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Le macerie dell’Aquila sono anche macerie metaforiche che rinviano alle macerie di questa democrazia violentata

Post n°4048 pubblicato il 22 Novembre 2010 da cile54

Democrazie pericolanti

Oggi L’Aquila è un luogo paradigmatico, che deve dare senso anche ai concetti di «inganno» e «cambiamento», spiegando una consapevolezza e una volontà rispetto a una normalità che è assuefazione quotidiana; e che bisognerebbe rivedere fino alle fondamenta, perché fondamentalmente pericolante. Oggi L’Aquila parla il linguaggio del rischio di una catastrofe globale.

 

Un terremoto ha reso L’Aquila una città pericolante. Ma non solo: oggi L’Aquila è anche un termine del linguaggio con cui la nazione si rappresenta, un termine a cui sono stati dati diversi significati. Forse per vari mesi i più praticati sono stati quelli di «emergenza», «miracolo», e, all’opposto, quello di «ingratitudine». Rispettivamente del terremoto, del Governo, degli aquilani.

Invece venire a L’Aquila è aprire gli occhi su una città pericolante in mezzo alla rapsodia di cartongesso e cemento del progetto C.A.S.E.. E in questo scenario si legge una parola che forse dice tanto dei nostri giorni: «inganno». Inganno evidente perché dietro quello che è stato venduto all’opinione pubblica come «miracolo aquilano» non c’è stata nessuna «ricostruzione esemplare»; inganno suggerito dal dubbio legittimo e imponente che l’aiuto sia servito anche come pretesto per praticare larghe strategie di profitto. Inganno nascosto dal bombardamento propagandistico dei media di regime. Inganno, poiché i «miracoli» solitamente sono finzioni, che cadono quando si smette di crederci.

Non si può accettare lo stigma dell’ingratitudine come minaccia per delegittimare il dissenso. Quello dell’Aquila è un grazie sincero, incondizionato ed eterno a quell’Italia che in questa tragedia si è scoperta solidale, in uno spirito che rappresenta quanto di meglio può esprimere la Nazione. Ma c’è una parte della città, che solo per comodità si può tacciare di politicizzazione, di persone che non hanno mai creduto a certi vertici della macchina dell’emergenza, e hanno posto una ferma condanna contro chi è venuto a speculare sulla catastrofe, urlando contro il vento della censura e della propaganda.

C’è un dubbio enorme: che il progetto C.A.S.E. sia una truffa, in quanto ha veicolato un’operazione di speculazione edilizia, attraverso scelte costruttive artificiosamente presentate in termini di non plus ultra o addirittura di condicio sine qua non, e attuate a costi che paiono esorbitanti. Il progetto C.A.S.E. parla lo stesso linguaggio di opere emergenziali come l’inceneritore di Acerra: imposizioni in situazioni di necessità escludendo alternative non solo praticabili, ma probabilmente assai più adeguate per la popolazione. Certe scelte, invece, non vengono praticate per ottenere il miglior risultato sociale possibile, ma per massimizzare i guadagni, in termini di propaganda politica e di profitto economico. Similmente il progetto C.A.S.E. dell’Aquila parla lo stesso linguaggio della crisi del lavoro: le aziende prima delle persone, l’economia prima della società.

 

È in questo modo che le opere emergenziali rimandano agli stessi codici di profitto che più sottilmente s’insinuano nella quotidianità dei tempi e dei luoghi normali. Le macerie dell’Aquila sono macerie metaforiche che rinviano ad altre macerie della democrazia, indicando l’inganno speculativo che fu imposto al mondo intero con il pretesto di un altro crollo: quello del muro di Berlino. Accettiamo che i regimi comunisti avranno sbagliato su molti punti, ma l’inganno epocale fu far credere che il crollo del comunismo sovietico bastasse a legittimare come totale positività il modus operandi del capitalismo occidentale. Si tratta di un dispositivo manicheo di accusa scagionante, di un’algebra primordiale in cui, dalla demonizzazione di un sistema, si deriva la santificazione del suo opposto. In tal modo, dati gli errori di una dittatura che sottometteva l’essere umano alla politica, ci si è chiusi in una dittatura che sottomette l’essere umano all’economia. Così l’Occidente si è arreso ad un’economia che, santificando il concetto di «libero mercato», sacrifica la società a una politica del profitto. Proprio in tal senso oggi L’Aquila ci può svelare un principio generale rimasto nascosto sotto le macerie del muro di Berlino: il capitalismo del libero mercato non solo è sottrattivo, ma è anche distruttivo. Un esempio: una signora mi diceva: «Non ci possiamo lamentare se hanno mangiato sopra queste case, così va il mondo, li devi far mangiare e ti danno qualcosa». È questo il punto dell’inganno, la prova dell’assuefazione a un sistema di mutuo scambio in cui si pone una relazione tra il polo della protezione sociale ridotta a elemosina e la contropartita del parassitismo aziendale elevato a dominio. Quando l’obiettivo si riduce alla sola massimizzazione degli utili, il prodotto subisce una degenerazione rispetto alla funzione: l’utensile degenera in paccottiglia. Il vampirismo che il libero mercato pratica sulla società non si basa solo sul prendere rispetto al dare: oltre alla questione dimenticata del plusvalore, c’è il problema dell’immissione di prodotti distruttivi; da condomini che deturpano il paesaggio a centrali nucleari che minacciano il futuro, tutto propagandato come necessità, censurando le alternative possibili. Questo processo si realizza incessantemente e a tutti i livelli: dalla forma di una città alle minutaglie consumistiche che, nell’indifferenza generale, sempre di più sommergono il quotidiano. Si badi bene, questo non riguarda una mera considerazione teorica: siamo di fronte a un meccanismo di produzione di senso comune che da oltre due decenni agisce ogni giorno. Pensiamo a quante volte nel linguaggio politico lo spettro del «comunismo» è ancora evocato per convalidare la dittatura del capitalismo. È questo manicheismo da contrappasso, in cui il supporre che gli errori di una parte possano significare la bontà del suo opposto, che ha portato all’affermazione in tutto il mondo di una tipologia di regnanti di cui Berlusconi è solo l’esponente più caricaturale. Siamo nelle mani d’interpreti di una visione culturale della società che non è votata all’estensione del benessere, ma all’intensificazione di guadagni e privilegi. Potrà sembrare eccessivo, ma più volte sorge il sospetto di essere dentro un nuovo medioevo globale intessuto di reti di affiliazione intorno a potentati economici, in un arroccamento che rischia di rivelarsi preludio dell’estinzione di fronte all’ossimoro di un mondo che, mentre chiede benessere, brucia sempre più energia ed esplode di persone. Bisogna chiedersi quanto può durare una risposta fondata su un’idea protettiva del potere che parla di una [ri]feudalizzazione dell’umano, sotto un signoraggio che si legittima promettendo di difendere da catastrofi e da invasioni, che ancora intrattiene nei confronti della natura e delle moltitudini subalterne relazioni di predazione e di riduzione alla schiavitù. Quello che deve destare preoccupazione è l’assuefazione del senso comune al principio della massimizzazione degli utili economici contro quelli sociali. A L’Aquila fummo vittime di una sorta di «assuefazione da bombardamento» rispetto a un perdurante sciame sismico, e cademmo nella trappola di una serie di rassicurazioni disastrose date da una commissione nazionale grandi rischi. Similmente la nostra società si è assuefatta alla cornice di potere della dittatura della massimizzazione dei profitti, nascosta dietro il rassicurante termine «libero mercato». L’Aquila parla il linguaggio della catastrofe, del presagio di un mondo pericolante, perché nei luoghi dell’emergenza il lato oscuro dell’ordine costituito si rivela come eccesso osceno in cui si possono decifrare i segnali di una crisi che è sistemica. L’Aquila ci dice che solo una rifondazione del sociale incentrata su un patto culturale può salvare una speranza di futuro dall’invasione del profitto; L’Aquila ci parla della necessità di una progettazione delle esistenze in cui politica ed economia siano orientate su percorsi sostenibili, capaci di riportare all’essere umano. E in tal senso va chiarito che non si tratta tanto di stare a questionare sulla proponibilità etica dello «stato d’eccezione», rischiando l’inviluppo nel prét-a-penser filosofico. Il punto è fare un passo avanti per comprendere e contestare l’uso politico che dello «stato d’eccezione» viene attuato dal nostro ordinamento economico: la situazione emergenziale, naturalizzando un contesto di dominio in cui lo stato di necessità tende a opprimere la possibilità di scelta, si pone come pre-testo per imporre egemonie pure, entro relazioni di potere di tipo post-coloniale, in cui l’aiuto diventa uno strumento di profitto e – riflessivamente – l’intenzione di profitto deteriora la forma dell’aiuto. Ciò non fa altro che mostrare in modo esasperato quello che è un meccanismo costitutivo del capitalismo che in tempi normali erode silenziosamente la società: il vampirismo del profitto sulla funzione del prodotto. Oggi L’Aquila è un luogo paradigmatico, che deve dare senso anche ai concetti di «inganno» e «cambiamento», spiegando una consapevolezza e una volontà rispetto a una normalità che è assuefazione quotidiana; e che bisognerebbe rivedere fino alle fondamenta, perché fondamentalmente pericolante. Oggi L’Aquila parla il linguaggio del rischio di una catastrofe globale.

Antonello Ciccozzi

Ricercatore di antropologia culturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila

[8 Novembre 2010]

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