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Messaggi del 11/11/2010

Dopo "Vieni via con me" sono d'obbigo alcune considerazioni su un personaggio amato a sinistra, a prescindere!

Post n°4008 pubblicato il 11 Novembre 2010 da cile54

Ma dove va Saviano?

Imbarazzante. Non troviamo altro modo per definire la prestazione fornita da Roberto Saviano lunedì sera a Vieni via con me, il programma ideato con Fabio Fazio su Rai3. Se nei suoi libri aveva già dimostrato di non essere un nuovo Umberto Eco, da lunedì sera sappiamo che non sarà nemmeno il nuovo Marco Paolini. A vederlo abbiamo provato nostalgia per le prediche di un qualunque Celentano, per le intemperanze di un qualsiasi Sgarbi. Persino Gianfranco Funari con il suo trash televisivo ci è mancato. Al cospetto il senso di inadeguatezza dimostrato, i luoghi comuni sciorinati, l'uso sistematico di una memoria selettiva e arrangiata, la pochezza culturale messa in campo suscitavano disagio. Un senso di pena e quasi un moto di rimprovero per chi lo ha trascinato lì. Un monologo melenso di trenta minuti, senza contraddittorio, privo del senso del ritmo, di battute folgoranti, della potenza delle pause, ma accompagnato solo da uno smisurato e pretensioso egocentrismo, sono stati davvero troppi. Forse un posto giusto per Saviano in televisione ci sarebbe pure, magari nel confessionale del Grande fratello o sotto il fresco di una bella palma nell'Isola dei famosi. Perché il livello è quello lì: un derivato speculare dell'era berlusconiana. La lunga serata televisiva era cominciata al mattino sulle pagine di Repubblica, dove Saviano annunciava che avrebbe raccontato il funzionamento della "macchina del fango". Ma il calco televisivo dell'articolo scritto da Giuseppe D'Avanzo a metà ottobre non è riuscito un granché. L'autore di Gomorra piangeva censura. Singolare lamentela per un personaggio che vende centinaia di migliaia di copie con la Mondadori, l'ammiraglia editoriale della famiglia Berlusconi, ha pubblicato l'ultimo libro per la prestigiosa Einaudi diventata una sottomarca sempre della Mondatori, scrive sul secondo quotidiano italiano emanazione di uno dei più potenti e aggressivi gruppi editoriali-finanziari (De Benedetti-Repubblica-Espresso), va in televisione a recitare monologhi nemmeno fosse il presidente della Repubblica, percepisce in cambio un compenso di alcune centinaia di migliaia di euro, cioè l'equivalente di oltre venti anni di salario di un impiegato o di un operaio e di almeno due esistenze di lavoro di un qualsiasi precario. Il vittimismo è proseguito per l'intera serata rivelando la grave mitomania del personaggio che ha utilizzato alcuni spezzoni televisivi del giudice Falcone per parlare, in realtà, di sé. Il transfert era evidente. Saviano ha messo in scena la propria voglia di martirio, manifestazione preoccupante di quella sindrome che gli esperti chiamano di san Sebastiano. Non ha rinunciato poi ad inviare dei segnali politici molto chiari. Per tutta la serata non ha mai citato la parola destra, ovviamente tirando bordate, senza mai nominarlo, contro Berlusconi. Ha invece più volte richiamato le responsabilità della sinistra colpevole di aver lasciato solo Falcone, ucciso poi dalla mafia. In realtà a farlo furono soprattutto gli antesignani del giustizialismo odierno, quegli esponenti della Rete che sospinti dall'anticraxismo criticarono la sua scelta di collaborare col guardasigilli Martelli. Insomma lunedì sera Saviano ha tirato la volata alla destra di san Giuliano, quelle di Fini. I suoi fans di sinistra è ora che se ne facciano una ragione.

 

Paolo Persichetti 

10/11/2010

leggi www.liberazione.it

 
 
 

Anche sulle pari opportunità un quadro sociale preoccupante. La certificazione del modus operandi della politica e dei media

Post n°4007 pubblicato il 11 Novembre 2010 da cile54
Foto di cile54

'L’Italia non è un paese per donne'

 

Non ci voleva certo l’Istat a dimostrare dati alla mano, quanto l’Italia non sia un “Paese per donne”, riprendendo il titolo del celebre romanzo di Mc Carthy. Ma i dati servono e danno un quadro disastroso nella distribuzione dei carichi di lavoro all’interno del tanto santificato “nucleo familiare”. Il 76,2% del lavoro familiare risulta infatti a totale appannaggio femminile- 1,4% in meno rispetto a 5 anni fa – ma comunque di una asimmetria spiazzante, su cui non è possibile trovare giustificazioni di sorta. Una asimmetria trasversale, che tocca tutto il Paese e che si riduce sensibilmente solo nelle coppie al nord in cui non ci sono figli ed entrambi i componenti del nucleo lavorano. Agghiacciante anche la comparazione se si prende in esame il cosiddetto tempo libero: se anche a causa della crisi sia uomini che donne hanno dovuto rinunciare in gran parte a questo bene prezioso, la fotografia di una giornata femminile dovrebbe far drizzare i capelli, coloro che sono occupate dedicano al lavoro retribuito 17 minuti in più esattamente quanto cala quello domestico. Aumenta anche il tempo che gli uomini debbono dedicare al lavoro retribuito, si è passati dalle 5 ore e 44 minuti del 2002/3 alle 6 ore e 19 minuti del 2008/9, diminuisce il tempo libero in maniera ancora più netta e aumentano sia per gli uomini che per le donne i tempi dedicati agli spostamenti verso i luoghi di lavoro, segno di una vita in città impossibili. Scendendo nei dettagli, oltre 9 donne su 10 risultano ancora relegate alla cucina, addirittura il 97,8 per le donne non occupate, la pulizia della casa impegna l’82,7% delle donne occupate e il 94,8% delle non occupate. E gli uomini? Risultano selettivi nel tipo di contributo, laddove selettivo risulta essere un eufemismo. In un giorno medio, fra i partner di donne occupate, il 41,7% cucina, il 31,4% partecipa alle pulizie della casa, il 29,9% fa la spesa, il 26,6% apparecchia e riordina la cucina mentre vere e proprie rarità da collezione sono coloro che stirano e lavano i panni. Ovviamente se la partner non lavora tutte queste percentuali si dimezzano. Che trarre da questi dati? La semplice e ovvia conclusione che i rapporti sociali fondamentali non hanno risentito che poco o nulla dei mutamenti degli ultimi 50 anni, non ne hanno risentito nelle condizioni materiali di vita e di organizzazione della vita familiare. Come se, nonostante la mutazione della società intera, del modo di produzione, della vita quotidiana nei suoi aspetti più minimali, sia rimasta una struttura arcaica e immutabile. Sarebbe un tema di profonda riflessione non solo culturale o sociale ma anche politica, una riflessione che permetterebbe di guardare anche con occhi diversi la crisi che attraversa il modello di produzione capitalista partendo dai suoi gangli fondamentali. Si si tratterebbe di parlare anche alla luce di questi semplici dati per definire il patriarcato e provare a scardinarlo. Ma lo si vuole realmente. E se ci si prova, a smontarne la struttura poi, chi cucina?

10/11/2010

 
 
 

In atto un processo di gestazione post Berlusconi per rinforzare il berlusconismo. Da Fini a Casini, da Bonanni a Marchionne

Post n°4006 pubblicato il 11 Novembre 2010 da cile54

I vescovi fra la "spallata" e l'attesa. Rimpiangendo la Dc

 

«Più di altre volte colgo una vivacità, uno spettro variegato di sensibilità». Così dice monsignor Mariano Crociata, segretario della Cei, all'uscita dall'assemblea dei vescovi. Tradotto in parole povere, vuol dire che dentro l'aula la relazione del cardinale Bagnasco non è bastata a mettere tutti d'accordo. O almeno che l'umore della periferia si rivela più esigente delle sue parole e che "galleggiare" sulla crisi - come aveva detto il presidente Cei riferendosi alla politica - potrebbe essere un danno anche per la Chiesa. Tutto sommato il cardinale non ha voluto dare la spallata finale per buttar giù Berlusconi. «E' l'ora della prudenza», sottolinea l'agenzia episcopale Sir. In realtà, tutti danno per scontato il passaggio di fase. Il problema riguarda il dopo. Su Avvenire, il direttore Marco Tarquinio affonda Fini e la sua nuova creatura bollandola come «ultima evoluzione della destra post fascista» e considerandola inaffidabile per le posizioni sulle coppie omosessuali e per altre «pretese radicalizzanti» «all'insegna del più piacione dei relativismi». E' un alto là al cattolico Casini perché non formi una coppia di fatto con Fini. La lunga ripassata del cardinale Bagnasco sui temi "non negoziabili" era già stata di avvertimento. Crociata sfuma i pur sfumati giudizi di Bagnasco sul comportamento del Cavaliere ma sotto l'ovatta del discorso "pastorale" spunta di nuovo il richiamo a regolare gli «impulsi» con la «volontà e la libertà». Senza «cercare un unico capro espiatorio» perché tutti dobbiamo rispondere delle responsabilità, certo «in diversa misura» e naturalmente «chi sta in primo piano deve avvertire «maggiormente il richiamo». Il giudizio più severo per il governo sta in quell'Italia «inceppata» descritta da Bagnasco. Come mai allora il presidente dell'episcopato non ha presentato ai ministri anche il conto delle inadempienze sul tema caro della famiglia, proprio nel giorno della Conferenza nazionale? Crociata ci risponde che «non è segno di disattenzione»: non è forse di famiglia che si parla quando si mette l'accento sul dramma del lavoro? Ed ecco che il baricentro "familiare" si sposta significativamente dalle questioni "etiche" a quelle concretissime della crisi. Si scopre così che molti vescovi stanno insistendo su tali urgenze. E' questo il polso delle parrocchie e altrettanto lo sono le preoccupazioni, non solo dei meridionali, per un federalismo leghista che spezza il Paese. Gli "umori" si riverberano anche su un'altra questione: la «rappresentatività» del Paese nelle istituzioni, vale a dire la necessità di una riforma della legge elettorale. Crociata, un po' sotto traccia, rimanda a quanto scaturito al riguardo dalla recente "Settimana sociale dei cattolici". I fedeli devono fare politica: tutti concordano. Si sta già studiando come riorganizzare le scuole di formazione diocesi per diocesi. Ma quanto potrà reggere ancora l'ipotesi di un'unità politica dei cattolici dispersi nella diaspora tra i vari partiti senza che si riaffacci il sogno di un nuovo balenottero bianco alla vecchia maniera? Del resto è questo il progetto di Casini e dell'Udc. Perciò, come minimo, sarà bene non dare l'impressione che gli unici politici cattolici degni di copertura siano quelli ancora da allevare in batteria. E si spiega la ragione del lungo discorso che Bagnasco ha dedicato appunto alla nuova maturità e al «realismo» di cui danno prova diversi cattolici da tempo impegnati nell'agone. Insomma, i vescovi mica potranno scaricare i democristiani per ritrovarsi, ieri, con Berlusconi e, domani, con Fini.

Fulvio Fania

10/10/2010

leggi www.liberazione.it

 
 
 

Da un piccolo paese della provincia profonda del centro Italia una denuncia dello stravolgimento bipartizan della storia

Post n°4005 pubblicato il 11 Novembre 2010 da cile54

Membri di Gladio chiamati a fare lezione di storia!

La storia la scrivono i vincitori, si sa. A volte, viene da dire, non c'è limite alla spudoratezza. Leggiamo infatti con tanta rabbia e un pizzico di sconcerto che a Nonantola un ex membro dell'organizzazione segreta golpista Gladio, tale Emilio Bertoni, terrà una conferenza su "L'Italia, i comunisti, la Nato", in un'iniziativa patrocinata dal Comune di centro-sinistra e dall'Istituto storico della Resistenza (povera Resistenza!).

Gladio è stata un'organizzazione militare segreta - ma nota ai vertici politici democristiani - anticomunista ed antioperaia, nata nel dopoguerra come strumento violento per stroncare le lotte dei lavoratori per la loro emancipazione. Andreotti ne rivelò l'esistenza nel 1990 perché, purtroppo, si sentiva sicuro di aver vinto, almeno temporaneamente, la battaglia. Il terrorista nero Vinciguerra ne aveva parlato al giudice Casson già nel 1984, prefigurando il coinvolgimento di Gladio anche nella cosiddetta strategia della tensione inaugurata nel 1969 con le bombe a Piazza Fontana.

Cosa racconterà Bertoni domani sera? Racconterà forse come si effettuavano al Centro Addestramento Guastatori di Capo Marrargiu "corsi di addestramento alla guerriglia, al sabotaggio, all'uso degli esplosivi al fine di impiegare le persone addestrate in caso di sovvertimenti di piazza, in caso che il Pci avesse preso il potere", come dichiarò Luigi Tagliamonte, l'ex capo dell'ufficio amministrazione del Sifar? Oppure racconterà il ruolo di Gladio nel corso della strategia della tensione e nei 55 giorni del sequestro Moro? Oppure racconterà che cos'era l'organizzazione "O", costituita dagli ex partigiani friulani della Osoppo, pronti a fare fronte unico anticomunista con la Decima Mas durante la Resistenza e poi nel 1945 subito agli ordini del nuovo padrone, ovvero la Cia?

Invitare ex membri di Gladio a tenere lezioni su guerra fredda, Nato e comunismo è una vergogna. Comune di Nonantola e Istituto storico della Resistenza farebbero bene ad annullare l'iniziativa e chiedere scusa alla cittadinanza. Noi non assisteremo silenti all'ennesima partita di galateo, da vent'anni sempre più frequente tra destra e sinistra riformista e liberale, in nome della pacificazione nazionale.

Ridurre la storia ad un'unica melassa gradita alle istituzioni e trasmessa ai giovani come dogma non è una questione accademica. L'attacco alla classe lavoratrice è fatto anche della distruzione della memoria delle lotte operaie e della riscrittura della storia sdoganando fascisti e golpisti. Lo ricordava bene, alcuni anni fa, Wu Ming, nella postfazione di "Asce di guerra": «Nulla di nuovo, lo scriveva già Walter Benjamin: "In ogni epoca bisogna tentare di strappare la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla [...] Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall'idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"».

Circolo "Gramsci" Rifondazione Comunista di Modena

10/11/2010

 
 
 

La redazione di Lavoro e Salute partecipa al ricordo di un uomo di legge a fianco dei lavoratori, deceduto di recente

Post n°4004 pubblicato il 11 Novembre 2010 da cile54

Addio Prof. Roccella, i lavoratori sono ancora più soli!

 

Da giovedì 4 novembre, i lavoratori italiani non hanno più, al loro fianco, Massimo Roccella; tra i più autorevoli giuslavoristi e convinto sostenitore delle ragioni del mondo del lavoro.

Lavoro e lavoratori tenacemente difesi e sostenuti anche attraverso un suo breve articolo: “Collegato lavoro, ingiustizia è fatta”; pubblicato da “Il Manifesto” il 21 ottobre u.s.

Personalmente, voglio rendergli omaggio riproponendo, al meglio possibile, le valutazioni che esprimeva rispetto al testo del ddl appena approvato, in via definitiva, alla Camera.  

In coerenza alle valutazioni che ne avevano caratterizzate le posizioni espresse in passato, Roccella sosteneva che il ddl, di là di qualche lieve miglioramento, continuava a rappresentare il tentativo di: a) delimitare e comprimere lo spazio di azione della giurisdizione ordinaria; b) rendere più difficile ai lavoratori la possibilità di far valere i propri diritti.

A suo parere, la nuova disciplina della certificazione dei contratti di lavoro, contrariamente a quanto paventato, si sarebbe - concretamente - rivelata molto meno pericolosa; perché niente potrà impedire a un giudice di considerare nulle eventuali clausole contrastanti con norme inderogabili di legge e contratto collettivo. 

Così come considerava significativamente ridimensionata - rispetto alle “destabilizzanti” intenzioni iniziali - la nuova disciplina dell’arbitrato (di equità).

L’aver sottratto alla c.d. “clausola compromissoria” le controversie in materia di licenziamento, insieme all’obbligo - per il collegio arbitrale - di giudicare nel rispetto dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari, rappresentava, a suo avviso, il depotenziamento dell’iniziale intenzione del Legislatore nazionale: rendere “disponibili” alle parti - attraverso l’arbitrato - diritti e norme altrimenti “inderogabili”.

Certamente condivisibile la sua posizione rispetto ai tempi di stipula della clausola compromissoria. Non era stato sufficiente, a suo parere, stabilire che la suddetta clausola non potesse essere siglata prima della conclusione del c.d. “periodo di prova”, oppure almeno trenta giorni dopo la stipula del contratto di assunzione, per sostenere che fosse venuto meno il carattere sostanzialmente obbligatorio dell’arbitrato!

Naturalmente, affatto negativo era il suo giudizio circa i tempi (ristrettissimi) previsti per contestare la legittimità della cessazione del proprio rapporto di lavoro; soprattutto per i lavoratori a termine, interinali e a progetto, che, come (purtroppo) noto, nella speranza di essere “richiamati”, sono restii a opporre, in tempo brevi, azioni di rivalsa.

La norma del ddl ritenuta dal Prof. Roccella più odiosa e assurdamente “punitiva”, nei confronti dei lavoratori, era rappresentata però, dalla sostanziale “forfetizzazione” del danno da riconoscere a un dipendente al quale riconoscere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro.

Infatti, secondo quanto disposto dal ddl 1481, d’ora in avanti, il risarcimento del danno per l’illegittima cessazione del rapporto di lavoro andrà liquidato fra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità di retribuzione. Non sarà quindi più possibile, per il futuro, ottenere - oltre alla conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro - il risarcimento integrale del danno.

L’illustre studioso concludeva il suo articolo con un duplice auspicio.

L’uno, rivolto a Cgil/Cisl/Uil e Confindustria, relativo alla possibilità di avvio di una nuova stagione “partecipata”; l’altro destinato ai rappresentanti dell’opposizione.

All’opposizione e, per essa, al Pd, Roccella indicava la strada della coerenza; nel senso che, alla contestazione dei contenuti, dovesse seguire - in sede di stesura del prossimo programma elettorale - l’impegno ad abrogare le norme previste dal ddl in esame.

Personalmente - alla luce di quanto verificatosi alla Camera e al Senato, nell’arco delle ben sette “letture” del ddl - questa seconda ipotesi la reputo dettata da un eccesso di (benevolo) ottimismo del Prof. Roccella.

E’, infatti, noto, che il ruolo delle opposizioni, del Pd in particolare, è stato affatto inconcludente; anzi, in qualche occasione ha finito per offrire veri e propri assist alle posizioni della maggioranza.

In questo senso, la dichiarazione di voto di Pietro Ichino per il gruppo Pd - in sede di seconda lettura del ddl al Senato, in data 2 marzo 2010 - è semplicemente stupefacente!

In estrema sintesi, i punti del ddl contestato furono:

1)         Una “retromarcia”, rispetto alla riforma della P.A.

2)         La scelta “rinunciataria” di abbassare di nuovo l’età dell’obbligo scolastico.

3)         La possibilità di compromettere in arbitri le controversie nel pubblico impiego.

4)         La possibilità di far rientrare nell’arbitrato (privato) diritti inderogabili.

5)         L’eccessiva discrezionalità offerta al giudice in tema di scelte imprenditoriali.

6)         La volontà di ulteriormente sanzionare le aziende colpevoli d’illegittima apposizione del termine nei contratti a tempo determinato.

Evidentemente, non una sola parola rispetto alla (sostanziale) obbligatorietà della “clausola compromissoria” e ai suoi pericolosi contenuti, ai tempi ristrettissimi per contestare i licenziamenti, all’iniqua “forfetizzazione” del danno e a ogni altro elemento di ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori.

Anzi, è appena il caso di rilevare che Ichino, esponente di quello stesso partito che afferma di avere “il lavoro” al centro della propria agenda politica, esercitava la dichiarazione di voto per (sostanzialmente) suggerire alla maggioranza di governo di “contenere” le prerogative del giudice del lavoro.

In più - da buon “aziendalista”, al fine di sottacere l’ennesimo provvedimento a danno dei lavoratori - Ichino fingeva di non rendersi conto delle reali conseguenze della norma adottata in tema di contratti a termine, accusando, addirittura, il governo di voler ulteriormente sanzionare le aziende, piuttosto che ridurre le (legittime) aspettative dei lavoratori!

In questo quadro, purtroppo, senza la disponibilità, le competenze e la passione di Massimo Roccella,  tutto sarà più triste e difficile da realizzare.

Renato Fioretti

collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

 
 
 
 

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Roma, 12 maggio 1977

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