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Post n°7518 pubblicato il 17 Marzo 2013 da cile54
Dall’attenuante d’onore all’aggravante per femminicidio. E in mezzo? Femminicidio. C’è chi pensa che una donna che muore in una sparatoria ne sia vittima o che questo tipo di violenza avvenga solo da aggressore maschio XY contro femmina XX. Ma come diceva un saggio, “le parole sono importanti“, quindi spieghiamoci meglio. La parola “femminicidio” la usiamo per definire l’omicidio di una donna “in quanto donna”, o meglio in quanto personaportatrice di “donnità”, per così dire. Una persona che, a prescindere dai suoi cromosomi o genitali, è percepita secondo i canoni socio-culturali della donna, sotto il genere femminile, e per questo vive in determinate condizioni. Il riconoscimento giuridico di una legge contro il femminicidio è un tema nell’ agenda politica di questi giorni, dalla Bolivia di Evo Morales al PD che lo ha inserito tra i suoi 8 punti per fronteggiare il M5S e c’è la sensazione che ormai sia la continuazione ideale della denuncia sociale in merito. Lo è veramente? Il passaggio da denuncia sociale a fattispecie penale, solleva alcune questioni giuridiche legate al riconoscimento delle condotte da incriminare e alla scelta di differenziare il reato da forme di violenza simili già codificate e considerarlo un’aggravante di reati neutri. Quando l’obiettivo è diminuire il numero di femminicidi, l’aggravio di pena difficilmente sarà di per sé un deterrente, visto che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di “dolo d’impeto” il cui autore/autrice raramente tiene razionalmente conto dell’aumento di pena. Perché è sbagliato parlare di “raptus passionale”, si tratta di femminicidi. Però non bisogna scordare la natura per lo più non premeditata di queste violenze, senza confondere il motivo culturale per cui si compiono con la modalità in cui si realizzano. Leggo il ddl. Nel disegno di legge “Norme per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio”, non c’è solo la proposta dell’aggravio di pena. Ma nessuno parla delle altre proposte perchè fanno meno scena, evidentemente. Si propone l’adozione di un codice di autoregolamentazione per i media ( Capo II ), una self regulation redatta dagli stessi operatori, relativa alla rappresentazione delle donne, una specie di codice IAP però rivolto a tutti i mezzi della comunicazione mass mediatica. C’è anche l’istituzione nelle scuole del “referente per l’educazione alla relazione”, la tutela per le vittime sul piano previdenziale e lavorativo e la disciplina delle case e dei centri delle donne. E’ importante ricordare le responsabilità politiche del passato a chi oggi propone il giustizialismo e poi, con linguaggio e iniziative più vaghe aggiunge anche di voler interessarsi alla società. Anche per aiutare a non cadere in equivoco chi scrive nella prima parte del ddl PD, che “La violenza oggi non è solo residuale. È piuttosto una nuova risposta a cambiamenti introdotti dalle donne”. Affermazione paradossale, prima di tutto perchè come notava già Luisa Betti su IlManifesto, non è il massimo aprire un simile progetto di legge sostenendo che la responsabilità della violenza sia dell’emancipazione donne. Ma soprattutto perchè la violenza in aumento ( nel 2005 i femminicidi erano “solo” 85, nel 2012, già 120 ) è invece probabilmente la risposta alle politiche statali inadeguate alla salvaguardia dei diritti e delle libertà delle donne. Un esempio? L’Unione Europea ha infatti calcolato che ogni Stato dovrebbe prevedere un posto letto per le vittime di violenza di genere ogni 10.000 abitanti. Quindi, dovremmo contarne 6 mila. Ma ne abbiamo appena 500. Ammettiamo pure che, prima di essere condannato per aver violato diritti e libertà delle donne, lo Stato italiano e i suoi rappresentanti davvero vogliano fare qualcosa per la questione di genere. Anzi, per la questione “femminile”, come dicono loro. Tra parentesi, il mantenimento di un detenuto costa circa 90.000 euro l’anno. Invece che spenderli anche per un solo anno di aggravio della pena non sarebbe meglio investirli in una gestione davvero riabilitante del detenuto, nei centri antiviolenza, in progetti di recupero dei delitti “di genere”? Il punto è che le leggi contro questo tipo di reati esistono già, chi crede nel giustizialismo legislativo farebbe meglio a chiedere la certezza della pena invece che l’inasprimento. L’importante, più che perseguire giuridicamente il femminicidio, è riconoscerne le cause culturali e sociali e cercare di abbatterle, combattere la contrapposizione di genere e non acettarla come “naturale”. Garantire magari alle famiglie delle vittime la certezza della pena, ma a tutte quelle che sono ancora vive di avere un progetto pratico, de facto, non solo de iure. Laura 15/3/2012 http://comunicazionedigenere.wordpress.com
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Roma, 12 maggio 1977
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