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« In Italia gli onesti che...Mettiamo al centro il te... »

I crimini contro le persone, anche bambini, e contro l’ambiente che ci portiamo addosso con i nostri abiti

Post n°3719 pubblicato il 22 Agosto 2010 da cile54

Dietro l’etichetta

Bambini di cinque anni che smistano, tagliano e assemblano pellami per 12 o 16 ore ore al giorno per una paga di mezzo dollaro. Ragazzine stipate a cucire borse, abiti e maglie in tuguri senz’aria, dove sono costrette anche a mangiare e dormire, in modo da garantire turni di lavoro lunghi quanto l’intera giornata. Donne e uomini incollati notte e giorno alle macchine da cucire per stipendi inferiori a un paio di scarpe.

Ma non basta. Veleni che, dopo aver sbiancato, ammorbidito, disinfettato, colorato, incollato materiali che diventeranno borse, scarpe, spolverini, jeans, vestiti e camicette, vengono impunemente lasciati defluire in fiumi, laghi, mari e campagne. E ancora, animali torturati per sperimentare colle e coloranti o per ornare i nostri giubbotti. Da alcuni anni, da quando quasi quotidianamente la cronaca fa emergere i crimini contro le persone e contro l’ambiente che si possono nascondere dietro le etichette dei nostri abiti, si sta sviluppando, anche in fatto di abbigliamento, una maggiore consapevolezza etica.

Si comincia a comprendere che scegliere di comperare un abito anziché un altro, o addirittura di rinunciare a comperare per riutilizzare quanto già si possiede, può avere effetti decisivi non solo per la sopravvivenza e la qualità di vita di altre persone, ma per l’ambiente e per la nostra stessa vita. Seppur con lentezza e ritardo rispetto ad altri Paesi, anche in Italia l’etica comincia a “fare tendenza” nel campo della moda, mobilitando non solo le associazioni del commercio equosolidale e coloro che si battono a vario titolo per i diritti umani, ma anche produttori, stilisti e catene di distribuzione di vestiario che, cavalcando questa nuova sensibilità dei consumatori, hanno individuato la possibilità di ridare spinta ai loro affari rallentati dalla crisi.

Il rischio è che, mentre i grandi strateghi del commercio e del consumo cominciano a gestire questo nuovo orientamento culturale, l’etica, propagandata a suon di slogan solo come connotazione di originalità, perda di vista le azioni critiche che ne costituiscono il fondamento, vale a dire l’impegno a riconoscere compensi equi ai produttori, a garantire la qualità degli ambienti di lavoro e condizioni di vita dignitose agli operai e alle loro famiglie, a evitare ricadute negative dell’attività produttiva sull’ambiente, a informare operatori e consumatori nella massima trasparenza.

Fortunatamente, accanto al business della grande distribuzione e dell’industria del fashion, interessate più all’aspetto commerciale di questa nuova tendenza, il fenomeno coinvolge sempre più parte di una popolazione solitamente esclusa o sottomessa dal settore tessile (giovani donne, migranti, precari o lavoratori sommersi), destinata in questo modo a diventare prima protagonista nella produzione di abbigliamento anche negli stessi Paesi d’origine. Alcune realtà, nate in territorio italiano, esemplificano il fermento di iniziative che, all’insegna del dialogo multiculturale e dell’intraprendenza femminile, sta crescendo intorno alla moda con obiettivi realmente etici.

Trame di storie, ad esempio, è una linea di tessili e abbigliamento che coinvolge diversi organismi di produttori in Bangladesh, India e Vietnam. L’idea è quella di creare uno staff di persone, diverse per nazionalità, formazione e cultura, dislocate in Paesi differenti, ma accomunate dalla volontà di lavorare secondo i criteri del commercio equo. Il gruppo dovrebbe allearsi con produttori, stiliste e modelliste italiane, in sinergia con gli Stati di provenienza della merce. Crossculture è invece un progetto per la realizzazione di t-shirt, che mette insieme diverse realtà di commercio equosolidale. Le magliette sono prodotte da Aarong, un’azienda di commercio equo del Bangladesh, mentre alcuni dei disegni stampati provengono dalle collezioni di organismi bengalesi e zambiani ai quali sono stati versati dei compensi per l’utilizzo delle rappresentazioni grafiche. Aarong non si è limitata a produrre t-shirt, ha fatto rivivere l’arte nakshi kantha tra le donne bengalesi, insegnando a centinaia di ragazze dei villaggi a riutilizzare vecchie coperte per creare, con nuovi ricami, tessuti, copriletto, tovaglie, lenzuola, cuscini e molto altro.

Grazie a questa iniziativa è stata reintegrata un’importante forma artistica tradizionale ed è stato promosso il miglioramento delle condizioni di vita delle donne. Sempre femminili poi sono le protagoniste di alcuni progetti originali. Interessante quello che riguarda una cooperativa di donne di Medan, in Indonesia. Un gruppo di operaie, spesso provenienti dalle regioni devastate dallo tsunami, creano borsette utilizzando pagine di riviste di moda, selezionate per la linea Bollywood del marchio CeeBee. Le immagini vengono inserite e cucite tra due strati di plastica trasparente, non tossica, anch’essa riciclabile, così la carta, oltre a essere decorativa, fa da imbottitura.

All’insegna del dialogo fra culture nascono anche alcune linee di abbigliamento, come quella del territorio pavese, che realizza abiti con sete prodotte da donne del Laos; o quella delle donne indiane di Satya Jyoti (Luce vera), che producono vestiti di fibre naturali e biologiche, coltivate da comunità rurali, e investono in progetti per le giovani stiliste dei villaggi della zona. Viadifuga, linea di abbigliamento etico, nasce da un ideale: coniugare moda e stile mettendo insieme il rispetto per la persona e l’ambiente, attraverso abiti che non contribuiranno alla contaminazione dell’ambiente o al danno alla salute umana, né durante le fasi della loro produzione (dalla coltivazione della fibra alla sua trasformazione) né in quelle dello smaltimento una volta utilizzate. Viadifuga privilegia, per la confezione dei propri capi, le abili mani di donne appartenenti a cooperative il cui scopo è quello di dare alle proprie socie un lavoro dignitoso, capace di alleviare uno stato di disagio, di ridare fiducia e speranza nel futuro. E merita rilievo, fra altre, L180, (marchio che si rifà alla legge Basaglia). È una linea di magliette e polo serigrafate, realizzate all’interno dell’ex-ospedale psichiatrico di Trieste dalla cooperativa sociale Confini onlus, impegnatanell’inserimento lavorativo di persone affette da disagio psichico. La stessa cooperativa stampa citazioni, frasi famose e proverbi sulle t-shirt della collezione Anoiimporta della cooperativa Pace & Sviluppo di Treviso.

Elena Guerra

Combonifem Magazine’, numero Agosto-Settembre 201

Fonte: www.misna.org

 
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