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Vi scrivo da...Rubaya

Riportiamo la testimonianza di Federico, infermiere, appena rientrato dal Kivu, Repubblica Democratica del Congo

Sono passati quasi due mesi dal mio arrivo in Congo. Di certo, il lavoro non manca e sono tornato a fare le consultazioni con le cliniche mobili, come a Gonaives, quando sono stato per l’uragano che ha colpito Haiti lo scorso autunno.

La situazione della zona è tranquilla anche se a volte ci sono dei combattimenti sporadici. Alcuni giorni fa, ho raccolto un ragazzino ferito. Già, un ragazzino, è pieno di bambini e ho lasciato parte del mio cuore tra di loro, specialmente tra i miei piccoli pazienti. È la mia prima missione come infermiere di MSF da quando mi sono licenziato dall’Ospedale italiano dove lavoravo con un contratto a tempo indeterminato. Ho una moglie e una figlia è vero, ma l’amore per il mio lavoro con MSF è troppo forte e mi ha portato a seguire questo sogno...

Una mattina sono partito alle 5, accompagnato dal tepore di un’alba che rendeva il lago Kivu più bello di un quadro, ho caricato i pazienti da riportare a casa, tutti già visitati e stabilizzati, ognuno con la propria terapia da seguire. Una volta arrivato a Rubaya, un villaggio in collina dove andiamo con le cliniche mobili due volte alla settimana, i miei piedi non hanno avuto il tempo di toccare terra che sono stato chiamato dal farmacista del Centro di salute per visitare una ragazza.

In realtà, non si tratta di una ragazza, ma di una bambina di 13 anni che respira a fatica. Nei suoi occhi leggo che la sua vita è appesa a un filo e i suoi parametri vitali me lo confermano. Non c'è tempo e, caricata in jeep, parto alla volta dell’ospedale di Kirotshe, ospedale dove riferisco i pazienti più gravi. Il viaggio non è privo di momenti di tensione, temo un arresto respiratorio, ma anche se la piccola respira malissimo continua a sorridermi come se già sapesse cosa l’aspetta.

Non so se voglia dirmi che ormai è tardi o ringraziarmi perché c’è ancora una speranza. La strada è dissestata e in salita e rischiamo di rovesciarci ma l’autista riesce ad evitare il peggio e ci facciamo una grossa risata...lei però no, non ne ha la forza e io le accarezzo il viso dicendole "Pole, pole...Stai tranquilla".

Il viaggio sembra interminabile ma laggiù qualcuno mi attende, è un grande amico oltre che un caro collega: Hippolyte, il chirurgo con cui da subito mi sono trovato benissimo e con il quale abbiamo instaurato un bel rapporto di amicizia... gli dico che non c'è tempo da perdere e gli presento il caso, anche gli infermieri mi seguono rapidamente, è davvero incredibile, tutti corrono per darsi immediatamente da fare.

Ma per noi si è fatto tardi, dobbiamo rientrare e abbiamo ancora un'ora di viaggio, non possiamo proprio rimanere.

L'ho salutata e l’ho pensata tutta la notte. Purtroppo, al mattino mi arriva la notizia che non speravo: la bambina non ce l’ha fatta.

Ho pianto, non mi vergogno a dirlo. Un uccellino si è posato sulla nostra jeep e non è scappato quando mi sono avvicinato. Mi piace pensare che quel cinguettio fosse il suo saluto. Quell'uccellino forse era lei che prima di partire aveva deciso di salutarmi. Non l’abbiamo potuta intubare perché qui non ci sono le strutture adatte, ma avrei potuto fare di più? Mentre mi arrovellavo il cervello per trovare una risposta, scorgo uno sguardo di rabbia, gratitudine e paura. È la mamma della bambina che mi dice Asante!!! Ma forse quel grazie non me lo merito e chiudo gli occhi verso Rubaya...

Federico, infermiere

27/01/2009

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