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Rischi per la salute e affari stratosferisci per le case farmaceutiche. Il pricoloso flop dei nuovi farmaci

Post n°3716 pubblicato il 21 Agosto 2010 da cile54

Inutili, tossici e dannosi

Secondo uno studio condotto dall’Università del New Jersey, l’85 per cento dei prodotti immessi sul mercato comporterebbero seri rischi per la salute. Il 42 per cento dei medicinali manca di sperimentazione clinica.

Non solo non guarirebbero, ma la maggioranza dei nuovi farmaci comporterebbe gravi rischi a causa della loro tossicità o dell’uso improprio. L’allarme lanciato da uno studio americano condotto dall’Università di Medicina e Odontoiatria del New Jersey, e presentato due giorni fa al meeting annuale della American Sociological Association di Atlanta, in Georgia, riguarda circa l’85 per cento dei prodotti immessi sul mercato.

Donald Light, professore di Medicina comparativa e autore della ricerca, non ha esitato ad attaccare l’industria del farmaco: «A volte le aziende farmaceutiche nascondono o minimizzano informazioni sui gravi effetti collaterali dei nuovi farmaci e sovrastimano i benefici dei farmaci stessi».

Secondo Light, sociologo ed esperto di politica sanitaria della University of Medicine and Dentistry of New Jersey, prossimo alla pubblicazione del libro The Risk of Prescription Drugs, le multinazionali «spendono il doppio o addirittura il triplo in marketing rispetto alla ricerca, per convincere i medici a prescrivere questi nuovi farmaci».

Dalla ricerca è emerso che su 111 richieste di approvazione finale di un farmaco, il 42per cento mancava di adeguate sperimentazioni cliniche, il 40 presentava violazioni nei test sui dosaggi, il 39 era privo di prove di efficacia clinica, il 49 lasciava sospettare il rischio di seri effetti avversi. Praticamente, 4  nuovi farmaci su 5 immessi sul mercato non offrono alcun beneficio in più per i pazienti.

I casi a sostegno del j’accuse del dottor Light sarebbero molti, alcuni di recente memoria e noti al grande pubblico. Su tutti spiccherebbe la fosca vicenda dei vaccini per la febbre suina (influenza A sottotipo H1N1), che passò alla storia come “la pandemia influenzale del 2009”.

Trasmessa dal maiale all’uomo, causò alcune vittime in Messico prima di diffondersi nel mondo e creare scompiglio e timori, nonché un grande allarme mediatico a fronte anche della decisione dell’Oms di portare il livello di allerta a 6, il massimo. Ogni nazione rafforzò le misure di sicurezza, e in Italia il governo firmò un contratto di produzione del vaccino con la multinazionale svizzera Novartis per un costo pubblico di 184 milioni di euro (il ministro della Sanità della Polonia, Ewa Kopacz, accusò gli Stati di avere concluso un accordo che faceva solo l’interesse delle case farmaceutiche, e rifiutò il vaccino).

O anche le restrizioni prescrittive del nimesulide, conosciuto con il nome commerciale di Aulin. L’Italia era ed è il maggior consumatore mondiale di questo farmaco antinfiammatorio (60 per cento del totale), ritirato dal mercato in Finlandia, Irlanda e Spagna per i gravi disturbi al fegato, alcuni mortali, che poteva comportare.

Tardivamente l’Emea, l’agenzia europea dei medicinali, ne raccomandò l’uso restringendo la prescrizione e vietandone l’uso in caso di febbre o sintomi influenzali, e a bambini, donne in gravidanza e allattamento.

Questa la diagnosi di un sistema malato. Ma la cura? «Servirebbero - dice Light - una serie di cambiamenti che potrebbero migliorare la qualità delle sperimentazioni cliniche e le prove su reali rischi e benefici di nuovi farmaci; potremmo così anche aumentare la percentuale di nuovi farmaci che risultino realmente migliori dei loro predecessori».  

Alessio Nannini

20 agosto 2010

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