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Quelle immagini non rendono neanche lontanamente l’idea di come lì dentro passano i giorni, le settimane, i mesi

Post n°8382 pubblicato il 19 Dicembre 2013 da cile54

A Lampedusa, come in un lager: l'ennesima indignazione che dura un solo giorno

Ci siamo in tanti e tante indignati dopo le immagini oscene viste a Lampedusa che tanto ricordano i peggiori luoghi concentrazionari della Storia. Indignazione giusta ma tardiva e miope. Abbiamo visto una punta di iceberg, un momento mediaticamente forte che permette di dimenticare la normalità. Una giusta reazione emotiva simile a quella avuta dopo il 3 ottobre. C’è voluta una strage infinita per aprire gli occhi su quello che è ormai diventato un canale di morte. E così come poco o nulla è cambiato dopo il 3 ottobre: investimenti militari per respingere ed esternalizzare le frontiere, militarizzazione del Canale di Sicilia grazie a cui altre persone sono morte, operazioni umanitarie da cui emergono contorni quantomeno ricattatori, “ti salvo ma dammi e impronte e resta fermo in Italia”, lo stesso è accaduto in un regime di accoglienza che ha totalmente mancato le sue ragioni. Le immagini di Lampedusa ci provocano repulsione ma passa in secondo piano la storia individuale di un ragazzo di 21 anni che venerdì scorso si è impiccato nel Centro Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara), nei pressi di Catania. Il primo suicidio riuscito dopo che in tanti altri avevano tentato la stessa orrenda via di fuga. A Mineo si manifesta con assiduità contro le condizioni di vita nel centro (4000 persone rinchiuse in uno spazio che ne può trattenere 2000), contro la lunghezza dei tempi necessari per ottenere uno status di protezione, il ragazzo morto era lì da maggio. A Messina il prefetto ha avuto la grande idea di utilizzare le strutture sportive universitarie, un campo da baseball e una palestra, per ospitare profughi, contro i voleri di docenti e amministrazione comunale. Si sarebbe potuto utilizzare un villaggio turistico, senz’altro più attrezzato, ma su quello è caduto il veto. La Sicilia intera è piena di bacini di disperazione, attorno al Cara di Caltanissetta e all’adiacente Cie, sono sorte piccole bidonville, fra il fastidio e l’indifferenza delle autorità e l’intervento di piccoli pezzi di società civile. A Pozzallo, a Siracusa, a Catania, a Porto Empedocle, le prefetture requisiscono strutture inadeguate, ne affidano la gestione (con conseguente esborso di soldi) a consorzi, cooperative, ditte, che poco o nulla sanno di immigrazione e chi ci finisce resta lì dentro o ha come alternativa la fuga, per andare via da un Paese matrigno come l’Italia. Ma accade anche in Calabria, dove gli sbarchi fanno poco notizia, nei grandi Cara della Puglia e del Lazio. No non sono tutti uguali e spesso, anche in base alla discrezionalità di chi sovraintende tali strutture, si assiste a tentativi di vera accoglienza. Ma sono eccezioni, nel mare magnum della sciatteria e del razzismo strutturale con cui si affronta un tema così complesso. Il governo aveva preso impegno ad aumentare di gran numero i progetti Sprar (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati), una accoglienza diffusa nei territori e quindi più compatibile tanto con i Comuni che se ne fanno carico quanto con le persone ospitate. Ma i progetti tardano a partire, sono poco redditizi, meno dei mega campi in cui ammassare le persone. Ma, tornando a Lampedusa, anche quelle immagini sono il punto di partenza e non di arrivo. C’è chi ancora è rinchiuso in quel cosiddetto Centro di Primo Soccorso e Accoglienza, le immagini non rendono neanche lontanamente l’idea di come lì dentro non si possano passare più che poche ore, invece passano i giorni, le settimane, i mesi. E arrivano le pompe dei disinfettanti. Dal parlamento si sono levate alcune voci dissonanti, il ministro dell’Interno, quell’Angelino Alfano che dopo i morti del 3 ottobre e dopo gli osceni funerali finti ebbe a dichiarare: «Prima gli italiani», dichiara ora che i responsabili delle “docce” saranno severamente puniti. Il Partito Democratico, ancora alle prese con una guerra interna, fa partire una mozione in cui si chiede a membri del governo, ad Alfano e alla ministra Kyenge, di riferire in aula. Ma è lo stesso partito che lunedì ha votato una mozione condivisa sulla detenzione amministrativa, sui Cie, che dice di tutto per non cambiare nulla e che su questo tema svicola paurosamente. Partendo dal presupposto che poco o nulla si condivide dell’operato di questo governo, anche in materia di immigrazione e partendo anche dal fatto che il ministero dell’integrazione non ha finora ottenuto risultati tali da imprimere la benché minima inversione di tendenza rispetto a tali questioni, viene però spontanea una riflessione. Perché chiedere conto di quanto accaduto a Lampedusa ad un ministro come Cécile Kyenge che, al di là degli aspetti simbolici, non ha potere alcuno per intervenire a modificare simili nefandezze? Si vuole dare un senso diverso alle politiche italiane in materia, si abbia allora il coraggio di sottrarre al ministero dell’interno l’immenso potere di cui è dotato e si permetta al ministero dell’integrazione di intervenire. Sarebbe un segnale politico positivo e a quel punto sarebbe concretamente giusto poter valutare l’operato della ministra Kyenge, non in maniera mediatica ma su elementi e procedure definite. Ma chiedere questo ad un governo che deve soddisfare le pulsioni di destra presenti in ognuna delle sue componenti è impossibile e allora prevalgono le misere contraddizioni parlamentari. Accade questo oggi, mentre in tutto il mondo uomini e donne migranti si mobilitano per la giornata mondiale dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici migranti e delle loro famiglie. Accade che mentre nelle piazze i nuovi soggetti della politica cominciano ad alzare la testa, nei palazzi si recita l’ennesima farsa.

Stefano Galieni

18/12/2013 www.liberazione.it

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