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« Dalla carità di stato al...Il PD senza un’alternati... »

La storia di operaie in lotta. Solo delle donne avrebbero potuto trasformare un momento drammatico in una condivisione solidale

Post n°4361 pubblicato il 16 Febbraio 2011 da cile54

Rosa e le altre

 

«Con queste mani noi produciamo cose: ora cuciamo tende, prima cucivamo giubbotti antiproiettile e uniformi. Con queste mani non palpiamo, non tocchiamo, non le usiamo per sesso a pagamento. Con il lavoro di queste mani io guadagno 1051 euro al mese, straordinari inclusi. Quanto mi pagherebbero per una palpatina? Per una toccatina? Per un bacio? Mille euro?».

Chi parla è Rosa Giancola, 43 anni, una delle 29 operaie della Tacconi Sud, un'azienda di Latina, che dal 19 gennaio presidiano la fabbrica, chiusa dal 10 gennaio di quest'anno con una delocalizzazione in vista in Romania. Rosa parla e muove in continuazione le mani di cui va fiera perché «producono il Pil del paese», dice lei. Ci racconta la storia sua e delle sue colleghe di lavoro. Antonella, Caterina, Nicoletta, Patrizia. L'ha scritta in un diario, «uno sfogo per non sentirsi sola», che poi ha pubblicato su Facebook.

«Dal 2007 al 31 dicembre 2010 siamo entrate e uscite dalla cassa integrazione. Il 17 dicembre 2010 Latina è sotto la neve. Noi attendiamo una notizia da Pavia, dove vivono i Sarchi, i padroni della fabbrica. Per tutto il giorno non c'è modo di parlare con la proprietà. Dal telefono del nostro segretario partono almeno 50 telefonate. È tutto fermo, come questo paesaggio insolito per Latina. Improvvisamente, la mattina di sabato 18 dicembre, il segretario ci annuncia che la decisione presa dall'azienda: cessazione di attività. Era una "cronaca di una morte annunciata", non c'era nessuno stupore, lo sapevamo già, solo un silenzio consapevole di cosa ci aspettava. Io e le mie colleghe giravamo per le vie del centro, circondate dalle luci natalizie bianche e accoglienti, ci sentivamo sospese dentro una bolla, una sensazione di vuoto irreale, come se il terreno fosse franato sotto i piedi e la testa fosse sospesa per aria. La nave stava affondando. Il 20 dicembre ci riuniamo nell'ufficio direzione, perché in mensa, dove di solito si svolgono le assemblee, fa troppo freddo. Mi rendo conto che non abbiamo le forze necessarie per pensare ad un'assemblea permanente, alcune di noi hanno bambini, anche piccoli, e chi genitori bisognosi di cure, come me. Perché le donne in questo paese hanno sempre una doppia occupazione, siamo noi il vero welfare del paese. Chiedere loro un presidio giorno e notte è difficile. Il 24 dicembre, accendo il pc e inizio a scrivere una nota su Facebook, forse per terapia, una lunga lettera pre-natalizia a questa città che assiste impotente al suo declino tra gli addobbi di Natale. Eccola, inizia così: "Una giornalista mi chiede secca - Come passerete il Natale? - non riesco a rispondere, da dove cominciare, cosa dire. Potrei tagliare corto e dire che lo passerò con meno soldi, come tutti quelli che perdono il lavoro, no? Ma non c'è solo questo da dire, mi guardo intorno e mi rendo conto che ci sono due Italie parallele, così come ci sono due città davanti ai miei occhi, una Latina che compra regali, forse un po' infastidita dall'altra che sprofonda, rovinando così il 'clima natalizio' al quale tutti hanno diritto potendo spendere il frutto del loro lavoro".

Passano le feste. Nessuna risposta dalla proprietà. Poi, il 10 gennaio arriva a ciascuna di noi la lettera di licenziamento. Così, il 19 gennaio, io e le mie colleghe proclamiamo lo stato di agitazione e decidiamo un'assemblea permanente. Quando veniamo a sapere che i padroni vogliono cambiare il codice d'accesso dei cancelli, ci diciamo: se non ora, quando? Così occupiamo la fabbrica, e inizia il nostro presidio».

È un presidio al femminile. Entro dentro alla fabbrica e mi travolge un odore di ciambellone e caffè. Mi aspettavo un posto freddo, invece le operaie hanno ricostruito nei locali della mensa una specie di salotto da casa accogliente, con poltrone e divani letto. Alcune di loro guardano la tivù da un vecchio televisore coi colori tutti virati fucsia che trasmette un programma di quiz. Alcune portano al presidio i figli piccoli, che così possono dormire con loro. Caterina ha lasciato suo figlio a casa: «Mamma non dorme a casa questa sera». Antonella si finge vedetta, e sta appostata alla finestra scrutando con un binocolo i cancelli, chiusi con una catena improvvisata. «Se la polizia cerca d'entrare dobbiamo essere pronte».

Fuori dai cancelli la polizia controlla. Rosa scrive nel suo diario: «Solo delle donne avrebbero potuto trasformare un momento drammatico in una condivisione solidale. Quando uno dei carabinieri ha accettato il caffè offerto da noi al di là del cancello la tensione si è sciolta. Questo per dire che la forza non è sempre sinonimo di forza fisica o violenza. Le donne non hanno mai potuto contare sulla propria prestanza fisica per difendersi, ma sulla propria determinazione, sì».

Le operaie più anziane sono tranquille perché sanno che la loro battaglia si concluderà al massimo con la pensione. Rosa, che ha quarant'anni, non ha l'età per cercare un nuovo lavoro e non ha accumulato contributi a sufficienza per smettere di lavorare. E così si è iscritta all'università, sociologia, alla Sapienza di Roma. «Non si sa mai. Ho dovuto iniziare a lavorare presto, qualche anno fa mi sono diplomata alla scuola serale. Non giudico il modo in cui queste ragazze utilizzano il proprio corpo, penso solamente che Ruby in una sera si toglie il pensiero. Io settemila euro in una volta sola non li ho mai visti».

Per Rosa è difficile trovare lavoro. Latina è la provincia d'Italia che l'anno scorso ha visto il maggior aumento delle cassa integrazione. Più 94 per cento rispetto all'anno precedente. Anche la Tacconi Sud aveva chiesto la cassa integrazione. Il lavoro c'era, anche se poco, per lo più commesse dello Stato. Fino a qualche tempo la Tacconi Sud fa produceva i giubbotti antiproiettile dei nostri soldati italiani, e tanti di quelli prodotti a Latina sono andati in Afganistan e in Iraq. Da qualche anno la fabbrica si era riconvertita: le operaie si sono messe a fabbricare tende e barriere anti-inquinamento. Sono state loro a cucire le tende per i terremotati dell'Umbria e dell'Abruzzo. «Le cucivamo noi, per la Protezione Civile. Loro le usavano, poi ce le rispedivano indietro. Ci toccava ripulirle coll'acqua e sapone, poi le riusavamo come fossero nuove, anche se sarebbe illegale. Una volta dentro ad una delle tende usate per il terremoto dell'Umbria abbiamo trovato un diario di un bambino. Raccontava le sue giornate, cosa faceva nei campi degli sfollati». Gente che non dorme sotto il tetto della sua casa. I terremotati come loro, le donne della Tacconi Sud, l'Armata Brancaleone, come si definiscono loro stesse. Il prossimo incontro con il prefetto sarà lunedì 14, il giorno di San Valentino: Rosa e le altre sperano di ricevere un gesto d'amore dal loro padrone.

 

Viviana Morreale

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