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Noi e la Chiesa - 2

Post n°89 pubblicato il 30 Maggio 2008 da Giles2004
 

UN CONTRIBUTO CRITICO


AL POST PUBBLICATO NEL BLOG "SPLENDORE DI DIO" http://blog.libero.it/amorediCristo/4777283.html


2. OBBEDIRE ALLA CHIESA, OBBEDIRE ALLA COSCIENZA

Il Movimento della Speranza nasce dalla manifestazione dei Figli di Luce e di tutte quelle anime che dall’altra dimensione ci attestano la sopravvivenza e la vita eterna. La rivelazione scende a noi per mezzo di un canale nuovo e diverso; conferma, però, in pieno e completo la rivelazione che ci è venuta dai Profeti e dal Cristo e dai suoi Apostoli.
Era necessaria questa nuova manifestazione? Le antiche non erano sufficienti? Direi che forse quel che noi avevamo per fede aveva bisogno, come dire, di una rinfrescata: di una convalida per via di esperienza.
Non si tratta, poi, di una mera conferma, sibbene di una estensione. Dell’altra dimensione noi apprendiamo veramente qualcosa di più. Da una fede nell’aldilà noi passiamo, in certo modo, a una scienza dell’aldilà, a una conoscenza sperimentale e organica.
Certo, è una scienza che muove i primi passi, talmente misteriosa ne è la materia. Sia pure con tutte le riserve che è prudente formulare, possiamo dire che oggi l’aldilà è oggetto di seria indagine, i cui dati vengono confrontati e valutati come in ogni altra branca del sapere.
Bisognava limitarsi a credere? Gesù stesso dice a Tommaso: “Perché mi hai veduto hai creduto? Beati quelli che credono senza aver visto!” (Gv. 20, 29). Ma si tratta di un vero argomento contro la scienza?
Ho chiesto qualche lume allo Spirito Santo e, riflettendoci meglio, penso che Gesù volesse sottolineare che è necessario credere e affidarci a Dio nella massima spontaneità, senza esigere tante prove e controprove, che inibiscono l’atto di fede, o almeno lo impacciano. Il sapiente di questo mondo rimane svantaggiato di fronte a chi procede con la semplicità del fanciullo. Per la necessaria prontezza dell’atto di affidamento starci a pensare troppo sembra costituire una sorta di palla al piede.
Che ne è, allora, dell’esperienza? che ne è della visione? Appartiene alla condizione dell’uomo nel regno di Dio. Lì tutto quel che è nascosto verrà manifestato e tutto quel che è segreto verrà in luce (Mc. 4, 22). Lì vedremo faccia a faccia quel che ora solo scorgiamo come in uno specchio e in un’ombra (1 Cor. 13, 12).
Ma questo regno di Dio verrà solo alla fine dei tempi o forse non porrà certe sue premesse, non manifesterà certe sue primizie già nel corso della storia degli uomini?
Altra domanda: il regno di Dio ci verrà solo e unicamente per grazia divina o potremo noi stessi, creature umane, fare qualcosa per aiutarne l’avvento? Dovremo ridurci a meritare il regno di Dio come un premio offerto in dono o forse potremo anche noi dare una mano a costruirlo?
Il Cristo non si cura di sviluppare il discorso umanistico, il discorso di come noi possiamo cooperare con Dio alla creazione. Egli sottolinea che l’iniziativa sovrana appartiene al Padre celeste, cui dobbiamo affidarci.
Lo afferma con tanta più energia, quanto più i farisei sopravvalutavano l’importanza delle opere umane ai fini della salvezza spirituale. Quali opere? Soprattutto prescrizioni rituali minute, che avrebbero quasi avuto il potere di vincolare l’iniziativa divina: quell’iniziativa sovrana di Dio che è, invece, del tutto libera e gratuita.
Gesù non ci ha lasciato un sistema di teologia completo nelle sue parti. Ha sottolineato l’importanza e l’urgenza delle cose più essenziali. Non si è interessato all’aspetto umanistico. Non si è occupato né della scienza, né dell’arte. Ma che l’umanesimo e quindi la scienza, l’arte, la tecnologia, l’iniziativa politico-sociale siano valori più che affermati, più che ribaditi nella tradizione sia precedente dell’ebraismo, sia successiva della Chiesa cristiana attraverso i secoli, non c’è alcun dubbio.
La manifestazione dei giovani di luce è una rivelazione nuova che conferma le antiche e ci dice sull’altra dimensione qualcosa di più. Ci aiuta a rendere più organiche e sistematiche le conoscenze che abbiamo dell’aldilà. Non solo, ma prefigura e anticipa, in qualche modo, quel pieno incontro dei viventi con i trapassati che avverrà con la resurrezione universale finale.
I figli di luce comunicano con noi al livello medianico. E, siccome per comunicare bisogna essere in due, è necessaria una piena disponibilità da parte di noi umani. La nostra coscienza ci dice che un certo tipo di comunicazione è lecita e doverosa. Fa parte del compito che è stato assegnato a noi quali destinatari dei messaggi dei nostri giovani e di tutte le anime che ci vengono dall’altra dimensione in nome di Dio.
Questo comunicare ha, naturalmente, le sue regole, il suo codice, il suo galateo. Non bisogna abusarne. Non deve generare in noi una forma di dipendenza. Deve aver luogo con le anime che sono nella luce, cui in modo speciale è affidata la missione di rivelarci che l’aldilà esiste ed è l’aldilà di Dio e della vita eterna. Le comunicazioni devono aver luogo in un clima altamente religioso.
Non è lecito, poi, “legare” a oltranza anime che prima o poi dovranno distaccarsi dalla terra per avere ciascuna il proprio cammino spirituale di elevazione. Dobbiamo essere pronti a quel distacco, nell’attesa fiduciosa di riunirci ai nostri cari alla fine e per sempre.
A questo punto, però, bisogna tener presente un altro aspetto della questione. Noi riteniamo di agire da buoni cristiani, da buoni cattolici, ma purtroppo nella Chiesa non tutti sono d’accordo. C’è chi fortemente disapprova qualche nostra iniziativa. Sono tanti fratelli nella fede e, purtroppo, anche sacerdoti. Non c’è ancora, grazie a Dio, una condanna ufficiale da parte dell’autorità ecclesiastica, ma spiace e addolora quel suo atteggiamento di riservatezza estrema che confina con la diffidenza.
Per fortuna un gruppo di sacerdoti più illuminati ci è vicino e ci assiste. Altri simpatizzano più da lontano, senza compromettersi. Non si può pretendere eguale coraggio da tutti. Né possiamo giudicare certi atteggiamenti dall’esterno. Quei sacerdoti hanno i loro grossi problemi e se ci sono in qualche modo vicini in spirito è già qualcosa.
Ci sono poi gli ultrà, quelli che vorrebbero essere “più cattolici del papa”. Giungono a dire che le comunicazioni sono tutte opera diabolica. Si richiamano alle condanne della “divinazione” che lo stesso Antico Testamento contiene (Lev. 19, 31; Deut. 18, 10-12; 1 Sam. 28).
In tutte le epoche, in modo particolare presso popoli con cui gli antichi ebrei confinavano, ci sono state pratiche dirette a conoscere il futuro anche avvalendosi dei trapassati. È un luogo comune, invero molto sbagliato, che i defunti sappiano tutto, compreso il futuro. Ecco allora che il vivo evoca il morto per utilizzarlo ai suoi fini, dal momento che una conoscenza certa del futuro dovrebbe avvantaggiarlo nella vita e negli affari.
Non c’è davvero bisogno di sottolineare come questa utilizzazione del morto ai fini terreni del vivo sia scorretta e riprovevole, al pari del tentativo di evocarlo per pratiche di magia.
Se l’attenzione è la prima forma di carità da usare col prossimo, è mai possibile che certi ecclesiastici siano talmente disattenti, e quindi poco caritatevoli, da confondere il Movimento della Speranza con quegli stregoni e con i loro clienti?
A questo punto il problema si sposta un poco.
Molti sacerdoti sono in disaccordo con noi e dicono che facciamo male. Alcuni ci accusano addirittura di pratiche diaboliche. Altri si limitano a dire che noi in buona fede crediamo di parlare coi nostri cari, ma in realtà, senza avvedercene, colloquiamo col diavolo. Sono tutte opinioni personali. E poi la bocca ci sta per parlare. Ma la Chiesa che dice? Quali direttive, quali incoraggiamenti, o, all’opposto, quali ammonimenti vengono a noi dalla Chiesa?
A questo punto ci si potrebbe chiedere ancora, anzi previamente: che cos’è la Chiesa? chi è la Chiesa?
Penso che la prima risposta da dare, molto semplice, sia questa: la Chiesa siamo noi tutti che ne facciamo parte. Dio si incarna nell’umanità, quindi si può parlare di una Chiesa invisibile che coincide con l’umanità stessa e comprende tutti gli esseri umani come tali. Poi c’è la Chiesa visibile, di cui facciamo parte noi battezzati.
Gesù vive in noi. Sta a noi come la vite ai tralci. La sua linfa scorre in noi a santinicarci e, al limite, a deificarci, fino a farci crescere alla medesima statura del Cristo nella sua pienezza (Ef. 4, 13). Ciascun cristiano è alter Christus. Ciascun cristiano partecipa del sacerdozio, della profezia e della regalità del Cristo.
La Chiesa visibile ha le sue guide. Quello di cui siamo tutti investiti col battesimo è un sacerdozio universale, più lato. Presuppone un sacerdozio ministeriale, più specifico, da conferire a particolari persone. Ai sacerdoti e prima ancora ai vescovi, che del sacerdozio hanno la pienezza, è affidata una missione di guida nei confronti di noi laici. Ora, sul piano storico, sarebbe proprio inesatto dire che essi ci hanno confinati in una condizione di minorità veramente non più tanto rispettosa della nostra dignità di figli di Dio?
Nel corso delle epoche l’autorità ecclesiastica avrà avuto le sue buone ragioni per ridurre noi laici a un ruolo tanto subordinato. Sono ragioni umane e storiche, non certo ragioni teologiche.
Si è praticamente negato al laico la capacità di rappresentare la Chiesa, di parlare in qualche modo anche a nome della Chiesa. Il sacerdote, si dice, rappresenta la Chiesa e parla a suo nome, il laico rappresenta solo se stesso e parla a mero titolo personale. Che ne è di questa moltitudine di sacerdoti, profeti e re, di membra del corpo del Cristo (I Cor. 12, 14-31; Ef. 5, 30), di figli e eredi di Dio e coeredi col Cristo (Rom. 8, 17), di “dèi” come Gesù stesso ci chiama? (Gv. 10, 34-35; SaI. 82).
Chi esercitava l’autorità e il magistero non è riuscito a farci crescere a dovere? La civiltà moderna ci ha inquinati, rendendoci sospetti? L’educazione dei laici è veramente fallita, se viene accordata fiducia ai soli ecclesiastici, malgrado le prove non sempre buone che danno?
A chi mi fa dono della sua attenzione vorrei confessare che io amo profondamente la Chiesa di un amore quasi sviscerato, che nessuna cosa storta che io veda può infirmare. “Se mia madre, per caso, diventasse zoppa”, diceva papa Luciani, “io le voglio più bene ancora” (Discorso sulla Fede, 13.9.1978).
Mi auguro che il nostro amore per la Chiesa ci induca a sentirci sempre più integrati in essa e non, all’opposto, sempre più lontani e indifferenti. La contingenza che ha fatto di noi i destinatari del messaggio dei figli di luce e poi i volenterosi promotori della sua diffusione ci pone di fronte a una nuova responsabilità.
Il Movimento della Speranza è aconfessionale, ma noi sodali della Speranza siamo, di fatto, perloppiù cattolici. Come cattolici laici noi in qualche modo rappresentiamo la Chiesa, anche se non ufficialmente. Comunque siamo una presenza della Chiesa. E quindi ci assumeremo le nostre responsabilità autonome quando non ci sia una presenza di ecclesiastici adeguata. Dico adeguata in mero senso quantitativo, poiché, di fatto, i sacerdoti che si schierano con noi sono ottimi, anche se pochi.
Pur sempre con l’assistenza dei nostri pochi sacerdoti, sta soprattutto a noi, cattolici laici, di rendere la Chiesa presente nell’ambito della ricerca psichica e anche delle forme di spiritualità che si generano a seguito di manifestazioni paranormali come quella dei figli di luce.
È una decisione che ciascuno di noi deve assumere in maniera autonoma. A un certo momento non si possono più chiedere troppe “licenze” ai “superiori”. Bisogna un pochino forzargli la mano, in modo rispettoso e dolce, ma fermo.
Preti, vescovi e papi del futuro ci diranno forse, un giorno, che all’epoca nostra avevamo agito bene, anche proprio a vantaggio della Chiesa, che per merito nostro non si sarà tagliata fuori da un processo evolutivo come quello che ci schiude l’altra dimensione.
Nel secolo scorso il papa Pio IX era contrario all’unificazione politica della nostra penisola: avrebbe comportato la fine di quel potere temporale sul Lazio, sull’Umbria, sulle Marche e sulla Romagna che egli giudicava, a torto, essenziale alla propria spirituale indipendenza. Tanti ottimi cattolici operarono e combatterono per l’unità d’Italia senza chiedere al papa quel permesso che non avrebbero, certo, ottenuto da lui.
Oggi il successore di Pio IX, comunque si chiami, ha pienamente accettato la situazione nuova, ne pare contentissimo: e, ogni volta che si reca al Quirinale, palazzo che fu apostolico per secoli ed ora non lo è più, a far visita al presidente, ha tutta l’aria di ringraziare gli italiani di averlo liberato, col potere politico, di una bella seccatura, di un grosso impedimento a un esercizio più adeguato della sua missione spirituale.
Anche per motivi di spazio, mi limito, qui, a parlare della “Questione Romana”. Ma quanto detto si può applicare ai domini più disparati, per esemplificare tanti casi in cui l’autorità ecclesiastica era contraria a innovazioni, cui in seguito ha aderito.
Magari aveva le sue buone ragioni per opporvisi nel passato. Può essere che tante innovazioni, per la cornice ideologica in cui venivano proposte, potessero suonare non ammissibili. Lo sarebbero apparse di più in un secondo momento, allorché fossero state reinterpretate in una formulazione diversa, più conciliata con le istanze del cristianesimo. I papi del secolo scorso respinsero concetti di libertà e di democrazia e di laicità delle istituzioni, che in seguito il Concilio Vaticano Il accoglierà con pieno convincimento, non senza un certo calore di entusiasmo, ma dopo averli epurati da connessioni che erano chiaramente avvertite come non convenienti.
È intervenuto, insomma, tutto un lavoro di discernimento e di vaglio. Questo lavoro ha richiesto un tempo notevole. Nel frattempo le nuove idee erano state relegate in quarantena.
È stata una quarantena di fatto, per quanto l’intendimento esplicito dell’autorità ecclesiastica fosse, piuttosto, che la Chiesa respingesse quelle nuove istanze. I fedeli sono stati invitati a rifiutare quelle novità in modo puro e semplice, come si fa con qualcosa di negativo. Non tutti, però, hanno obbedito. Si può dire, anzi, che la gran massa non ha ottemperato per nulla. Per limitarsi ancora all’esempio dell’unità d’Italia, la grande maggioranza o quasi totalità dei cattolici l’ha tranquillamente accettata.
Diciamo pure che l’immensa maggioranza dei cattolici ha disobbedito al papa. È forse, per questo, venuta meno la devozione per lui in quelle stesse moltitudini? Ma per nulla. È un pezzo, ormai, che la gente ha imparato e sta imparando sempre più a rifiutare certe imposizioni dell’autorità che scendano troppo dall’alto e appaiano scarsamente convincenti a una coscienza più matura.
Le scomuniche, le sanzioni comminate con l’antica disciplina non servono più e hanno rivelato tutta la loro usura. Né serve più la formulazione di regole in chiave negativa del tipo “Non fare questo”, “Non fare quest’altro”, “Quest’altro ancora è severamente vietato”, “Attento a te, che se ti muovi ti fulmino!” Un certo terrorismo, fatto anche di racconti spaventosi, con minacce continue dell’inferno, non turba più quasi nessuno.
Altrettanto si dica di quel brutto uso del sacramento della confessione che ne faceva strumento di ricatti. Di “pii” ricatti, e spesso nemmeno tanto pii.
Può essere che nelle intenzioni di tanti ecclesiastici questa prassi fosse volta a fin di bene, e chissà quanti barbari, violenti ma ingenui e superstiziosi, e quanti autentici mascalzoni avrà fatto stare al loro posto e avrà così reso, almeno parzialmente, innocui.
Ora però si è divenuti sempre più consapevoli che si rende un cattivo servigio agli uomini quando li si umilia, quando non li si tratta più da soggetti adulti e ragionevoli. È quel che, con malinteso amore protettivo, fanno certe mamme quando, per tenere a freno un bambino irrequieto, minacciano di chiamare il carabiniere.
Per me i dogmi hanno grande importanza poiché hanno ben precisato certe dimensioni della fede cristiana che tanti “eretici”, uomini peraltro spesso geniali ed eccellenti, avevano cercato via via di svuotare. Noto, però, che la formulazione così rigida, e anch’essa in chiave negativa, di tanti dogmi non appare più accettabile in una religione che invece di attruppare e indottrinare gli uomini col timore voglia, al contrario, affascinarli e coinvolgerli con l’indubbia profondità e bellezza del suo messaggio.
“Se qualcuno avrà detto questo e quest’altro, sia anatema” (Si quis dixerit... anathema sit). Anatema vuoI dire esclusione: è togliere a qualcuno il saluto e qualsiasi amicizia, comunione e comunicazione; è rifiutarsi di prendere i pasti con lui e di parlargli. E non per pura cattiveria, beninteso, ma per evitare qualsiasi contaminazione alla purezza della fede ortodossa.
Una volta si faceva così. Tali prassi avevano pure una qualche funzionalità. Servivano governare masse di gente che non si sarebbe riusciti a mantenere sotto controllo con mezzi diversi. Le conseguenze del disordine sarebbero state peggiori del disagio che potevano procurare negli animi gentili i sistemi allora vigenti, finalizzati a mantenere, bene o male, un ordine. Era, certo, un ordine arcaico, oggi inaccettabile, ma accettato dalla mentalità di quei tempi. Dimostreremmo di capir veramente poco la storia se rimproverassimo ai medievali di non essere moderni. I dogmi rimangono pur sempre la chiave di volta dell’insegnamento della Chiesa, del suo magistero. Ma il magistero vivo del papa, dei vescovi, della Chiesa intera viene riproposto in termini più umani, più accessibili, più incoraggianti. Diciamo: in termini più... cristiani.
Il papa viaggia molto, la sua presenza è richiesta in tutti i paesi e dovunque egli porta il suo insegnamento. È un insegnamento non più proposto in forma, diciamo, dogmatica. Certi vecchi armamentari sono stati lasciati in soffitta. Lo stesso capo della Chiesa è un uomo che parla ad altri uomini, i quali possono dissentire, anche se fanno parte della Chiesa stessa. Nessuno li caccia via. Starà a loro decidere quel che sia più coerente, se rimanere nella Chiesa visibile o tenersene a distanza.
Quindi anche il papa, per quanto sia qualificato a parlare ex cathedra, in realtà non usa più farlo. Preferisce esprimersi in modo convincente, usando le parole che il rispetto per i suoi interlocutori gli suggerirà come le più opportune, le più efficaci e anche le più delicate, ogni volta che convenga usare la più sapiente gradualità e la mano più leggera.
Negli ultimi due secoli sono stati pronunciati tre soli dogmi. È quel che viene chiamato il magistero straordinario ed appare sempre più eccezionale, mentre il magistero ordinario viene affidato a discorsi e a lettere (tra cui le famose lettere circolari, o encicliche) in una forma assai meno autoritaria, per quanto la sostanza sia, per il credente, senza dubbio autorevolissima. Se oggi l’insegnamento della Chiesa appare ben autorevole a tanta gente, grande è la sua presa su tanti giovani, per i quali il papa, soprattutto Giovanni Paolo Il, è addirittura “superstar”. Penso che tale appaia per motivazioni tutt’altro che superficiali. Perfino il più sprovveduto comprende che il fascino del papa è ben diverso da quello di una stella del cinema. E anche il più scatenato, motorizzato e rampante dei supergiovani coglie che il prestigio del papa è quello di un grande maestro spirituale: espressione viva della tradizione spirituale più venerabile, vero punto di riferimento e, giacché si parla di stelle, vera stella polare per il difficile cammino dell’umanità.
L’immenso prestigio del papa e la venerazione che suscita ha avuto, per esempio, clamorose conferme alle giornate mondiali della gioventù a Denver e a Parigi.
Nulla, però, deve indurci a concludere che quei giovani, o i cattolici americani, siano proprio tutti d’accordo con tutto quel che il papa afferma. Senza entrare nel merito di quei problemi, e senza nemmeno elencarli, rileverò solo come su vari temi stia prendendo forma un dissenso vivo, profondo e convinto, che impegna una sempre maggiore percentuale degli stessi credenti.
Si diceva: l’autorità ecclesiastica fa fare lunghe anticamere a certe nuove idee, prassi, iniziative. Finché ritiene di mantenere il gran rifiuto, l’autorità invita i fedeli a rigettare quelle innovazioni. Molti obbediscono. C’è tutta una spiritualità, più che rispettabile, praticata da innumerevoli santi, fondata sull’obbedienza al superiore che rappresenta Dio stesso. Si può aggiungere che, sotto l’aspetto pratico, se l’autorità che presiede alla vita della Chiesa non fosse largamente obbedita, la Chiesa perderebbe quella compattezza che è tra i fattori non primi, certo, ma nemmeno ultimi della sua forza.
Guai, però, se non rimanesse spazio alcuno per un minimo di sana disobbedienza. C’è per fortuna, c’è — è il vero caso di aggiungere — grazie a Dio un’altra massa di fedeli in rapido aumento che, pur mantenendosi nella Chiesa con una osservanza più sostanziale, aderiscono alle innovazioni, in piena coscienza e pace con se stessi.
Ed è grazie proprio a questi suoi “figlioli” non veramente “prodighi” ma un po’ diciamo, intraprendenti, che la Chiesa potrà un giorno dire di non essere stata del tutto assente da quelle innovazioni, ma di avere anzi contribuito a promuoverle, magari anche raddrizzandole, come era giusto.
Nel campo del paranormale, e nella connessa spiritualità, dove noi ci troviamo impegnati, il nostro compito è proprio questo. Nel cooperare all’evoluzione umana siamo pure certi di rendere un servizio alla stessa Chiesa.
E anche i monsignori del Vaticano e di altre curie che ci guardano oggi con occhio un po’ sospettoso diranno bene di noi un giorno. Magari non proprio gli stessi, ma quelli che dopo di loro occuperanno le medesime scrivanie.
E i più, che saranno defunti, se ne rallegreranno in cielo, ove, per parafrasare ancora il detto evangelico, tutto quel che era nascosto sarà manifesto e tutto quel che era in ombra emergerà a piena luce.

 
 
 
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