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Messaggi del 12/02/2011

Il governo non smentisce l'accordo. Facebook è nuovamente sotto accusa anche per questioni legate alla privacy

Post n°4344 pubblicato il 12 Febbraio 2011 da cile54

Le mani della polizia su Facebook

   

Un accordo tra la polizia postale italiana e la centrale operativa di Facebook, in California, per ottenere rapidamente i dati degli utenti che vìolano le leggi italiani senza passare dalla magistratura. Questo è quello che denunciava L'Espresso lo scorso ottobre. Soltanto questa settimana, su interrogazione dell'Italia dei Valori, il governo ha risposto sulla questione attraverso il ministro Elio Vito, il quale ha lanciato un messaggio contradditorio: l'accordo, dice Vito, «non consente in alcun caso di accedere illegalmente ai profili e ai dati riservati degli utenti italiani, senza specifici provvedimenti dell'autorità giudiziaria» poiché è necessaria sempre una rogatoria internazionale per poter acquisire i dati custoditi dal social network di Palo Alto. Nella stessa risposta, però, Vito afferma anche «da diverso tempo la Polizia postale ha avviato proficui contatti con i rappresentanti di Facebook, rendendo così possibile ottenere i dati relativi agli utenti o ai gruppi, senza la necessità di ricorrere alla rogatoria internazionale» ma attivando un canale preferenziale concordato, a quanto pare sempre su attivazione dei giudici.

La polizia postale interviene soprattutto nei casi di furto di identità a danno di personaggi famosi, ma anche per reati più consistenti come il phishing. Finora in Italia nessuno è mai stato condannato per reati commessi sul social network creato da Marc Zuckerberg.

Athos Gualazzi, presidente del Partito Pirata ed esperto conoscitore della rete, non si fida delle rassicurazioni di Vito: «Si tratta della parola di un ministro che appartiene ad un governo ormai senza credibilità».

Gualazzi invita a non usare Facebook, e non soltanto per non incappare nelle indagini della polizia postale: «Nella mentalità corrente è entrata l'idea che non abbiamo nulla da nascondere e dunque pubblichiamo nel social network pezzi della nostra vita che poi vengono utilizzati dal sito per fare indebite indagini di mercato e bombardarci di pubblicità».

Nell'assenza di regolamentazione della rete, conclude il dirigente dei "pirati", dovrebbero valere le leggi ordinarie: «E invece spesso si compiono abusi come l'apertura delle mail senza che l'utente lo sappia e comunque senza alcuna motivazione valida. La segretezza della corrispondenza è tutelata dalla Costituzione».

Nel sito che conta ormai mezzo miliardo di profili è possibile commettere reati per nulla virtuali: diffamazione, furto di identità, trattamento illecito di dati personali e intrusione. La diffamazione scatta quando vengono pubblicate notizie che ledono la reputazione di qualcuno, e si rischia una pena alternativa al carcere da sei mesi a tre anni. La condanna per aver aperto un profilo utilizzando il nome di un personaggio famoso non è automatica: la magistratura deve dimostrare che non si tratta di uno scherzo bensì di uno strumento per ottenere un qualche vantaggio - economico, magari. In California, su questo punto, la legislazione è più feroce: la giustizia non fa distinzione tra burloni e ladri veri e propri, condanna entrambe le categorie senza troppe sottigliezze.

Tornando in Italia, per la prima volta un giudice ha considerato lo stalking virtuale e nelle scorse settimane ha imposto ad un ragazzo non soltanto di tenersi lontano dalla ex ragazza, ma anche di non importunarla nel social network.

In questi giorni Facebook è nuovamente sotto accusa anche per questioni legate alle nuove impostazioni sulla privacy. Il social network, infatti, ha fatto sapere agli sviluppatori di software come Farmville e altre applicazioni che potranno acquisire l'indirizzo di residenza e il numero di cellulare degli utenti che si iscrivono a tali applicazioni.

Dopo la denuncia di due deputati statunitensi, Zuckerberg ha fatto marcia indietro ma le insidie naturalmente non sono finite e il giovane miliardario non si fermerà certo di fronte alle proteste pur di continuare a vendere dati degli utenti.

 

Laura Eduati

11/02/2011

Leggi www.liberazione.it

 
 
 

Questo individuo è in rotta di collisione con le istituzioni dello Stato democratico. Quindi è un'eversore!

Post n°4343 pubblicato il 12 Febbraio 2011 da cile54

Se B. si dichiara prigioniero politico

 

Secondo un antico aforisma romano “Quos Deus vult perdere dementat prius”: quelli che Dio vuole perdere, prima li fa uscire di senno.

Nessuna metafora potrebbe essere più adeguata alle esplosioni di collera di Berlusconi che, non avendo mai rispettato il galateo istituzionale, negli ultimi due giorni si è messo a sparare ad alzo zero contro l'esercizio della giurisdizione, utilizzando espressioni che superano in livore quelle adoperate a suo tempo dalle brigate rosse contro i giudici che “perseguitavano” i terroristi.

 

Accusando i Pubblici Ministeri di essere “un'avanguardia rivoluzionaria” e di aver intrapreso un “golpe morale” contro di lui con inchieste “degne della DDR”, Berlusconi in pratica si è dichiarato “prigioniero politico” ed ha disconosciuto l'autorità della giurisdizione se esercitata – come prevede la Costituzione – in modo indipendente dal potere politico.

 

Questa è una dichiarazione di guerra allo Stato che, quando proviene da gruppi armati (come nella stagione del terrorismo), è un atto insurrezionale; quando proviene da chi si trova al vertice del potere esecutivo è – in senso tecnico-giuridico – un atto eversivo.

 

Ciò in quanto radica un conflitto che spacca l'unità dell'ordinamento nel quale è iscritto il principio della divisione dei poteri e della sottoposizione di tutti i cittadini, massimamente coloro che esercitano poteri pubblici, all'obbligo di rispettare quelle regole di civiltà e di convivenza che sono alla base della legge penale.

 

In questa situazione è diventato evidente, anche per quelli che per anni non hanno voluto vedere, che il Capo politico che ci governa è in rotta di collisione con le istituzioni dello Stato democratico.

 

E' uno scontro che non consente alcun tipo di mediazione, per cui o vinceranno le istituzioni democratiche e Silvio Berlusconi dovrà rispondere dei suoi guai con la giustizia come ogni altro cittadino, oppure le istituzioni democratiche saranno travolte.

 

Nella “Costituzione di Arcore”, che si delinea sullo sfondo del progetto politico del Pdl e mira a trasformare la Repubblica in un Sultanato, la persona di Silvio Berlusconi è sacra ed inviolabile, per cui i magistrati che volessero procedere contro di lui sarebbero puniti per oltraggio al sovrano, come già adesso si minaccia di fare.

 

E' questa la sostanza dell'emergenza democratica in atto nel nostro paese.

 

Né la crisi della democrazia in Italia è meno grave per l'attitudine a trasformarla in farsa. Quando un Ministro degli Esteri minaccia di fare causa allo Stato italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per la violazione della privacy del Presidente del Consiglio, l'unica osservazione che si può fare è quella di richiamare un vecchio slogan del ‘68: una risata vi seppellirà!

 

Tuttavia, malgrado questi segni evidenti di squilibrio di Berlusconi e del suo entourage, la situazione non si risolverà da sola. Anzi, in questi giorni si sta provando davanti al Tribunale di Milano la scena finale del Caimano, l'attacco del “popolo” ai palazzi della giustizia per il definitivo regolamento di conti con lo Stato di diritto.

 

Questa scena finale, che – come un incubo – si affaccia nel nostro subconscio da alcuni anni, può essere sventata. Può essere scritto un altro finale.

 

La democrazia italiana non è costruita sulla sabbia, il sangue versato nella Resistenza non è stato versato invano. E' proprio nei periodi più oscuri, quando tutto sembra perduto, che possono venire fuori delle energie insospettate. In questo momento l'Italia ferve di iniziative di mobilitazione, milioni di donne e di uomini scenderanno in piazza fra sabato e domenica in tutte le città italiane e all'estero per testimoniare che un'altra Italia è possibile, che è possibile riunirsi in un supremo sforzo per arrestare il declino e ristabilire le condizioni di dignità, onore, cultura e libertà nel nostro Paese.

 

Domenico Gallo

11 febbraio 2011

Da Micromega.it

 
 
 

Quello delle badanti straniere non è un fenomeno nuovo, la mancanza di memoria degli italiani aiuta il razzismo

Post n°4342 pubblicato il 12 Febbraio 2011 da cile54
Foto di cile54

CHE SENSO HA PARLARE DI BADANTI?

Quando si parla di donne straniere in Italia, quella della “badante” sembra essere una delle poche immagini disponibili (assieme al suo contraltare: la prostituta). Non passa giorno che non venga dedicato almeno un titoletto a vicende che la riguardino. Il famigerato clickday 2011 consentirà quest'anno l'ingresso in Italia a 30mila “colf & badanti”, un numero considerevole, benché inferiore alle reali necessità. E sicuramente grande attenzione hanno ricevuto le ultime regolarizzazioni del settore: nel 2002, con 340mila permessi, e nel 2009, con 295mila domande presentate(1).

A fronte di tanta attenzione mediatica è importante, per chi è sensibile alle questioni di genere e al tema della migrazione, discutere di cosa veramente significhi “parlare di badanti” e interrogarsi sul perché le loro storie debbano continuare ad interessarci.

La risposta, si dirà, sta nella “novità” che rappresenta per la realtà italiana l'impiego di donne, in particolare straniere, nel lavoro domestico e di cura. Questa ipotesi, tuttavia, non fa altro che distogliere l'attenzione dal vero problema. Al contrario di quel che comunemente si pensa, ci troviamo di fronte ad un fenomeno in forte linea di continuità con il passato. La percentuale di lavoratrici del settore non è particolarmente cresciuta nell'arco dell'ultimo secolo: il personale domestico ufficialmente registrato si attestava a 500mila unità nel 1880 e ben 560mila nel 1936, in confronto alle 470mila di oggi. Il loro numero scese nel dopoguerra, ma bisognò aspettare il 2001 perché le cifre si attestassero di nuovo al livello degli anni '30 (in R. Catanzaro & A. Colombo, Badanti & Co., Il Mulino 2009).

Non ci troviamo neanche di fronte ad un elemento del tutto nuovo per il fatto che le domestiche siano donne straniere. Difatti, storicamente, assieme a donne di origine rurale o provenienti dalle regioni più povere, fra i ranghi di queste lavoratrici si trovava un cospicuo numero di tedesche, austriache, spagnole o jugoslave (ibidem.). Piuttosto, è il fatto che esse non si siano stabilite definitivamente in Italia ad aver fatto perdere memoria della loro presenza. A queste sono seguite, negli anni '60 e '70, eritree, filippine e capoverdiane che rappresentano le vere pioniere dell'immigrazione femminile extra-europea in Italia.

Quindi, se non è vero che non c'è stato, nel lungo periodo, un boom in termini assoluti nell'impiego di personale domestico e che la figura della domestica come “la straniera” non è neanche un forte elemento di novità, che cos'è che c'interessa e ci spinge, ancora una volta, a “parlare di badanti”?

Tale interesse va spiegato, a mio avviso, in riferimento al ruolo che ha nel nostro immaginario la figura sterotipizzata della “donna-immigrata-badante”, diventata ormai un'icona che, al di là del suo valore descrittivo, ha la capacità di andare a toccare la realtà socio-culturale dell'Italia contemporanea nei suoi punti dolenti.

Questi possono essere brevemente elencati, innanzitutto, col riferimento alle carenze del welfare italiano e all'incapacità del nostro sistema politico di prendere seriamente in considerazione le necessità di una società che invecchia, si ammala e si riproduce. A fronte di tali carenze, l'unica soluzione finora trovata è l'inclusione strumentale di soggetti esterni che, per avere il permesso di vivere e lavorare in Italia, accettano una condizione di “cittadinanza parziale” (Parreñas 2000) in cui molti sono i doveri e pochi i diritti(2). Un'importante conseguenza di ciò sta nel fatto che, per la presenza di queste persone nelle proprie case, le famiglie italiane sono obbligate a confrontarsi quotidianamente con una condizione di assenza di diritto, mancanza di protezione e, spesso, illegalità. Ci troviamo di fronte ad un elemento di forte novità, a mio parere, le cui ripercussioni sul nostro modo d'intessere relazioni pseudo-familiari, lavorative e di vicinato sarebbe interessante oggetto d'analisi.

Il secondo elemento da sottolineare è come il “parlare di badanti” chiami in gioco la questione del confronto, altrettanto ravvicinato e costante, con comportamenti di genere fra loro diversi. Volenti o nolenti, le lavoratrici domestiche migranti spesso incarnano modelli di femminilità che mettono in discussione le concezioni predominanti in Italia riguardo all'emancipazione delle donne, al loro successo personale e, soprattutto, alla maternità. Il confronto diventa dirompente di fronte alle cosiddette “madri transnazionali” in quanto donne che perseguono un modello di genitorialità “a distanza” basato su valori e pratiche di accudimento di carattere diverso, se non opposto, a quelli sui si fonda la società italiana in questo momento storico.  La spesso lamentata “inconcepibilità” delle scelte operate da queste madri, ben rappresenta il conflitto fra di essi.

Da ultimo, l'esperienza di queste donne apre una finestra su di una situazione incredibilmente stimolante dal punto di vista del genere: un rapporto ravvicinato, quotidiano - “intimo” si direbbe - fra donne diverse per classe, “razza”, religione, lingua e, soprattutto, fra donne che sono in una chiara gerarchia di potere. In tal senso, l'icona-badante rimanda alle possibili modalità di articolazione di tale relazione: maternalismo piuttosto che dipendenza, competizione e conflitto, autoritarismo, ecc. In quest'ottica, “parlare di badanti” significa spesso per molte donne italiane, proprio quelle che hanno scelto di lavorare “fuori casa”, parlare di come gestire il proprio potere su colei che, nelle loro case, è alla prese con quel lavoro fisico ed emotivo, di cura e pulizia, di cui pensavano di essersi liberate(3). Come dire: il problema uscito dalla porta, rientra dalla finestra.

 

di Sabrina Marchetti

(1) Di queste, 246mila sono state finora accettate (dati provvisori Ministero degli Interni, dicembre 2010).

(2) A tal proposito si veda il recente volume curato da Raffaella Sarti “Lavoro domestico e di cura: quali diritti?” Ediesse 2010.

(3) Per una discussione approfondita di questo punto si veda Sabrina Marchetti, “Le donne delle donne”, DWF, 1-2 (2004): 68-98 online su www.sguardisulledifferenze.org/wp…/

 
 
 

I servizi sociali sono stati pesantemente penalizzati dai tagli di spesa di questo governo di malfattori

Post n°4341 pubblicato il 12 Febbraio 2011 da cile54

I TAGLI CHE NON FANNO RUMORE

 

I servizi sociali sono stati pesantemente penalizzati dai tagli di spesa. Ma nessuno ne parla. Persino sull'azzeramento del Fondo per la non autosufficienza, le reazioni sono state modeste anche da parte di sindacati, associazioni del terzo settore e comuni. Il governo punta a disimpegnarsi dal welfare dei servizi, mentre mantiene salda la gestione del welfare monetario, un insieme di misure poco efficienti, che assorbono gran parte della spesa sociale. Urgente una riforma complessiva della spesa e dei servizi sociali.

I servizi sociali sono stati pesantemente penalizzati dai tagli di spesa. Come fare a rispondere a bisogni crescenti con risorse che diminuiscono?Èuna domanda divenuta centrale per Regioni ed enti locali, soprattutto dove è netto il contrasto tra riduzioni in corso e bisogni in aumento, come nel caso degli anziani non autosufficienti.

 

IL SILENZIO DI TUTTI

Colpisce il silenzio che regna intorno a questi tagli. Rispetto ad altri ambiti di policy e anche ad altri paesi, la comunicazione pubblica sul welfare dei servizi è molto carente e frammentaria. Quello dei tagli di spesa sembra essere un tema troppo tecnico per essere affrontato dai media nazionali. Oppure talmente delicato da rinviare a questioni più generali da trattare in chiave politica. E ideologica. Non c'è stato un vero dibattito sui tagli possibili: in quale modo esercitarli, chi preservare dalle scelte più difficili, che cosa mantenere e che cosa sacrificare.

Persino ex post, sull’azzeramento del Fondo per la non autosufficienza, 400 milioni di euro che vengono a mancare da quest’anno, le reazioni sono state a dir poco modeste da parte di sindacati, associazioni del terzo settore e soprattutto rappresentanza dei comuni. Sono loro infatti che più di tutti pagheranno il taglio, perché prevalenti beneficiari di un fondo a destinazione sociale, che l’anno scorso ha rappresentato un quarto della loro spesa sociale per la terza età. (1)

 

I TAGLI

L’unico “successo” si è registrato per il non profit, con i fondi in parte ripristinati sul 5 per mille. Per il resto il panorama è desolante. A partire dal Fondo nazionale per le politiche sociali, un po’ il padre di tutti i fondi per il sociale, nato tre anni prima della legge 328/00 e quest’anno ridotto a 275 milioni di euro: erano più del triplo solo tre anni fa. E che dire del Fondo per la famiglia, passato dai 185 milioni dell’anno scorso a 51? Avrebbe dovuto dare le gambe al lungo elenco di propositi emerso nella Conferenza nazionale di Milano dell’8-10 novembre 2010: ora sappiamo che quelle intenzioni rimarranno in larga misura tali.

 

Principali fondi statali a carattere sociale (milioni di euro) rispettivamente per gli anni 2008, 2009, 2010 e 2011

Fondo nazionale politiche sociali: 929,3 583,9 453,3 275

Fondo politiche per la famiglia: 346,5 186 185,3 52,5

Fondo per la non autosufficienza: 300 400 400 0 begin_of_the_skype_highlighting              300 400 400 0      end_of_the_skype_highlighting

Fondo per le politiche giovanili: 137,4 79,8 94,1 32,9

Fondo servizi per l’infanzia-Piano Nidi: 100 100 0 0

Fondo sociale per l’affitto: 205,6 161,1 143,8 33,5

Fondo per il servizio civile: 299,6 171,4 170,3 113

Fonte: A. Misiani, Finanziaria 2011: fine delle politiche sociali? e legge di stabilità 2011.

 

Cresce poi il numero dei fondi letteralmente svuotati: dopo il Piano straordinario per i nidi è toccato al Fondo per la non autosufficienza. Altri, come quello per gli affitti, sono ridotti a una cifra simbolica: giovani coppie e famiglie in crisi potranno sperare quasi soltanto negli aiuti che Regioni e comuni, in ordine molto sparso, hanno deciso di mantenere. Mentre le riduzioni sul servizio civile rischiano di mortificare un’esperienza il cui valore è riconosciuto a livello europeo. Nel complesso, se nel 2008 per i principali fondi sociali lo stanziamento superava i due miliardi di euro, quest’anno siamo a meno di un quarto (vedi tabella).

E le prestazioni monetarie? I tagli colpiscono la rete dei servizi, il livello territoriale. Prestazioni gestite a livello nazionale, preponderanti in termini di spesa, non sono state minimamente sfiorate da alcuna ipotesi di riforma. Valga per tutti l’esempio dell’indennità di accompagnamento: una misura granitica per cui verranno spesi quest’anno tredici miliardi di euro. Tutti i servizi sociali dei comuni italiani costano la metà di questa sola misura: 6,6 miliardi nel 2008 secondo l’Istat.

Il messaggio che il governo manda è esplicito: ci disimpegniamo dal welfare dei servizi, mentre manteniamo salda la gestione del welfare monetario, quello che riguarda i vari assegni familiari, per l’assistenza e l’invalidità. Un insieme di misure ingessate, poco efficienti e perequative, che assorbono i quattro quinti della nostra spesa sociale.

 

COSA (NON) SI FA PER LA NON AUTOSUFFICIENZA

La forbice tra domanda di aiuti e risorse disponibili si allarga particolarmente per i non autosufficienti. Per loro oggi l’offerta di assistenza poggia essenzialmente su due colonne portanti.

Da una parte, la rete dei servizi domiciliari, residenziali e intermedi, che Regioni ed enti locali governano e producono. Per mantenere e sviluppare questa rete, ancora sotto-dotata rispetto a molti paesi europei, le Regioni dovranno sempre più attingere risorse dalla sanità e dal socio-sanitario, che presentano disponibilità ben maggiori del sociale. (2) Con il rischio di “sanitarizzare” l’assistenza, di spostarla verso le situazioni più gravi e di ridurne i contenuti più propriamente sociali, di accompagnamento, promozionali, preventivi, ambientali, di comunità.

Dall’altra, un’erogazione monetaria nata trent’anni fa e da allora mai migliorata, l’indennità di accompagnamento, insensibile alle condizioni economiche di chi la percepisce e priva di alcun vincolo di utilizzo, quindi votata a essere la fonte primaria del welfare fai-da-te, quello del mercato sommerso delle assistenti familiari.

Serve una vera ristrutturazione della spesa sociale: per riformare le erogazioni monetarie nazionali di tipo sociale, superandone i crescenti limiti; per rafforzare un sistema dei servizi penalizzato in Italia a favore dei trasferimenti economici; per qualificare in modo non episodico il lavoro privato di cura. Non c’è bisogno della bacchetta magica, serve una visione di sistema, l’intenzione di cambiare e la capacità di scegliere.

 

(1)Sui servizi per gli anziani cfr. Network Non Autosufficienza (a cura di), L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. Secondo Rapporto, Maggioli Editore, 2010.

(2)I Fondi regionali per la non autosufficienza già oggi attingono risorse dalla sanità. L’Emilia Romagna per esempio ha stanziato 487 milioni di euro per il 2010 di cui 307 provengono dal Fondo sanitario regionale. 

 

Sergio Pasquinelli

(lavoce.info)

11/02/2011

 
 
 
 

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(Gianni Rodari)

 

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