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Messaggi del 03/11/2010

Un tragico quadro sociale non comporta nel Belpaese alcun tipo di ribellione, come è avvenuto in Francia. perchè?

Post n°3979 pubblicato il 03 Novembre 2010 da cile54

'Famiglia italiana in crisi? Forse non è un male '

Il nucleo familiare nel Belpaese ha sempre fatto da supplente ad uno Stato latitante in termini di “welfare state”. Ma ora è sotto stress, privato come è degli aiuti necessari. Questo spingerà i giovani a liberarsi dalla tutela genitoriale e a lottare da soli per i propri diritti?

Un Paese conservatore e statico. Stiamo parlando dell’Italia, e di chi sennò, e la causa di questo andamente è la famiglia. Da sempre, fin dall’immediato dopoguerra, il nucleo familiare ha fatto da garante ai propri figli e via via, generazione dopo generazione, ha aiutato i più giovani quando mancava il lavoro e sostituito quel “welfare state” tanto presente invece nel resto d’Europa. Ha insomma fatto da supplente ad uno Stato inefficiente e corrotto che sul ruolo della famiglia ha costruito le proprie fortune. Ma almeno negli anni ’60 c’è stato il boom economico e poi le conquiste operaie. Se ora la storia si ripete questo succede con uno scenario ben peggiore, certamente il peggiore della storia repubblicana. Se prima i genitori speravano in un futuro migliore per i loro figli, basti pensare a chi è nato nell’immediato dopoguerra - fine anni ’40 fino agli anni ’60 - ora, come ricorda su Repubblica Ilvo Diamanti, il 60% dei nostri connazionali sono convinti che i giovani avranno una posizione sociale peggiore di quella dei loro genitori. Ma questo quadro non comporta nel Belpaese alcun tipo di ribellione, come è invece è avvenuto in Francia per molto meno, e tutti si affidano sempre al nucleo familiare. Come ricorda Diamanti gli stessi imprenditori, che dovrebbero invece pensare in grande, tendono a «mantenere la proprietà e la gestione dell’azienda all’interno della famiglia». A pensarla così è il 47% del campione intervistato quest’anno nell’ambito di una ricerca per Confindustria, mentre l’anno prima la percentuale era del 29%. Ma è del tutto evidente che in un contesto di crisi economica e con un governo in bilico il quale non ha fatto altro, malgrado l’intenzione di «tutelare la famiglia, quella vera», che abbandonare le persone sia sul piano della tutela sociale che delle prospettive, anche questa ossatura storica della società italiana rischia di collassare con risultati imprevedibili per tutta la nazione. Non sappiamo che cosa potrebbe accadere. Ma forse non tutto il male viene per nuocere. Le risposte organizzate che stanno arrivando da settori importanti del mondo del lavoro, dai metalmeccanici agli immigrati, questi ultimi nuovi attori del palcoscenico italiano, lasciano sperare che forse un giorno come in Francia si potrà fare. E a quel punto di un palliativo come la famiglia l’Italia potrà anche fare a meno. Un sogno? Forse, ma sognare, come si sa, non costa nulla.

Vittorio Bonanni

01/11/2010

 
 
 

In pieno svolgimento il programma della P2, scuola di classe per ricchi e pochi altri, al popolo la televisione

Post n°3978 pubblicato il 03 Novembre 2010 da cile54
Foto di cile54

'Diritto allo studio, ennesimo colpo di mannaia '

 

E’ un conflitto senza tregua quello che si sta verificando tra studenti, precari, docenti e genitori, cioè i veri protagonisti della scuola, dell’università e della ricerca, e il governo. E mentre sono in campo innumerevoli iniziative per contrastare i tagli e praticare un modo di studiare figlio della collegialità e della condivisione, dopo l’ultima bella manifestazione di sabato 30 a Napoli, arriva l’ennesimo colpo di mannaia da parte del duo Tremonti-Gelmini. Dopo il taglio netto della scorsa settimana al fondo per i libri di testo gratuiti per la scuola elementare, che ha portato il fondo da 103 milioni a 0 euro, e dopo che i precedenti tagli di cattedre e ore hanno creato classi di più di 30 studenti in violazione delle norme sulla sicurezza che ne prevedono un massimo di 25, mentre i fondi per far fronte a questa misura non vengono assegnati, è ora la volta del taglio radicale al fondo per le borse di studio. Ma questo è solo l’ultimo dei provvedimenti che dalla 133 del 2008 stanno colpendo scuola, università e ricerca passo dopo passo. Dal taglio del tempo pieno alla cancellazione delle graduatorie per i precari, al taglio di scuole e atenei. Ultimo in ordine di tempo, con un taglio dei finanziamenti del 90 per cento il fondo, da 246 milioni di euro erogati nel 2009 per 147.116 borse assegnate, ai 99 milioni di euro di quest’anno, passa a soli 25,7, contenuti nel bilancio di previsione per il 2011. E con 184.038 aventi diritto.

Poiché il sistema è regionalizzato, i fondi andranno alle Regioni, che dovranno distribuirli. O più precisamente, i fondi andranno a Regioni già massacrate dai tagli, che dovranno ponderare come distribuirli. Ciò significa che molto probabilmente un buon 80 per cento di “aventi diritto”, saranno “non aventi di fatto”. In particolare al sud, naturalmente. Aggiungendo a questo già devastante bilancio che quella cifra, che significa 1000-2000 euro a studente, si traduce per i fuori-sede nella possibilità di pagarsi l’affitto e il vitto se fuori mensa convenzionata. Non certo quindi gli studi, dalle tasse ai libri. Un percorso in salita che diventa sempre più ripida, perché segnata dalle “opportunità” che viceversa hanno le famiglie con reddito sotto i 17mila euro e valutazione scolastica sopra la media, di accedere a un finanziamento pubblico, che rimane però sulla carta, perché concretamente neanche qui ci sono soldi.

E’ l’ennesimo articolo della nostra Carta Costituzionale disatteso da questo governo. L’articolo 34 prevede esplicitamente borse di studio perché i “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, ma è l’ennesimo fronte dove il governo taglia fondi, o addirittura li dirotta sul fronte privato, ricreando quel sistema di selezione che quarant’anni fa la scuola democratica e di massa, le borse di studio, concepite nel 1963 come un pre-salario, e poi la liberalizzazione dell’accesso all’università nel 1968, avevano sbaragliato a favore del libero accesso all’istruzione gratuita per tutti, che coincidendo con l’attuazione della Costituzione, ha realizzato concretamente il momento culturale più alto che questo paese abbia conosciuto, realizzando quindi anche un grande sviluppo civile.

Non sarà questo radicale cambiamento di rotta che consegna le università al mercato a far ritrovare quello sviluppo, al contrario. Perché solo il sistema pubblico, antitetico al sistema di mercato, può consentire quell’inclusione determinata dalle effettive possibilità di partecipazione alla costituzione e allo sviluppo del paese. E che come dicevamo all’inizio, il conflitto sia fra il governo e i protagonisti di un bene pubblico, non può più passare inosservato. Al contrario, è la sostanza del problema, e la malapianta da estirpare.

 

Anna Maria Bruni

02/11/2010

leggi www.controlacrisi.org

 
 
 

Un sondaggio mostra che il 17 per cento degli italiani nel 2008 si sono visti chiedere o offrire una tangente. E' oggi?

Post n°3977 pubblicato il 03 Novembre 2010 da cile54

Il nuovo potere invisibile

 

È passata sottotono, anche sui media d'opposizione, la pubblicazione della graduatoria di Transparency International, un network di cento associazioni nazionali, in base alla quale l'Italia è al 67esimo posto fra i 178 paesi censiti per l'indice di percezione della corruzione nella pubblica amministrazione.

E invece la cosa merita un approfondimento, anche se, spiega Alberto Vannucci, docente all'università di Pisa e studioso dei fenomeni di corruzione in Italia, «bisogna stare attenti a non confondere le percezioni con la realtà. Che pure, secondo le stime della Procura generale è una tassa occulta da 50-60 miliardi l'anno. Ma la corruzione ha infiniti costi, non solo economici. Il problema è proprio che la realtà non è osservabile direttamente. Al contrario, di regola, quanto più le reti della corruzione diventano radicate, tanto meno il fenomeno risulta visibile, non ci sono inchieste né denunce. Chiunque cerchi di stimare quante tangenti sono effettivamente pagate in un paese deve accontentarsi di indicatori indiretti. Ma esiste un legame forte tra la pratica della corruzione e sensazioni diffuse nell'insieme di osservatori privilegiati - esperti, imprenditori, ecc. - impiegato da TI. Un sondaggio di Eurobarometro dell'anno scorso mostra che il 17 per cento dei cittadini italiani nel 2008 si sono visti chiedere o offrire una tangente, contro una media europea del 9. Quella statistica, che misura la corruzione realmente consumata, e la confrontiamo con l'indice di TI dello stesso anno, c'è una sovrapposizione quasi perfetta».

 

Perché siamo il fanalino d'Europa? Che differenza c'è fra noi e gli altri paesi?

 

In nessun altro paese europeo sarebbe concepibile un primo ministro pluri-imputato per reati di corruzione, salvato solo da prescrizioni o "congelamenti" dei processi ottenuti grazie a norme su misura. Naturalmente la questione della corruzione non è riducibile al caso-Berlusconi, che pure è macroscopico. Ma la sua vicenda ha prodotto effetti devastanti sulla percezione pubblica della gravità sociale del fenomeno. Oggi si respira una sensazione di impunità sconosciuta persino negli anni di Tangentopoli. A questo si aggiunge un sistema politico che continua a confezionare condizioni allettanti per il ricorso alle tangenti: mancano controlli efficaci. In compenso negli appalti, e in ogni settore dove girano soldi, c'è un tale groviglio di norme e procedure che qualsiasi processo decisionale finisce per bloccarsi. La scappatoia quasi sempre è la tangente. Il metodo della cricca della Protezione civile ha fatto scuola, con una legge approvata alla chetichella a luglio si è estesa a tutti i dirigenti generali la possibilità di assegnare gli appalti a loro discrezione, basta che li dichiarino "segreti".

 

L'era berlusconiana coincide con il post tangentopoli. C'è un'evoluzione della corruzione dal pre '93 e all'era berlusconiana?

 

C'è stata una duplice evoluzione. Quantitativa, perché nell'ultimo decennio, quello del berlusconismo maturo, la corruzione percepita aumenta drasticamente. Ma c'è anche un'evoluzione dal punto di vista qualitativo. Tangentopoli era un sistema di corruzione basato su regole precise di spartizione, che si reggeva su uno scambio triangolare fra partiti, cartelli di imprese e burocrati. Oggi il sistema della corruzione è più frastagliato. Si sono moltiplicati i soggetti che ricoprono il ruolo di "regolatori" nei diversi centri di spesa pubblica. Possono essere burocrati di alto profilo, come quelli che gestivano gli appalti della Protezione civile, faccendieri ben introdotti, come quelli della P3, boss politici. Che tutto questo coincida con l'era berlusconiana non è sorprendente. Con i provvedimenti ad personam ha smantellato in larga misura il sistema di controllo giudiziario e contribuito in modo decisivo ad alimentare questo clima di tolleranza pubblica e privata impunità. La sua vicenda è emblematica. Da primo beneficiario delle inchieste che colpendo Dc e Psi spalancano lo spazio politico per la sua discesa in campo, a "normalizzatore" del sistema e garante della restaurazione partitocratica in chiave anti-magistrati.

 

Questo governo ha fatto della lotta alla corruzione uno dei suoi refrain mediatici. Perché i provvedimenti del governo Berlusconi a suo parere non sono stati efficaci?

 

Se per lotta alla corruzione si intende il disegno di legge da mesi all'esame delle commissioni parlamentari, siamo in alto mare. È un guazzabuglio di norme, alcune condivisibili, altre di pura facciata. Inasprisce le pene, per sembrare serio. Ma il problema dell'azione giudiziaria di repressione della corruzione, ce lo dicono gli osservatori del Consiglio d'Europa e lo confermano le statistiche giudiziarie, è che la prescrizione vanifica la quasi totalità dei processi. E che effetto deterrente avranno avere pene più severe in processi già su un binario morto? Sul piano della prevenzione siamo messi peggio. L'organismo anticorruzione, il Saet (il Servizio anticorruzione e trasparenza), è alle dirette dipendenze del potere politico e ha una dotazione di risorse irrisoria.

 

A diciott'anni anni da Mani pulite, l'opinione pubblica è diventata maggiorenne?

 

Nell'opinione pubblica si manifesta una schizofrenia. È ancora forte la sensazione che la corruzione sia un problema rilevante, nel 2009 la pensava così l'83 per cento degli italiani. Poi però gli stessi cittadini quando votano contribuiscono a far eleggere compagini di parlamentari, consiglieri e sindaci con una percentuale di pregiudicati, inquisiti e condannati. Pesa la distorsione delle campagne assolutorie che hanno spostato buona parte del pubblico verso una chiave di lettura che finisce per associare all'azione di magistrati politicamente schierati. Da questo punto di vista c'è stata una regressione rispetto agli anni di Mani pulite: più che maggiorenne, parte dell'opinione pubblica è regredita a livelli infantili, crede alle favole.

 

Che rapporto c'è fra rappresentazione dei media e percezione dell'opinione pubblica?

 

Negli anni 90 si registra la massima attenzione dei media verso la corruzione, ma si è scritto molto perché c'era molto da scrivere, lo scenario emerso grazie a Mani pulite non aveva precedenti nella storia delle democrazie occidentali. Nell'ultimo decennio è cresciuto il controllo politico sui media, specie sulla tv, con un effetto distorsivo che inquina gli stessi processi democratici. Si mette la sordina allo scandalo che coinvolge l'amico, si batte la grancassa quando è l'avversario. Così l'opinione pubblica finisce per essere disorientata e le notizie di corruzione non compromettono più la reputazione di chi vi è coinvolto. A scanso di equivoci, bisogna dire che la percezione di una corruzione dilagante testimoniata dagli indici di TI non discende dalla copertura dei media. Per due motivi. Primo, perché il numero di casi di corruzione presentati dai quotidiani è in calo da quindici anni; secondo, perché quegli indici sono costruiti prevalentemente in base alle opinioni di osservatori ed esperti internazionali, meno esposti alle parzialità della stampa nazionale. 

 

Transparency ci colloca fra i paesi in cui la percezione della corruzione è alta. Il risultato è il combinato di alcuni fattori. Quali sono i più significativi?

 

Sono tre i fattori che concorrono a far sprofondare l'Italia nelle classifiche. Il primo è la dimensione dei vantaggi economici. Da noi la corruzione è un'attività che rende molto e per la quale si rischia poco. Meno del 2 per cento dei pochissimi condannati in via definitiva sconta il carcere. Ma i profitti sono altissimi. Ad esempio nei famigerati appalti della Protezione civile, le tangenti permettevano di strappare prezzi superiori del 40-50 per cento a quelli di mercato. C'è poi una dimensione culturale cruciale. Buona parte degli amministratori e degli imprenditori che difettano di etica pubblica, di una coscienza civile e un senso civico che li induca a respingere la corruzione per ragioni morali. E quando si viene presi con le mani nel sacco non c'è neppure lo stigma sociale. Politici e amministratori spesso proseguono la loro carriera. Vale anche per gli imprenditori: Confindustria si guarda bene dall'espellere o anche solo dal sanzionare i propri soci corruttori. E poi c'è un terzo fattore. Gli episodi che emergono sono rappresentativi di una realtà nella quale la corruzione si è fatta sistema, si è strutturata attraverso meccanismi consolidati che dicono ai suoi protagonisti come si suddividono le tangenti, quali sono gli interlocutori affidabili, quali codici linguistici utilizzare, magari pure quali accorgimenti impiegare per minimizzare i rischi. Comunicando attraverso skype, ad esempio, o mimetizzando le tangenti come pagamenti di impalpabili consulenze a società intestate a parenti, o estero su estero in società off-shore, ad esempio. 

 

Recentemente lei ha spiegato che c'è una forma meno visibile di corruzione, quella alimentata dai conflitti di interessi, in Italia. Come funziona?

 

Quella dei conflitti di interesse è una delle forme più insidiose che la corruzione post-Tangentopoli ha assunto di fatto in questi anni. All'ombra del colossale conflitto di interessi del nostro presidente del consiglio si sono moltiplicati anche a livello locale situazioni ambigue, di completa o parziale sovrapposizione tra interessi economici privati e interessi pubblici. A creare questa situazione hanno contribuito anche il drastico ricambio della classe politica che si è realizzato negli anni 90 e la retorica del "nuovismo antipolitico" che l'ha accompagnato. Provenire dalla cosiddetta "trincea del lavoro" era ed è considerato un titolo di merito nella carriera politica. Il problema nasce però nel momento in cui gli interessi economici privati di cui si è portatori, magari camuffati intestando a moglie e figli la ditta di famiglia, non vengono dimenticati quando si prendono decisioni in veste di amministratori pubblici. Nella peggiore delle ipotesi il conflitto d'interessi diventa una corruzione che si smaterializza, e risulta impalpabile. Perché nelle decisioni prese in conflitto di interessi non c'è più uno scambio visibile tra corrotto e corruttore, non ci sono più tangenti che passano di tasca in tasca. Vista la regolazione del conflitti d'interesse adottata in Italia, non c'è neanche un reato da contestare. È come se corrotto e corruttore coincidessero nella medesima persona, dunque non è necessario alcun passaggio di denaro tra i due. Gli esempi si sprecano. Basta fare l'elenco delle decisioni governative che hanno contribuito ad arricchire i bilanci Mediaset, o di qualche altre impresa dell'impero economico del nostro presidente del consiglio.

Daniela Preziosi

2/10/2010

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Roma, 12 maggio 1977

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