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Post n°3616 pubblicato il 22 Luglio 2010 da cile54
La sua spada ancora affilata - come annuncia Bossi - infilerà gli avversari interni al partito sgominando i barbari dell’opposizione. Novello Alberto da Giussano o redivivo Renato Rascel? Il dubbio perseguita i fedelissimi Bondi e Capezzone... Sguardo amaro di un intellettuale italiano che osserva Roma dalla Germania Ecco l’appello agli italiani che il Cavaliere sta scrivendo nella vacanza di lavoro Lo ammetto: l’annuncio del nostro Presidente del Consiglio di voler saltare le vacanze per occuparsi del suo partito mi ha riempito di tristezza. Ma come? Uno come lui, che già lavora 25 ore al giorno e 13 mesi su 12, che non risparmia energie, battute e barzellette per il nostro bene, deve anche rinunciare al meritato riposo per occuparsi di Fini, Bocchino e Granata? Deve essere costretto a crogiolarsi nell’afa romana per colpa di quattro pensionati sfigati e di un branco di magistrati assatanati? Così, spinto da una solidarietà tardiva, quanto sincera ho riflettuto sul contributo che avrei potuto fornirgli. Bisognava fare qualcosa, cercare d’alleviare almeno le sue pene più gravi. Un’idea adatta al calibro dell’uomo, però, proprio non mi veniva. Solo quando l’oracolo di Cassano Magnano ha parlato, tutto mi è diventato chiaro. Bossi, con la sua consueta saggezza, ci ha illuminati spiegando che «Berlusconi se la caverà e si alzerà una mattina e scoprirà di avere la spada ancora affilata e la utilizzerà per fare la guerra.» Ho avuto un’apparizione. Ovviamente inaspettata. Davanti a me ho visto un Berlusconi vestito da corazziere calare la celata, alzare la spada al cielo ed entrare alla Camera a rimettere ordine. Come un redivivo Alberto di Giussano, dirà qualcuno. A me, in verità, ricordava Renato Rascel in una delle sue macchiette più divertenti. Gli servirà un discorso, mi son detto. Ecco il regalo perfetto per il Gran Lavoratore! Per farla breve: ho scritto per lui questo virile discorso e ve lo anticipo volentieri. «Signori! Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare. Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure attraverso il varco del tempo trascorso, a quello che altri pronunciarono in questa stessa Aula tempo addietro. Un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. L’articolo 96 della Costituzione della Repubblica Italiana dice: “Il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale“. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 97. Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell’avvenire. Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che avrei fondato un partito al solo compito di tutelarmi; che avrei portato in Parlamento amici, avvocati e compagni di merende; che li avrei nominati Ministri per salvarli dai processi e, infine, che avrei sollecitato interventi e pressioni verso alti magistrati per avvantaggiarmi. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta virilità, molta spregiudicatezza e un sovrano disprezzo delle regole. Se io avessi davvero fondato un partito con questi obiettivi, l’avrei fondato seguendo quei criteri che ho sempre posto a presidio del mio potere. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi anni di dura battaglia, che le donne e gli uomini del PdL mi devono obbedienza cieca, bondiana e capezzona. Ora, avrei mai potuto formare un partito insieme a gente come Fini, Bocchino e Granata che blaterano di moralità, rispetto delle regole e democrazia interna? Ma potete proprio pensare che mi sia seduto attorno a un tavolo con gente di tale risma? Che abbia affidato loro cariche e prebende? Che li abbia fatti partecipi delle mie decisioni? Risparmiatemi di pensarmi così cretino. Si dice che avrei ordito attacchi all’indipendenza della Magistratura. Che cosa dovevo fare? Dei cervellini di Grillo pretendevano le mie dimissioni, che io non sentivo di dare perché ripugnavano al profondo della mia coscienza. Non mi sono mancate occasioni di dare prova della mia energia. Non sono ancora stato inferiore agli eventi. Ho liquidato in dodici ore una schiera di escort, ho spazzato via in pochi giorni l’immondizia da Napoli e in quarantott’ore l’ho fatta portare a Palermo da una divisione di fanteria e mezza flotta. Questi gesti di energia, che stupivano persino uno dei più abbronzati condottieri di una nazione amica, stanno a dimostrare che non è l’energia che fa difetto al mio spirito! Fu nel mese di dicembre del 2009, in quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: “L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio”. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con le richieste di dimissioni rivolte ai miei più fedeli servitori, da Scaiola a Brancher. Poi con una campagna giornalistica durata mesi, infine con i soliti attacchi di magistrati che rivendicano indipendenza. E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a questa bufera, e continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l’illegalismo e impedisco che con le intercettazioni si sappia ciò che non si deve sapere. Non è menzogna! Finalmente viene dinanzi a noi una questione che ci appassionava: la domanda delle dimissioni dell’onorevole Cosentino. La Camera scatta; io comprendo il senso di questa rivolta e dico a Cosentino: “Dimettiti prima che ci caccino entrambi”. Lui come Garibaldi obbedisce e io per premio compio un ultimo gesto normalizzatore e lo mantengo a coordinare il PdL in Campania. A tutto questo, come si risponde? Si risponde con un’accentuazione della campagna. Si dice: la P3 è un’orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia. Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi ascoltate dai Carabinieri più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il PdL non è stato che fanfare e fanciulle, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! In questi ultimi giorni non solo i miei elettori, ma molti cittadini si domandavano: c’è un Governo? Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E ne hanno una anche come Governo? Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato punto estremo, e, ricco della mia esperienza di vita, in questi sei mesi ho saggiato il Partito; e, come per sentire la tempra di certi metalli bisogna battere con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini, ho visto che cosa valgono Cicchitto e Gasparri e per quali motivi a un certo momento, quando il vento è infido, altri scantonano per la tangente. Ho saggiato me stesso, e guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non fossero andati in gioco i miei interessi. Signori! Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il berlusconismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora… L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile. Ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente!» PS: qualsiasi riferimento al discorso tenuto da Benito Mussolini alla Camera il 3 gennaio 1925 non è per nulla casuale. di Antonio Umberto Riccò 19-07-2010 Antonio Umberto Riccò, ex dirigente scolastico, si è occupato per molti anni della scolarizzazione dei figli di emigrati italiani in Germania Hannover. Cura con altri amici il sito www.aussorgeumitalien.de. Ha pubblicato presso l'editrice alpha beta di Merano i romanzi "Biscotti al cardamomo" (sui profughi afgani in Italia, 2009) e "C'era in Germania un Girasole" (sulla dittatura nella Germania Orientale, sett. 2010). Web: www.antonioricco.i e www.antonioricco.eut
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Roma, 12 maggio 1977
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