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« Non dimentichiamo! Oggi ...Il quotidiano sacrificio... »

Generazioni abbandonate, senza futuro e cittadinanza. E non hanno neanche la libertà di fischiare il palazzo

Post n°3793 pubblicato il 11 Settembre 2010 da cile54

Storia di Nadia e Diego che non possono regalarsi un figlio

Trentatré metri quadri. Trentatré anni. Mai successo però a Nadia e Diego, coetanei e conviventi in quel monolocale, che riuscissero a lavorare per trentatré mesi di fila nello stesso identico posto e con un contratto tipico. Mai accaduto. Diego si aggirava in quei metri quadri come se stesse cercando la stanza in più che non c'è mai stata, l'indice e il pollice della mano destra trattenevano le sue labbra in una smorfia di riflessione, Nadia!, asseriva serio e concentrato, mi sembra arrivato il momento di regalarci un figlio. Aspettare ancora, concludeva fermandosi e abbandonandosi negli occhi di lei, significherebbe rischiare di concepire un bambino che a vent'anni avrà per genitori due persone con l'età da attribuire ai nonni. Nadia lo ascoltava con l'attenzione di una donna innamorata, la sapienza di una intelligente e lo sconforto di chi, ahimè, non può tuttavia evitare di sottrarsi alla realtà.

Negli ultimi tre anni infatti l'esistenza precaria di Nadia non le aveva mai permesso di partorire programmi a lungo termine. Quando terminava il dottorato in archeologia che le aveva assicurato il mantenimento e la possibilità di sopperire a tutte le spese previste e impreviste della convivenza con Diego, Nadia dall'università, si era ritrovata direttamente in strada a consegnare il curriculum vitae presso le agenzie interinali e sempre più spesso con carta stampata alla mano per sottolineare con evidenziatore giallo alla voce Lavoro generico le diverse opportunità di occupazione in cui inevitabilmente avrebbe dovuto cimentarsi o almeno tentato. Così la sua attività lavorativa diveniva una variazione di prestazioni, sì rimunerate, ma in modo decisamente parco e per incarichi assai differenti gli uni dagli altri e peraltro quasi sempre ben lontani dai suoi studi.

Il lavoro nel call center risultava il primo in cui approdava. Un'esperienza priva di umanità e molto distante dal modo di lavorare di Nadia. «Buongiorno Signora, sono Nadia di…». Neanche il tempo di nominare l'azienda per cui esercitava che l'utente dall'altra parte della cornetta il più delle volte e a malo modo attaccava furibondo. Il periodo del call center la retribuzione di Nadia era il risultato di cinque ore di lavoro al giorno ma dipendeva esclusivamente dal numero di interviste che riusciva a conseguire e ognuna di esse prevedeva un tariffario differente a seconda dell'azienda per cui si attuavano. Variavano dal compenso di un euro fino a sette per intervista. Nessun fisso e mai la certezza che il cliente acconsentisse a concludere il colloquio in corso. Nel giro di un paio di mesi Nadia si rendeva conto che a quell'attività avrebbe dovuto per logica e necessità abbinarne un'altra. Ma una che si sposasse con gli orari di ufficio del call center. Impresa non facile anche questa. Di tanto in tanto così nel fine settimana riusciva ad aumentare la mensilità abbinando al primo impiego quello di guida turistica con le visite didattiche durante la navigazione in Battello sul Tevere, da Ponte Marconi a Ostia Antica. E in mezzo alla settimana, invece, per due sere fisse si rintanava nel pub del suo migliore amico: preparare cocktail e servire ai tavoli, da passatempo che era quando Nadia era una studentessa, diveniva un lavoro che le serviva solo per arrotondare. Anzi per permettersi il mantenimento. Un momento di sollievo per Nadia sembrava affacciarsi con una chiamata da parte di un'azienda che la ingaggiava a tempo pieno per occuparsi dell'attività nel settore commerciale. Le spiegavano, Signorina, le proponiamo un contratto occasionale per il primo mese, chiaramente di prova. Le chiediamo disponibilità a tempo pieno, dalle 9,00 alle 19,00 per un corrispettivo netto di settecento euro. Se non ci saranno intralci - aggiungeva il futuro e probabile datore di lavoro - e la sua occupazione risulterà indispensabile per l'azienda penseremo a un contratto a progetto a sei mesi. Con un aumento chiaramente, concludeva. Nadia davanti a quest'opportunità sceglieva di mollare tutto e lanciarsi in quest'azienda che aveva peraltro la sua credibilità. Settecento euro a tempo pieno con l'affitto da pagare a metà con Diego non erano di certo una sicurezza, tuttavia per la prospettiva presentatale al colloquio Nadia aveva ritenuto opportuno proseguire questa strada. E tenersi le guide nel week-end quando si presentava l'occasione.

La verità che si sarebbe presentata poi a Nadia non avrebbe avuto nulla a che vedere con le prospettive di cui avevano argomentato lei e il datore di lavoro.

Storie come queste non scandalizzano più purtroppo, i nostri sensi si sono fin troppo abituati a tanta mediocrità e miseria, tuttavia per non tralasciare la storia di Nadia occorre ricordare che l'azienda, per propria convenienza, le ha continuato a rinnovare il contratto per tre mesi, ma ognuno di questi con la formula del contratto occasionale e senza alcun aumento. Al quarto mese poi Nadia come altre tre persone assunte veniva mandata via e sostituita con tre stagisti appena usciti dall'università, non pagati e a tempo pieno.

E mentre Nadia continuava a inviare curriculum vitae europei, aggiornati, con la correzione di bozze, senza falsificare nulla, compilati con estrema chiarezza e attenzione, scopriva che la strada più semplice e diretta per non restare disoccupata era rientrare nel vecchio call center, come fosse l'unica realtà a cui potersi rivolgere per un lavoro da prendere "al volo". Poi sostituiva l'attività di barman con quella di baby sitter: tre volte a settimana il pomeriggio si occupava del figlio dei vicini. Lo andava a prendere a scuola, lo faceva giocare un paio d'ore nel parco della Caffarella e alle otto lo faceva cenare. E nei fine settimana quando a Nadia era consentito proseguiva ancora con le guide. Quando rientrava a casa Diego non c'era mai. Poiché Diego di sera per arrotondare faceva il fonico in un teatro. Il teatro, peraltro, era la sua vera passione.

Nessuna certezza. Nessuna stabilità. Giornate intere a scappare da un lavoro all'altro senza logica, senza entusiasmo, senza aver dato un senso ai suoi studi e con una sensazione di angoscia al seguito perenne e fastidiosa. La vita da precari costringe a imparare a vivere quasi alla giornata, senza donarsi l'opportunità di poter attuare programmi a lungo termine, senza fare del verbo "costruire" un principio saldo di vita. Forse, pensava Nadia, occorreva abituarsi all'insicurezza, per evitare di ricadere in giornate fitte di angoscia, frustrazioni… Per lei era inevitabile che la vita di lavoro precaria incidesse in quella privata e con determinazione assoluta… Nadia aveva ascoltato Diego in questa richiesta di paternità. Nella testa di lei una vocina canticchiava la saggezza di Samuele Bersani, Io sono un portatore sano di sicuro precariato e anche nel privato resto in prova… Questa era, ahimè, la condizione attuale e lo stato d'animo di Nadia. Temere di sentirsi in prova persino nella vita privata per la difficoltà del quotidiano e l'incertezza sul futuro.

E guardava con invidia il suo Diego. Lui che l'affanno e l'inquietudine del precariato lo avvertiva con minore tensione. Lui che lavorava come informatico da diversi anni e non aveva difficoltà a uscire da un progetto di lavoro per entrare in un altro. Lui che in quella richiesta di paternità a trentatré anni sembrava voler rassicurare Nadia e farla ragionare su quanta vita "il precariato" toglie alle persone.

Ché se fai un figlio a trentacinque, trentasei anni quando le condizioni economiche, forse, lo permetteranno, il bambino a vent'anni avrà due genitori con l'età che generalmente appartiene ai nonni. E quanta vita e quante esperienze con loro, allora gli verranno negate! Il precariato oggi uccide anche istinti e bisogni primari.

Nadia avrebbe voluto avere anche solo un briciolo di positività di Diego e sposare la sua richiesta di paternità che in fondo abbracciava la sua di maternità. Tuttavia ancora una volta lasciava parlare la ragione, Diego!, esclamava mortificata, ma non riusciamo neanche più a fare l'amore! In due facciamo cinque lavori differenti e la sera è così raro incontrarci nel letto.

Diego riprendeva allora la sua camminata con l'indice e il pollice della mano destra che trattenevano le sue labbra in una smorfia di riflessione. Nadia restava con gli occhi abbandonati su di lui. Un silenzio e una tristezza profonda d'improvviso si presentavano ingombranti ad appesantire l'atmosfera che in quei trentatré metri quadri separava la coppia.

Isabella Rose Borghese

Lotte – inserto del quotidiano Liberazione

09/09/2010

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