogni singolo telescopio

della rete potrà cercare su un'area del cielo di 10 × 10°; per

comparazione la Luna, vista dalla Terra, copre mezzo grado).

 
 
 

Da Marte, notizie a gogò.

Post n°2603 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet.

NOTIZIE SCIENTIFICHE

ABDragonHOME SCIENZA SPAZIo

Un buco su Marte: l'ingresso per una base sul Pianeta Rosso

L'antica attività vulcanica su Marte ci ha lasciato un'eredità

preziosa: tunnel di lava, con tanto di ingresso indipendente,

da usare come habitat protetti per i futuri coloni.

Pianeta Rosso: un tunnel su MarteMarte: un foro sul fondo del cratere apre un passaggio verso

un gigantesco tunnel nel fianco di Pavonis Mons, un antico

vulcano a scudo sul Pianeta Rosso. | NASA / JPL / U. OF

ARIZONA  

Il 1° marzo sul sito della NASA che ogni giorno ospita una

nuova fotografia in tema di astronomia era online un'immagine

di Marte che ha attirato particolare attenzione (vedi sopra).

Salta subito all'occhio la particolarità di quello scatto, catturato

nel 2011 dallo strumento HiRISE del satellite Mars Recon-

naissance Orbiter (MRO, della NASA), in orbita attorno

al Pianeta Rosso dal 2006: un cratere con un grande buco sul

fondo... Non è opera di minatori marziani, ma una sorta di

 lucernario aperto su di un tubo di lava.

Ecco che cosa significa e perché è importante.

I tubi di lava sono veri e propri tunnel che si formano quando si

produce un colata lavica molto abbondante e molto fluida: nel

flusso, la parte superiore della colata può raffreddarsi al punto

tale da creare un tubo entro il quale il fiume di lava continua a

fluire.

Quando poi l'eruzione termina e l'ultima lava è fuoriuscita dal

tunnel, rimane il tunnel. Ci sono anche sulla Terra, in prossimità

di vulcani che danno luogo a colate di magma molto fluido, come

quelli delle Hawaii - o anche l'Etna.


Marte, Pianeta Rosso: tunnel di lavaMarte: questa immagine in alta risoluzione di un versante di

Pavonis Mons, catturata dalla fotocamera HRSC dalla sonda

Mars Express (ESA) il 2 ottobre 2004, mostra chiaramente il

tracciato superficiale di alcuni tunnel di lava. | ESA/DLR/FU

BERLIN (G. NEUKUM)


UN TUBO GIGANTESCO. Quella fotografia è stata scattata

all'MRO durante un passaggio al di sopra di un vulcano a scudo 

di Marte, il Pavonis Mons: i vulcani a scudo sono chiamati così

perché il loro diametro è enormemente superiore alla loro altezza.

Analizzando fotografie di questo genere, i geologi possono

identificare strutture come quelle dei tubi di lava, che si snodano

per chilometri e chilometri, e grazie alle immagini in alta risoluzione

può capitare di identificare dei lucernari: fori sul plafone del tunnel,

che si formano quando per qualche motivo il tetto del condotto

crolla sul fondo.


Terra, Hawaii: un lucernario su di un tubo di lava fluidaTerra: un lucernario aperto su di un tubo di lava incandescente,

alle Hawaii. | US GEOLOGICAL SERVICE

La foto in questione racconta di una struttura sorprendente: il foro

ha un diametro di circa 35 metri, mentre la pila di materiale

precipitata sul fondo (che non si vede in una comune immagine

per Internet) sembra innalzarsi per circa 28 metri.

Analisi più approfondite hanno poi permesso di calcolare che il

tunnel sotterraneo deve avere una circonferenza di circa 90 metri

(28-30 metri di diametro: è gigantesco, molto più grande di

qualunque tubo di lava noto sulla Terra.

 

BASI IDEALI PER I COLONI. I tubi di lava non sono solo fenomeni

geologici da ammirare con meraviglia e curiosità, ma anche luoghi di

grande interesse per le esplorazioni umane sulla Luna e su altri pianeti.

Perché al loro interno potrebbe essere possibile costruire delle

basi permanenti, capaci di proteggere i coloni dall'ambiente ostile

e dalle radiazioni che provengono dallo Spazio e dal Sole e che, in

assenza di un campo magnetico capace di deviarle (com'è il caso di

Marte), raggiungono la superficie.

 


Non solo: non si può escludere che al loro interno possa essersi

rifugiata la vita, se mai c'è stata, proprio per trovare riparo dalle

radiazioni.

Questi tunnel sono, insomma, i luoghi giusti dove fare arrivare

uomini, robot e rover per un'esplorazione a tutto campo del Pianeta

Rosso.

 
 
 

Altre notizie sul pianeta Mercurio.

Post n°2602 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

  Fonte: articolo riportato dall'Internet

  NOTIZIE SCIENTIFICHE

  19 Aprile 2019 Spazio e astronomiaIllustrazione che mostra le sezioni del pianeta Mercurio

compreso il nucleo interno solido (credito: Antonio Genova)

Mercurio è caratterizzato da un solido nucleo interno solido e,

come la Terra, di tipo metallico.

Ad arrivare a questa conclusione è stato Antonio Genova,

professore alla sapienza di Roma che ha condotto la ricerca

mentre si trovava al Goddard Space Flight Center della NASA

a Greenbelt, Maryland.
Questo nucleo interno solido risulterebbe, inoltre, della stessa

dimensione del nucleo interno solido della Terra.

Ciò significa che questa palla solida interna occupa quasi l'85%

del volume del pianeta.

Si tratta di una parte interna tuttora attiva per la presenza di un

nucleo fuso il quale va ad alimentare il campo magnetico del

pianeta, comunque debole rispetto a quello terrestre, come

specifica lo stesso Genova, il quale aggiunge: "L'interno di Mercurio

si è raffreddato più rapidamente di quello del nostro pianeta:

Mercurio può aiutarci a prevedere come cambierà il campo magnetico

terrestre mentre il nucleo si raffredda".

I ricercatori hanno utilizzato i dati della sonda spaziale MESSENGER,

entrata in orbita intorno a Mercurio nel marzo del 2011, la cui missione

è durata quattro anni.

Nello specifico hanno determinato le anomalie gravitazionali di Mercurio

e la precisa posizione del suo polo rotazionale (l'asse su cui gira).

Inserendo questi dati nello computer, Genova e colleghi hanno regolato

i parametri per adattarsi alle modalità di rotazione dello stesso Mercurio

e le migliori corrispondenze mostravano che questo pianeta deve avere

un nucleo interno solido e molto grande, largo circa 2000 km, che costituisce

circa la metà dell'intero nucleo di Mercurio (totale di 4000 km.)

 
 
 

altre notizie sui terremoti.

Post n°2601 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet.
NOTIZIE SCIENTIFICHE

Terremoti deformano gravità e ciò può essere

misurato per rilevarne in tempo distruttività

25 Febbraio 2020 Geologia e storia della Terra

Quando avviene un terremoto si propagano sotto

terra dei segnali con una velocità vicina a quella

della luce.

Questi segnali possono essere registrati prima delle

onde sismiche le quali, a confronto, risultano molto

lente dato che possono viaggiare in media ad 8 km

al secondo.

I segnali velocissimi provocati dai terremoti sono piccoli,

quasi impercettibili, cambiamenti di gravità causati dallo

spostamento della massa interna della Terra.
Si chiamano segnali PEGS (prompt elasto-gravity

signals) e sono già stati rilevati con misurazioni sismiche.

Si ritiene che questi segnali potrebbero rivelarsi

utilissimi per prevedere, o meglio, rilevare un terremoto

prima che avvengano le scosse distruttive oppure

prima che arrivino le onde di uno tsunami.

Il problema è che questo effetto gravitazionale è

debolissimo e quindi difficilmente percettibile.

Si pensi che è equivalente a meno di un miliardesimo

della gravità terrestre.

Questo significa che possono essere misurati solo

per i terremoti più grandi e distruttivi.

Un team di ricerca ha creato uno nuovo algoritmo

proprio per rilevare con maggiore precisione i segnali PEGS.

L'algoritmo è stato descritto in un nuovo studio apparso

su Earth and Planetary Science Letters.

I ricercatori sono riusciti a fare previsioni più accurate

sulla forza dei segnali che un terremoto provoca, in

particolare quello relativo alla gravità oscillante che

ogni terremoto produce.

Questa gravità oscillante produce infatti un effetto di

forza, a breve termine, sulle rocce e ciò innesca delle

onde sismiche secondarie le quali possono essere

rilevate prima di quelle primarie, ossia alle onde

sismiche scatenate dal terremoto in sé.

"Abbiamo affrontato il problema dell'integrazione di

queste interazioni multiple per fare stime e previsioni

più accurate sulla forza dei segnali", dichiara Torsten

Dahm, capo della sezione Fisica dei terremoti e dei

vulcani del Centro di ricerca tedesco GFZ per le

geoscienze. "Rongjiang Wang ha avuto l'idea geniale

di adattare un algoritmo che avevamo sviluppato in

precedenza al problema PEGS - e ci è riuscito."

In futuro l'algoritmo potrebbe essere utilizzato per

capire se un terremoto può scatenare uno tsunami

anche se gli stessi ricercatori ammettono che ad oggi

gli strumenti di misurazione non sono ancora abbastanza

sensibili per ottenere risultati del genere.

 
 
 

Il West americano.

Post n°2600 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet
 NOTIZIE SCIENTIFICHE.

L'arido West americano si sposta sempre più verso est

HOMETERRAGEOLOGIA E STORIA DELLA TERRA

14 Febbraio 2020 Geologia e storia della Terra,

 Top newsIl riscaldamento aumenta l'aridità e sposta i limiti di

acqua ed energia dell'evapotraspirazione (credito: 

DOI: /10.1038/s41467-020-14688-0

Nature Communications)

Una nuova ricerca apparsa su Nature Communications

 mostra che le caratteristiche aree aride e secche del

West americano si stanno spostando sempre più verso

est anche a causa della diminuzione delle acque sotter-

ranee che sta accelerando la tendenza all'essiccazione.

Sarebbero infatti circa 119 i milioni di metri cubi di acqua

che gli Stati Uniti orientali avrebbero perso secondo i

modelli realizzati dagli stessi ricercatori, un quantitativo

di acqua sufficiente per riempire un quarto del lago Erie.

La causa principale sarebbe naturalmente da addurre al

riscaldamento globale in corso, come lascia intendere

Reed Maxwell, professore di idrologia presso la Colorado

School of Mines ed uno degli autori dello studio:

"Anche con un caso di riscaldamento di 1,5 gradi

Celsius, è probabile che perdiamo molta acqua

sotterranea".

Dal punto di vista dell'approvvigionamento dell'acqua,

la costa orientale degli Stati Uniti potrebbe nei prossimi

decenni iniziare ad apparire come la costa occidentale,

qualcosa che risulterà una vera e propria sfida da

risolvere.

Questo studio è uno dei pochi che prendere in considera-

zione la circolazione globale delle acque sotterranee per

quanto riguarda il clima terrestre, in particolare per

quanto riguarda le tendenze all'essiccazione del suolo.

Molto spesso si prendono infatti in considerazione solo

i movimenti d'acqua sulle superfici, le tendenze della

pioggia e il movimento perpendicolare dell'acqua stessa

che dalla parte sottostante può arrivare alla superficie.

"Abbiamo chiesto come sarebbe la risposta se includes-

simo l'intera complessità del movimento dell'acqua nel

sottosuolo in una simulazione su larga scala, e pensiamo

che questa sia la prima volta che è stato fatto", riferisce

Laura Condon dell'Università dell'Arizona, l'autrice

principale dello studio.

I risultati mostravano che gli Stati Uniti orientali, rispetto

a quelli occidentali, sono molto più sensibili all'abbassa-

mento della falda freatica e alla diminuzione delle acque

sotterranee, oltre che di quelle superficiali.

Forti danni saranno arrecati alla vegetazione oltre che a

tutti quegli ecosistemi che fanno ricorso ai corsi d'acqua

e ai fiumi, comprese le comunità di esseri umani.

Il punto di non ritorno potrebbe essere raggiunto dalle

regioni degli Stati Uniti orientali quando la vegetazione

inizierà perdere l'accesso alle acque sotterranee

poco profonde.

"Inizialmente, le piante potrebbero non sperimentare

stress perché hanno ancora a disposizione acque

sotterranee poco profonde, ma mentre continuiamo

ad avere condizioni più calde, possono compensare

sempre meno e i cambiamenti saranno più drammatici

ogni anno", riferisce la Condon.

"In altre parole, le acque sotterranee poco profonde

stanno tamponando la risposta al riscaldamento, ma

quando si esauriranno, non potranno più farlo"

 
 
 

Biologia molecolare.

Post n°2599 pubblicato il 19 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

HOMEBIOLOGIAGENETICA E

BIOLOGIA CELLULARE/MOLECOLARE

Infarto, nuovo trattamento con staminali rigenera

vasi sanguigni e tessuto cardiaco

14 Marzo 2020 Genetica e biologia cellulare/

molecolare

Un nuovo studio pubblicato su NPJ Regenerative Medicine 

descrive la scoperta relativa ad alcune cellule staminali nel

corpo umano che potrebbero rivelarsi molto utili per trattare

le condizioni che seguono ad un infarto.

Queste cellule staminali, denominate cellule cardiopoietiche,

possono riportare il muscolo cardiaco in funzione invertendo

i cambiamenti causati dall'infarto stesso.

Le cellule cardiopoietiche derivano da cellule staminali

presenti nel midollo osseo.

Andre Terzic, direttore del Centro di medicina rigenerativa

della Mayo Clinic, spiega che il cuore non è capace da solo

di riparare se stesso a seguito di un infarto perché i cambiamenti

apportati dall'infarto stesso sono troppo grandi.

La terapia che hanno ideato, basata sulle cellule staminali

cardiopoietiche, sembra invertire, quasi in tutto, i cambiamenti

apportati da questo tipo di patologie "in modo tale che l'85%

di tutte le categorie funzionali cellulari colpite dalla malattia

abbia risposto positivamente al trattamento".

Kent Arrell, ricercatore cardiovascolare della Mayo Clinic

nonché primo autore dello studio, spiega infatti che il trattamento

con cellule staminali cardiopoietiche in topi colpiti da infarto

provocava un vero proprio sviluppo nonché una crescita di nuovi

vasi sanguigni e di nuovo tessuto cardiaco.

Oltre alla terapia in sé, questo studio potrebbe rivelarsi utile per

comprendere di più su come le cellule staminali possono avere un

ruolo rigenerativo e sui meccanismi più reconditi che mettono

in atto.

 
 
 

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