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Quello delle badanti straniere non è un fenomeno nuovo, la mancanza di memoria degli italiani aiuta il razzismo

Post n°4342 pubblicato il 12 Febbraio 2011 da cile54

CHE SENSO HA PARLARE DI BADANTI?

Quando si parla di donne straniere in Italia, quella della “badante” sembra essere una delle poche immagini disponibili (assieme al suo contraltare: la prostituta). Non passa giorno che non venga dedicato almeno un titoletto a vicende che la riguardino. Il famigerato clickday 2011 consentirà quest'anno l'ingresso in Italia a 30mila “colf & badanti”, un numero considerevole, benché inferiore alle reali necessità. E sicuramente grande attenzione hanno ricevuto le ultime regolarizzazioni del settore: nel 2002, con 340mila permessi, e nel 2009, con 295mila domande presentate(1).

A fronte di tanta attenzione mediatica è importante, per chi è sensibile alle questioni di genere e al tema della migrazione, discutere di cosa veramente significhi “parlare di badanti” e interrogarsi sul perché le loro storie debbano continuare ad interessarci.

La risposta, si dirà, sta nella “novità” che rappresenta per la realtà italiana l'impiego di donne, in particolare straniere, nel lavoro domestico e di cura. Questa ipotesi, tuttavia, non fa altro che distogliere l'attenzione dal vero problema. Al contrario di quel che comunemente si pensa, ci troviamo di fronte ad un fenomeno in forte linea di continuità con il passato. La percentuale di lavoratrici del settore non è particolarmente cresciuta nell'arco dell'ultimo secolo: il personale domestico ufficialmente registrato si attestava a 500mila unità nel 1880 e ben 560mila nel 1936, in confronto alle 470mila di oggi. Il loro numero scese nel dopoguerra, ma bisognò aspettare il 2001 perché le cifre si attestassero di nuovo al livello degli anni '30 (in R. Catanzaro & A. Colombo, Badanti & Co., Il Mulino 2009).

Non ci troviamo neanche di fronte ad un elemento del tutto nuovo per il fatto che le domestiche siano donne straniere. Difatti, storicamente, assieme a donne di origine rurale o provenienti dalle regioni più povere, fra i ranghi di queste lavoratrici si trovava un cospicuo numero di tedesche, austriache, spagnole o jugoslave (ibidem.). Piuttosto, è il fatto che esse non si siano stabilite definitivamente in Italia ad aver fatto perdere memoria della loro presenza. A queste sono seguite, negli anni '60 e '70, eritree, filippine e capoverdiane che rappresentano le vere pioniere dell'immigrazione femminile extra-europea in Italia.

Quindi, se non è vero che non c'è stato, nel lungo periodo, un boom in termini assoluti nell'impiego di personale domestico e che la figura della domestica come “la straniera” non è neanche un forte elemento di novità, che cos'è che c'interessa e ci spinge, ancora una volta, a “parlare di badanti”?

Tale interesse va spiegato, a mio avviso, in riferimento al ruolo che ha nel nostro immaginario la figura sterotipizzata della “donna-immigrata-badante”, diventata ormai un'icona che, al di là del suo valore descrittivo, ha la capacità di andare a toccare la realtà socio-culturale dell'Italia contemporanea nei suoi punti dolenti.

Questi possono essere brevemente elencati, innanzitutto, col riferimento alle carenze del welfare italiano e all'incapacità del nostro sistema politico di prendere seriamente in considerazione le necessità di una società che invecchia, si ammala e si riproduce. A fronte di tali carenze, l'unica soluzione finora trovata è l'inclusione strumentale di soggetti esterni che, per avere il permesso di vivere e lavorare in Italia, accettano una condizione di “cittadinanza parziale” (Parreñas 2000) in cui molti sono i doveri e pochi i diritti(2). Un'importante conseguenza di ciò sta nel fatto che, per la presenza di queste persone nelle proprie case, le famiglie italiane sono obbligate a confrontarsi quotidianamente con una condizione di assenza di diritto, mancanza di protezione e, spesso, illegalità. Ci troviamo di fronte ad un elemento di forte novità, a mio parere, le cui ripercussioni sul nostro modo d'intessere relazioni pseudo-familiari, lavorative e di vicinato sarebbe interessante oggetto d'analisi.

Il secondo elemento da sottolineare è come il “parlare di badanti” chiami in gioco la questione del confronto, altrettanto ravvicinato e costante, con comportamenti di genere fra loro diversi. Volenti o nolenti, le lavoratrici domestiche migranti spesso incarnano modelli di femminilità che mettono in discussione le concezioni predominanti in Italia riguardo all'emancipazione delle donne, al loro successo personale e, soprattutto, alla maternità. Il confronto diventa dirompente di fronte alle cosiddette “madri transnazionali” in quanto donne che perseguono un modello di genitorialità “a distanza” basato su valori e pratiche di accudimento di carattere diverso, se non opposto, a quelli sui si fonda la società italiana in questo momento storico.  La spesso lamentata “inconcepibilità” delle scelte operate da queste madri, ben rappresenta il conflitto fra di essi.

Da ultimo, l'esperienza di queste donne apre una finestra su di una situazione incredibilmente stimolante dal punto di vista del genere: un rapporto ravvicinato, quotidiano - “intimo” si direbbe - fra donne diverse per classe, “razza”, religione, lingua e, soprattutto, fra donne che sono in una chiara gerarchia di potere. In tal senso, l'icona-badante rimanda alle possibili modalità di articolazione di tale relazione: maternalismo piuttosto che dipendenza, competizione e conflitto, autoritarismo, ecc. In quest'ottica, “parlare di badanti” significa spesso per molte donne italiane, proprio quelle che hanno scelto di lavorare “fuori casa”, parlare di come gestire il proprio potere su colei che, nelle loro case, è alla prese con quel lavoro fisico ed emotivo, di cura e pulizia, di cui pensavano di essersi liberate(3). Come dire: il problema uscito dalla porta, rientra dalla finestra.

 

di Sabrina Marchetti

(1) Di queste, 246mila sono state finora accettate (dati provvisori Ministero degli Interni, dicembre 2010).

(2) A tal proposito si veda il recente volume curato da Raffaella Sarti “Lavoro domestico e di cura: quali diritti?” Ediesse 2010.

(3) Per una discussione approfondita di questo punto si veda Sabrina Marchetti, “Le donne delle donne”, DWF, 1-2 (2004): 68-98 online su www.sguardisulledifferenze.org/wp…/

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Commenti al Post:
L130DE6A
L130DE6A il 14/02/11 alle 14:14 via WEB
Mi meraviglio, ogni volta che sento parlare di badanti, dell' ipocrisia degli Italiani a tutti i livellima in testa a tutti i giornalisti, non mi riferisco aal' autrice di questo articolo la quale affronta il problema in modo serio, da un punto di vista umanitario, sociale, politico e culturale. Il problema cui voglio accennare riguarda le badanti solo di rilesso ma una volta evocato diventa prioritario. Cerco di spiegarmi meglio: Ogni tanto i media ci portano notizie sensazionali secondo cui la Guardia di Finanza oppure i Carabinieri o più raramente la Polizia Locale scoprono laboratori di cinesi dove gli addetti (quasi sempre donne), lavorano, mangiano, dormono,accudiscono i loro figli (piccoli o piccolissimi) senza muoversi dal luogo di lavoro dove queste PERSONE lavorano 18 ore al giorno per un compenso inferiore a 1000 E/mese, una situazione senz' altro deprecabile ed insopportabile per una società civile quale quella italiana, è stato ipotizzato per loro il reato di riduzione in schiavitù. VERO!. Torniamo ora alle badanti: queste PERSONE lavorano 22 ore al giorno per un totale di 124 ore settimanali, in questo modo non possono avere una casa in quantose la persona che accudiscono viene a mancare o è ricoverata in una struttura esse possono essere spostate all' altro capo della città o anche in un' altra città per cui non hanno dove rifugiarsi nelle 30 ore di libertà del fine settimana e nelle 2 ore giornaliere ed allora le vediamo mangiare da un cartoccio nei parchi pubblici (se non piove) oppure nei centri commerciali aperti la domenica o, altro ancora nelle stazioni della ferrovia o della metropolitana. Tutto per 850/900 €/mese. Fortuna per loro che non devono badare ai propri figli! Certo chi di loro è abbastanza giovane da avere figli piccoli, ha dovuto lasciarli a casa (in Equador, Bolivia, Colombia, Bielorussia, Ucraina, Romania, Plonia e avanti con l' elenco), però in questi casi l' ipotesi di reato di riduzione in schiavitù non esiste altrimenti chi potrà badare alle nostre vecchiette ed ai nostri nonnini? Stesso problema se si da loro uno stipendio adeguato ed un orari di lavoro di 40 ore settimanali, non oso pensare alle 36 ore di Pierre Carniti! L' Italia (per chi lo avesse dimenticato) è una delle 6 Nazioni che hanno dato vita alla Comunità Europea con Belgio, Olanda, Germania, Lussemburgo e Francia, ebbene in Francia (CE) la legge sancisce che per qualunque lavoro il compenso non può essere inferiore a 7 €/ora! Io mi chiedo: Siamo una parte del motore dell' Europa o siamo solo un peso morto trainato da altre nazioni? In Europa possono esistere cittadini di "serie B"? E' possibile che ci commuoviamo per le vittime del razzismo nel Mondo e non vediamo quanto razzismo abbiamo in casa nostra? Un caro saluto a chi ha avuto la pazienza di leggermi!
 
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