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A proposito della barbarie di Marchionne e Berlusconi. Leggete Stefano Rodotą, l'interprete pił genuino della Costituzione

Post n°4205 pubblicato il 05 Gennaio 2011 da cile54

Lezione tenuta nell’Aula Magna dell’Università di Macerata il 6 ottobre 2010 in occasione del conferimento della Laurea honoris causa. LavoroeSalute consiglia vivamente la lettura di questa lunga ma appassionante lode alla civiltà dell’uomo protagonista del bene comune, quella civiltà magistralmente rappresentata dalla nostra Carta Costituzionale e alla base della quale ci sono la dignità e la sicurezza del  lavoro.

Antropologia dell’homo dignus

Voglio anzitutto chiarire il significato che attribuisco al termine “antropologia” nella dimensione giuridica qui considerata. Non mi riferisco tanto all’antropologia giuridica come “conoscenza del diritto”, quanto piuttosto al fatto che il diritto costruisce figure sociali, dunque una vera e propria antropologia. (1) Il diritto ha sempre contribuito alla creazione di antropologie e, quando lo ha fatto, ha conferito loro persistenze che andavano al di là della vicenda di origine. Ogni grande operazione giuridica, prima ancora che questo ruolo fosse reso del tutto manifesto dalle carte costituzionali, ha disegnato un suo modello di persona, che non era mai la semplice registrazione di una natura “umana”, ma un gioco sapiente di pieni e di vuoti, di selezione di ciò che poteva trovare accoglienza nello spazio del diritto e quel che doveva restarne fuori, di ciò che poteva entrare in quello spazio con i suoi connotati “naturali” e quello che esigeva una metamorfosi resa possibile proprio dall’artificio giuridico. Riflettendo in generale sul ruolo del diritto, si è sottolineato che «faire de chacun de nous un ‘homo juridicus’ c’est la manière occidentale de lier les dimensions biologique et symbolique costitutives de l’etre humain».(2)

Consideriamo, per cominciare, il titolo di uno dei grandi documenti fondativi della modernità: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Questa Dichiarazione dà la massima evidenza alla controversia tra chi ha sostenuto, e sostiene, che i diritti del cittadino altro non siano che i diritti naturali formalmente riconosciuti e chi, invece, in essi vede «una trasmutazione di una umanità indistinta in una cittadinanza situata». (3Locke o Rousseau, semplificando. Ma andiamo oltre, continuando a semplificare. Davanti a noi sono due figure, l’uomo e il cittadino: per la prima può parlarsi di una “qualità”; per l’altra, di uno “statuto”. Ora, quale che sia la portata che si vuole attribuire a questi due termini, è indubbio che siamo di fonte ad una “civilizzazione” o secolarizzazione o laicizzazione di diritti ritenuti naturali grazie all’intervento di quello strumento squisitamente artificiale che è appunto il diritto.

Non è una novità. Pensiamo, ad esempio, alla Magna Charta e al suo habeas corpus, all’antica promessa che, nel 1215, il re fa ad ogni “uomo libero”: «non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese». Siamo di fronte all’abbandono di una prerogativa regia, all’autolimitazione di un potere che, proprio per i caratteri dell’impegno assunto, nella fase precedente era stato con tutta evidenza esercitato in maniera sostanzialmente arbitraria, peraltro in conformità con la sua natura. Quell’atto, se così si può dire, laicizza il potere del re. Quel che ne risulta, infatti, non riposa più sulla sovranità/sacralità, ma si cala nel mondo, si presenta come l’esito di una negoziazione complessa, manifesta l’avvio di un intrecciarsi di fattori che, in tempi assai successivi, porterà a quella “autolimitazione” dello Stato sovrano come atto di fondazione dei diritti pubblici subiettivi. Lungo, dunque, è il percorso che ci conduce alla Dichiarazione del 1989 e al suo estrarre dalla naturalità dell’uomo una figura sommamente artificiale qual è il cittadino, affidando alla legge, e solo alla legge, la definizione del suo perimetro. Per ciò è legittimo parlare di una nuova antropologia.

Avviciniamoci ai tempi nostri, e leggiamo quel che scriveva, nel 1954, Luigi Mengoni. «Il modello antropologico dell’individualismo proprietario è stato corretto dal diritto del lavoro, che comincia a svilupparsi verso la metà del XIX secolo, o verso la sua fine, nei paesi, come l’Italia, a ritardata crescita capitalistica. In quanto presuppone l’uomo che lavora, e non semplicemente un proprietario di forza-lavoro che la offre sul mercato, il diritto del lavoro instaura l’antropologia definitiva del diritto moderno, fissata nell’articolo 1 della Costituzione del 1947, che proclama essere il nostro ordinamento “fondato sul lavoro”».(4)

Viene così descritto l’esito di un processo storico, irriducibile alla forzatura ideologica di cui quell’articolo sarebbe testimone, e che segna un distacco netto dall’antropologia legata appunto a quel’individualismo proprietario che aveva accompagnato per tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento il diritto civile, da intendere, però, non come un semplice settore della disciplina giuridica, ma come la fondazione costituzionale dei rapporti privati. Non a caso Jean Carbonnier ha parlato del Code civil come della «costituzione civile dei francesi», mettendo in evidenza un aspetto già colto nitidamente da Gioele Solari fin dal 1911, sottolineando che «la Codificazione risponde nel campo del diritto privato a quello che furono le Dichiarazioni di diritti e le Costituzioni nel campo del diritto pubblico».(5)

Se, a questo punto, si torna al clima e all’assetto istituzionale del tempo che seguì la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, possiamo cogliere l’incidenza del Code civil, che modifica profondamente l’antropologia emersa dalla rivoluzione. Esponendo i motivi della codificazione, il maggiore tra i suoi artefici, Jean-Etienne-Marie Portalis, scrive: «al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero». Ecco indicati, con ammirevole semplicità, il senso e la portata dell’operazione politica realizzata attraverso il Code, individualista e patrimonialista. La proprietà dà il tono al codice. Lo aveva già detto con assoluta chiarezza Cambacérès, scrivendo che «la legislazione civile regola i rapporti individuali e attribuisce a ciascuno i suoi diritti in relazione alla proprietà». Lo sapeva bene Napoleone che, nel suo proclama del 18 brumaio, si presentava appunto come il difensore di “libertà, eguaglianza e proprietà”, reinterpretando, attraverso la cancellazione della fraternità, la triade rivoluzionaria. Portando a compimento questo disegno, il Code Napoléon definisce non solo lo statuto della borghesia vittoriosa, ma l’intera trama delle relazioni tra i cittadini, diviene il piano dei rapporti sociali.

Le conseguenze di questo radicale mutamento sono evidenti. «Ecco in mano mia il Codice civile. Non è per nulla il prodotto della società borghese. È piuttosto la società borghese, nata nel XVII secolo e sviluppatasi nel XIX, che semplicemente trova nel Codice una forma giuridica»: così Karl Marx nel 1849. E Antonio Labriola incalza: «Il novello stato, che ebbe bisogno del 18 brumaio per diventare una ordinata burocrazia poggiata sul militarismo vittorioso, questo stato che completava la rivoluzione nell’atto che la negava, non potea fare a meno del suo testo, e l’ebbe nel Codice civile, che è il libro d’oro della società che produca e venda merci».

La rilevanza attribuita alla proprietà, diritto esclusivo, non oscura soltanto la fraternità: reinterpreta anche gli altri due riferimenti della triade rivoluzionaria attraverso la saldatura tra libertà e proprietà e il conseguente, inevitabile, mutamento di senso dell’eguaglianza. Una volta intesa la proprietà come fondamento della libertà stessa, secondo la classica lettura del liberalismo, è evidente che essa diviene pure la condizione dell’eguaglianza, dal momento che solo l’eguaglianza nel possesso si presenta come il fattore decisivo per il superamento delle disparità. L’individualismo proprietario connota non solo l’assetto economico, ma istituisce una diversa antropologia, quella del borghese moderno, che implica quasi una costituzionalizzazione della diseguaglianza.

Tra l’originaria costituzione, la Dichiarazione dei diritti e il Code civil si manifesta precocemente quella che oggi chiameremmo una asimmetria. Il proprietario tende a cancellare il cittadino, o meglio a concentrare la cittadinanza in capo al proprietario, con una vicenda che avrà la sua più evidente manifestazione nella cittadinanza censitaria. Davvero si confrontano due antropologie, potremmo quasi dire due diverse persone, anche se questo conflitto viene neutralizzato grazie all’invenzione del soggetto astratto, vero connotato della modernità, e alla conseguente creazione di altri strumenti giuridici che consentono di fare astrazione dalla concretezza dei rapporti economici, come il negozio giuridico.

Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che l’astrazione del soggetto era indispensabile per uscire dalla società degli status e aprire così la via al riconoscimento dell’eguaglianza. L’invenzione del soggetto di diritto, l’istituzione dell’uomo come soggetto non solo nel mondo giuridico, rimangono fra i grandi esiti della modernità, di cui vanno compresi i caratteri e la funzione storica. Quel che va respinto è un uso politico che ha via via sterilizzato la forza storica e teorica di quell’invenzione, riducendo il soggetto ad uno scheletro che isolava l’individuo, lo separava da ogni contesto, faceva astrazione dalle condizioni materiali. Per ciò era indispensabile intraprendere un diverso cammino. Da qui la necessità di riprendere il filo spezzato dell’eguaglianza, sottraendola non ai benefici di una forma che continua ad essere strumento contro l’istituzionalizzazione delle discriminazioni, ma ad una indifferenza per la realtà dell’essere, disegnando così nuove gerarchie e nuovi abbandoni fondati sulla forza politica e la prepotenza del mercato. Da qui la necessità di costruire un contesto in cui libertà ed eguaglianza potessero riprendere a dialogare dopo le grandi tragedie del Novecento. Da qui la necessità di fondamenti capaci di dare all’eguaglianza la pienezza richiesta pure dal mutare dei tempi. Da qui la necessità di passare dal soggetto alla persona,(6) intendendo quest’ultima come la categoria che meglio permette di dare evidenza alla vita individuale e alla sua immersione nelle relazioni sociali. Da qui, in definitiva, una nuova antropologia, espressa attraverso la costituzionalizzazione della persona.

Con questi dilemmi, e con altri che emergono dalla complessità teorica del tema e dall’asprezza di una storia fitta di ammonimenti, si misurano i costituenti italiani, e con essi tutti gli altri costituenti del tempo, quelli che mettono mano alla costituzione tedesca e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Ma non siamo di fronte ad una semplice ripresa delle antiche tematiche, quasi che si dovesse chiudere la lunga e tragica parentesi delle dittature e della guerra, con una sorta di heri dicebamus che rimetteva al centro dell’attenzione solo la coppia forte della Dichiarazione dei diritti dell’‘89 e delle dichiarazioni dei diritti degli Stati americani: il nascere di tutti come “liberi e uguali”. Questa attenzione esclusiva per libertà ed eguaglianza è tornata nei tempi recenti per ricostituire il legame spezzato dal prevalere dell’individualismo proprietario e restituire pienezza alla figura del cittadino, coniando per ciò addirittura un termine nuovo: égaliberté.(7) Tuttavia, pur toccando un punto rilevante del problema, impostazioni come questa non colgono le novità contenute nel costituzionalismo dell’ultimo dopoguerra.

L’innovazione più significativa è affidata al principio di dignità. (8) La Costituzione italiana, approvata il 22 dicembre 1947, fa esplicito riferimento ad esso negli articoli 3, 36 e 41, e lo richiama in particolare nell’articolo 32. Un anno dopo, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo 1 integra in modo significativo l’antica formula settecentesca della Dichiarazione francese («gli uomini nascono e rimangono liberi e eguali nei diritti») affermando che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». E l’8 maggio 1949 la Legge fondamentale tedesca si apre con le parole «La dignità umana è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla». Una svolta è così compiuta, la dignità si presenta come un ineludibile denominatore comune, disegna, insieme, un nuovo statuto della persona e un nuovo quadro dei doveri costituzionali.

Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo del dopoguerra. Se la “rivoluzione dell’eguaglianza” era stato il connotato della modernità, la “rivoluzione della dignità” segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l’era del rapporto tra persona, scienza, tecnologia. E la rilevanza costituzionale della dignità ci dà una ulteriore indicazione. Descrivendo il tragitto che ha portato all’emersione dell’eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall’homo hierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all’homo dignus, e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà ed eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. Il cammino costituzionale della dignità è continuato fino all’approdo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, che si apre proprio all’insegna della dignità, riproducendo quasi alla lettera il primo articolo della Costituzione tedesca. Perché questa scelta, perché si è voluto che proprio la dignità fosse il segno forte della prima dichiarazione dei diritti del nuovo millennio?

Torniamo agli anni che seguirono quelli drammatici della seconda guerra mondiale. In un tempo davvero costituente, due costituzioni, quella italiana del 1948 e quella tedesca del 1949, non si rifanno immediatamente al modello fondato sul codice della libertà e dell’eguaglianza, che aveva accompagnato il costituzionalismo moderno fino a Weimar e che era stato riconfermato dalla costituzione francese del 1946. Dignità e lavoro sono i due nuovi punti d’avvio, che non segnano un congedo dai fondamenti della libertà e dell’eguaglianza, ma ne rinnovano e rafforzano il senso, collocandoli in un contesto nel quale assume rilevanza primaria la condizione reale della persona, per ciò che la caratterizza nel profondo (la dignità) e per quel che la colloca nella dimensione delle relazioni sociali (il lavoro). Il soggetto astratto s’incarna nella persona concreta. Qui si manifesta una nuova antropologia, che troverà poi molteplici espressioni soprattutto nella nuova temperie culturale e istituzionale segnata dalla tecnoscienza.

All’origine della scelta dei costituenti tedeschi era, evidentissima, la volontà di reagire alla distruzione dell’umano e alla “morte di Dio” in un luogo simbolo di quella distruzione, Auschwitz, che avevano accompagnato l’esperienza nazista e avevano portato alla “perversione” dell’intero ordine giuridico. Si avvertiva il bisogno di una fondazione più solida. Da qui il “criptogiusnaturalismo” della costituzione tedesca, la consapevolezza «della propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini» dichiarata dal popolo tedesco nel Preambolo di quel testo.

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