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"La democrazia dispotica", un saggio dello storico della filosofia Michele Ciliberto

Post n°4254 pubblicato il 19 Gennaio 2011 da cile54

Ma gli scandali non bastano a sconfiggere il berlusconismo

 

Hanno provato a contarle ma stabilire con certezza il numero di leggi ad personam fatte varare da Berlusconi è impresa ardua. Tra le misure approvate dal parlamento durante le tre legislature di centrodestra nel corso degli ultimi sedici anni figurano provvedimenti come la cancellazione delle tasse di successione per patrimoni superiori a 350 milioni di lire, il lodo Alfano, le rogatorie, il decreto salva-Milan, la riforma dei reati societari, la legge Gasparri sulle televisioni e chi più ne ha ne metta. Ce n'è a sufficienza per sostenere che l'uso privatistico dello Stato è uno dei tratti specifici della politica berlusconiana. Da questo punto di vista il berlusconismo, tecnicamente parlando, è la versione contemporanea di quello che in filosofia politica si chiama dispotismo, vale a dire un regime politico nel quale l'arbitrio si sostituisce alla legge. Il conflitto che da anni gli esecutivi di centrodestra mettono in scena contro gli altri poteri costituzionali - in primis contro la magistratura, in generale contro qualunque istanza che si faccia garante della universalità delle leggi - non è altro che un corollario della gestione privatistica delle istituzioni. Non è questa, però, l'unica chiave per intendere i codici segreti del berlusconismo. Che, nella fattispecie, non consiste unicamente nell'aver infranto il «primato della legge e del diritto», ma soprattutto nell'esprimere uno «stile di vita» e «modelli antropologici» che hanno «intorpidito e penetrato la società italiana in modo così profondo da non provocare più proteste o critiche in una larga parte degli italiani, pronti al massimo a rifugiarsi, per protesta, nell'astensione». Così scrive Michele Ciliberto nel suo nuovo lavoro, La democrazia dispotica, uscito per Laterza (pp. 202, euro 18), un tentativo come se ne vedono pochi di interrogare filosoficamente il presente o, per dirla in altro modo, di dare profondità e spessore alla cronaca. Non è l'unico pregio di un libro la cui tesi fondamentale consiste nel rigettare l'interpretazione corrente del berlusconismo come fenomeno folcloristico e provinciale, come una sorta di soap opera più latino-americana che europea, o anche come l'ennesima variante nazionale del sovversivismo delle classi dirigenti italiane. Non che nella figura di Berlusconi siano assenti tratti specifici della storia nazionale, di quelli che si possono rintracciare nei capitoli più oscuri del nostro passato, nella P2 o in certe pulsioni autoritarie di questo paese. E neppure si vuol dire che il berlusconismo non abbia costruito le proprie fortune su un mix di modernità e immaginario tipicamente italico, di senso comune retrivo e subculture mai del tutto sopite nella nostra società. Il punto è che «non si tratta di un problema solo italiano, provinciale; né di una patologia che coinvolge solo la destra. E' una tendenza generale dell'epoca nella quale si intrecciano, in modi complessi, dispotismo, plebiscitarismo, populismo, dinamiche di tipo carismatico. Essa ha investito anche le forze del centrosinistra, che - per cercare di ristabilire un nuovo circuito di comunicazione tra governanti e governanti - si sono affidate, in Italia, alla "tecnica" delle primarie». Le quali, per effetto di una eterogenesi della crisi, stanno assumendo la forma di un «plebiscitarismo carismatico» finendo così per accentuare la crisi della democrazia.

L'originalità del berlusconismo sta nell'aver «trasformato in una sorta di senso comune diffuso l'uso in chiave personale e privatistica della legge», nell'aver costruito un nuovo ethos, in altre parole, «la distruzione della certezza del diritto e della legge, diventata ormai fatto quotidiano, e normale, per larga parte degli italiani». Berlusconi usa la legge in maniera privatistica e la svuota del suo contenuto universale, «ma ha avuto il consenso della maggioranza». Se così non fosse il berlusconismo sarebbe (forse) già sconfitto. La maggioranza di governo è in fibrillazione, il legittimo impedimento è stato (in parte) respinto, da mesi ormai la figura del premier è al centro di scandali a sfondo sessuale, il suo profilo morale è sotto i tacchi, eppure «tutto ciò non ha intaccato in modo sostanziale il consenso che continua a circondarlo». Possibile che il successo di Berlusconi sia dovuto a un istupidimento collettivo di massa? O che il controllo dei media abbia artificialmente costruito la sua fortuna elettorale? L'inibizione del sapere critico, la mortificazione della cultura, il monopolio simbolico dei media berlusconiani (e aggiungiamoci anche lo smantellamento dell'istruzione pubblica) sono spiegazioni utili, ma non le uniche. Il punto di rilievo è che il dispotismo contemporaneo si sviluppa in paesi che non sono politicamente analfabeti. Per stare al caso italiano la nostra società è stata segnata perlomeno fino agli anni 80 da culture e appartenenze politiche di massa. «Berlusconi non ha sistemato, come un vecchio khan, i suoi accampamenti nel deserto: al contrario, ha vinto perché è riuscito a ricomporre intorno alla sua leadership forti e dure - pur se ormai storicamente disgregate - appartenenze politiche e di classe, interpretando - da un punto di vista originale - processi di fondo, di natura patologica, delle democrazie occidentali». Qualcosa che nasce dentro la crisi del nostro sistema democratico e che di esso si alimenta. Berlusconi come altri leader plebiscitari europei (per esempio, il Sarkozy dei tempi di massima popolarità) è frutto, da un lato, della frantumazione delle vecchie identità collettive; dall'altro, della capacità di riaggregare attorno alla propria figura consensi trasversali, un tempo collocati a destra e a sinistra dell'elettorato. Leader post-politico, lo si potrebbe perciò definire, in grado di allargare l'orizzonte del discorso politico a sfere un tempo "extrapolitiche", di mutare i riferimenti persino nel proprio lessico, «penetrando e rivitalizzando "sensi comuni" profondi degli italiani - compreso il tasto dell'osceno e del maschilismo - riuscendo, per questa via, ad estendere il cerchio del suo consenso». Si profila insomma una versione contemporanea, tangibile, pervasiva di un nuovo «dispotismo democratico» - vera contraddizione in termini - nella forma analogo ai modelli dispotici studiati dagli autori classici del pensiero politico, da Tocqueville a Marx a Weber. Un potere sociale che assume il controllo di tutti, che toglie autonomia e responsabilità ai singoli, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione della loro vita.

 

Tonino Bucci

18/01/2011

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