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« UMANO, ESSERE-UMANO E LI...MEZZI E FINI DELL'UOMO »

IL SENSO IN SÈ E LA COMPETIZIONE

Post n°1069 pubblicato il 25 Dicembre 2022 da rteo1

IL SENSO IN SÈ E LA COMPETIZIONE

L'uomo ha bisogno di un "senso" al suo "esserci" nel mondo. Egli non riesce a vivere senza "darsi un senso" e a "dare un senso" all'esistenza, soprattutto in funzione del "dopo". Anzi, è proprio quest'ultimo, "il dopo", che lo tormenta di più, tanto che i più fragili psicologicamente - ossia la stragrande maggioranza degli umani - preferiscono non pensarci e fare ricorso ad inutili e superstiziosi "scongiuri" come se questi siano utili per cancellare l'evento finale. L'idea di dare un senso alle cose, alle azioni, agli accadimenti, che si manifestano nella realtà fenomenica strugge il pensiero. È questo -il pensiero- che tormenta la vita. Non di tutti, ovviamente, ma di certo di tutti coloro che sono convinti che esso sia il mezzo di interlocuzione con l'universale, col Tutto, l'infinito, l'indeterminato, l'Essere. La Costituzione italiana lo "celebra" all'art.21, comma 1, ove è sancito che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", salvo, poi, limitarlo, al comma 6 : "Sono vietate le pubblicazioni a mezzo stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni", oltre a sanzionarlo penalmente con i "reati di opinione" (vilipendio) e di "satira" (ingiuria e diffamazione).  Ma questo "dualismo" costituzionale e giuridico non è altro che la prova indiretta che ad essere duale è proprio "il pensiero". Ma si ha "paura" di ammetterlo perché così crollerebbe una certezza fondamentale su cui è stato strutturato l'intero "castello di sabbia" degli esseri umani. Hegel nel suo saggio "La fenomenologia dello spirito", sosteneva che "la realtà è autocontraddittoria, tende a superare sé stessa e a divenire altro da quello che è". Diceva anche che l'idea deve manifestarsi e che lo fa diventando realtà naturale la quale ha in sé la "ragione". Il problema, a mio avviso, è quello di capire se già l'idea sia in sé "autocontraddittoria" oppure se lo diventi dopo, nel momento in cui la "realtà" si manifesti. La risposta (peraltro, allo stato, senza alcun fondamento scientifico) non è priva di conseguenze: Postulare, infatti, che già il pensiero sia contraddittorio in sé vuol dire ammettere che, da una parte, verso "l'alto", tutto l'universo è autocontraddittorio, e, dall'altra, verso il "basso", che tutte le decisioni umane (individuali o collettive, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.) sono autocontraddittorie. Relativamente al "basso", ossia ai rapporti tra gli esseri umani, tra le molteplici e diverse "contrapposizioni" assurge quella del dare "senso" alle cose (e, prima di tutto, alla vita) perché automaticamente ne deriva un dualismo con il "non senso". Questa distinzione avviene per opera della c.d. "ragione" umana, che è frutto di convenzioni sociali "assolutizzate" che la elevano anche a parametro supremo di tutti i comportamenti e delle elaborazioni politiche. Mediante tale "distinzione" alcune azioni sono consentite (perché avrebbero senso) e altre escluse (perché non avrebbero senso). Questo non vuol dire, ovviamente (anzi potrebbe essere vero il contrario), che tale contrapposizione sia valida anche nel "mondo" dell'illimitato, dell'indifferenziato (com'è, ad es., anche il "mondo quantico"), dove in potenza tutto è possibile e nulla impossibile, ove, perciò, potrebbe essere che  senso e non senso siano un tutt'uno, coessenziali a sé stessi e a tutti gli enti universali. Purtroppo, però, non se ne può avere certezza che sia così perché il "libero pensiero" è socialmente condizionato, segregato e plasmato dalle "regole" del "super-Io" (interiore ed esterno) che governa la mente e parte della psiche umana. E così gli esseri umani continuano a rimettersi alla "ragione" che scinde, divide, ciò che si reputa avere senso rispetto a ciò che non ne ha, anche se (forse) nell'indifferenziato (com'è peraltro anche il subconscio umano) non esista alcuna "contrapposizione"; che "senso e non senso" siano equivalenti (senso-non senso e viceversa), ovverosia esista un "senso in sé" di tutti gli enti dell'universale (uomini inclusi, ovviamente). E allora, se le cose stessero così (e non si può escludere. Anzi, ben si potrebbe affermare.), sorgerebbe inevitabile la seguente domanda: esiste un senso in sé, in generale, e della stessa vita ? Una canzone dal titolo "Un senso" di un noto artista italiano contiene il seguente brano: «Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l'ha ». Gli artisti, si sa, hanno una sensibilità particolare che consente loro di travalicare i limiti della "ragione" e di avvicinarsi al "senso ontologico" delle cose e del Tutto. Bisogna, perciò, tenerne sempre conto, ma non si può, ovviamente, abdicare mai la verifica, la ricerca della prova mediante il proprio pensiero. Ed è proprio questo che fa subito emergere l'aporia, la contraddizione in sé, del predetto brano musicale: se si ritenga, infatti, che la vita non abbia senso, allora non ha senso cercare (trovare) un senso. Invece è evidente l'errore di escludere, a priori, che "la vita abbia un senso in sé stessa" (così come la sua antagonista: la morte). Certamente questa soluzione ridimensiona l'uomo e il suo egocentrismo e relativo antropocentrismo ma consente di comprendere che non è vero che non esista alcun senso, in assoluto, ma che invece il senso esista, come "senso in sé", sia della vita che di tutte le cose, e che questa "conclusione" non impedisce agli uomini di darsi e dare un senso anche se essi stessi sono posseduti e dominati dal "senso in sé". Un modo, seppur indiretto, per "dimostrarlo", tra i tanti possibili, risulta essere quello relativo ad alcuni rituali fondamentali esistenti in natura. Il primo è certamente quello del "corteggiamento", finalizzato alla riproduzione. Tutte le specie viventi sono "schiave" di tale rituale, che prelude la selezione del partner. Solitamente è il "maschio" che si esibisce, come su di un palcoscenico, assumendo le "pose" più ardimentose, ma anche "ridicole", al tempo stesso. Si ostentano piumaggi, canti, stridi, muscoli, e si fa ricorso alla "competizione", alla "lotta", tra gli aspiranti per il primato dell'accoppiamento. La "femmina" solitamente attende che la "contesa" abbia termine, e a volte sceglie anche il partner che ritenga più idoneo allo scopo (questa libertà di scelta e anche d'iniziativa sono diventate, ormai, "patrimonio culturale" di buona parte del "mondo occidentale"). In natura, quindi, tutto avviene secondo la "competizione" in vista dell'accoppiamento per la "riproduzione". È questo, quindi, il "trofeo", il "premio" in palio, che consente la trasmissione del "patrimonio genetico" e la prosecuzione della specie. Anche gli esseri umani soggiacciono alle stesse leggi della natura. Ma essi, che hanno anche il "dono" della fantasia, frutto della follia che abita l'inconscio, ci aggiungono anche altro, che è il prodotto della società e della cosiddetta "civiltà": i riti. Sono questi, infatti, che più di tutto marcano la differenza tra gli umani e le altre specie viventi, e non perché queste ultime non abbiano i propri "riti", giacché anch'esse ne hanno (secondo natura), ma perché gli umani hanno anche l'esigenza di "dare senso" alle proprie azioni, per cui "inventano" rituali, spesso bizzarri ed estrosi, che a volte travalicano ogni (buon) senso, fino al punto che "il senso non ha più alcun senso". Per comprendere queste "pazzie" tipiche del mondo umano è sufficiente riflettere sulla complessità e varietà dei "corteggiamenti", ma anche sull'accoppiamento, che precede, prescinde, o segue il rituale del matrimonio, che spesso si conclude con i "festeggiamenti" a cui prendono parte "processioni" di invitati. Lo stesso dicasi per i "rituali" politici, istituzionali, sociali prescritti dalle "regole" giuridiche, etiche, morali, religiose, che a volte non hanno alcun collegamento col reale, col naturale, "costringendo" gli individui e le masse a credere o accettare per fede (o per appartenenza) che simboli e segni abbiano in sé ed esprimano principi e valori "assoluti", trascendenti, metafisici, senza rendersi conto che durante lo spazio-tempo del divenire, senza il libero pensiero, "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito". E ciò nonostante, gli umani continuano a voler imporre in generale le loro produzioni, sacralizzandole con i riti, come se fossero l'espressione della "verità". Alla base, comunque, dell'esistenza, sia umana che non, vi è, come detto, la "competizione" che, in generale, secondo natura, è finalizzata alla "riproduzione", e quest'ultima, a sua volta, alla stessa "competizione", intesa secondo il suo significato originario (da cum petere, andare insieme verso lo stesso obiettivo), diverso dal "Polemos" (il conflitto eracliteo), dall'autocontraddittorietà della realtà hegeliana e anche dalla "dialettica socratica" (seppur, quest'ultima, affine in ordine alla ricerca della "verità"). La "competizione", perciò, come innanzi intesa (andare verso il "comune obiettivo", cioè il "pensiero puro, dell'energia), e la riproduzione (in funzione della prima e viceversa), costituiscono i veri fondamentali di tutti gli esseri viventi e delle organizzazioni umane. Anche le "leggi", quindi, così come la competizione per l'assunzione di funzioni e ruoli pubblici, hanno come substrato, più o meno inconscio, dominato dall'economia della specie, il fine della "riproduzione". In ordine a quest'ultima giova sottolineare che essa nell'élite intellettuale e creativa tende spesso a "sublimarsi" e, così, l'élite trae "piacere"  dalla creazione di prodotti artistici, culturali, politici, economici, ovvero, nel campo istituzionale, mediante la identificazione col potere costituito, e, nel mondo religioso, con la missione verso il trascendente. La "riproduzione", perciò, quale esigenza primaria ed essenziale per la natura, interconnessa con la competizione, nel consorzio umano impone il suo "senso in sé", non curandosi  del "non senso umano" che mediante la divaricazione dell'intelletto, per esigenze socio-politiche, oltre che psicologiche dell'individuo, spinge a "dissociare" "l'essere" dal "dover essere", mediante l'apparire (che è anch'essa una forma della "competizione"). E cosi può accadere di assistere a "rituali" pubblici, privati e sociali del tutto analoghi a quelli tipici dell'infanzia, seppur celebrati con "solennità". Ma si tratta solo e sempre del "senso" convenzionalmente distinto dal "non senso" per appagare l'esigenza tutta umana di credere di avere il primato assoluto sia in natura che su tutte le altre specie viventi. Ma soprattutto di credere di "essere altro" rispetto a ciò che realmente si è e che si manifesta ai sensi. Tutto comunque, e si ribadisce, si muove sempre in base alla competizione. Nulla e nessuno la può impedire perché essa è alla base della natura (anche la pandemia virale costituisce un esempio di "competizione" tra specie diverse) ed ha senso "in sé stessa". Tale "competizione" in ambito sociale viene disciplinata mediante le "regole" e le istituzioni. Lo sport, come ad es. il calcio, ne costituisce l'esempio per eccellenza, dove il "trofeo" (la coppa) costituisce l'equivalente simbolico del risultato dell'accoppiamento e "riproduzione sessuale o intellettuale". Il "frutto" è il trofeo in palio, la coppa, come l'elezione alla carica pubblica è il premio della competizione elettorale (e il "posto fisso", il premio del concorso pubblico). Certamente senza né regole socio-politiche né istituzioni tutti gli umani sarebbero preda delle basilari "pulsioni naturali" (alimentari, per la sopravvivenza, e sessuali, per la prosecuzione della specie), che pur tuttavia, seppur in modo più o meno inconscio, continuano ad orientare i comportamenti degli umani, singoli e associati. E tanto è vero che analizzando i criteri di distribuzione delle risorse economiche prodotte dalle società "civili" ben si coglie come tali risorse siano distribuite sulla base (iniqua ma resa legale) della "competizione" tra le diverse funzioni e ruoli pubblici e privati, secondo gerarchie più o meno rigide tra classi e caste. Relativamente a queste va detto che la "democratizzazione della Repubblica", come è accaduto nel dopoguerra in Italia (ma anche in molti altri Stati europei), ha consentito di superare le dure ed estreme contrapposizioni sociali di stampo ottocentesco, ben analizzate e sviluppate nel Manifesto del 1848 e nel Capitale di K. Marx, che, secondo la logica dialettica dell'ineludibile conflitto tra le classi, avrebbero dovuto portare la "classe proletaria" (operai e contadini) alla conquista del potere politico diventato prerogativa della "borghesia", che lo aveva sottratto alla "classe feudataria". Per effetto della "democratizzazione", che ha "imborghesito" i proletari, come argutamente osservato dal filosofo Aldo Masullo nella relazione "crisi della fenomenologia e fenomenologia della crisi", la contrapposizione tra le classi si è diluita, soprattutto dopo i "moti del 1968". La "contrapposizione", così, nell'attuale "Repubblica democratica", ha ridimensionato il potenziale "rivoluzionario" della "classe proletaria" e ha assunto la forma e la natura della "competizione" tra molteplici "gruppi di interessi" (partiti, in primis, sindacati, corporazioni professionali, burocratiche, istituzionali, associazioni, ecc.). La sostanza, però, non è cambiata in modo radicale perché anche nella "Repubblica democratica" permane la "competizione" per la conquista del "premio" (l'accaparramento delle risorse economiche), finalizzata "all'accoppiamento" (scegliere o essere scelti dal partner) o alla sublimazione (assunzione ed esercizio del potere, et similia). Ovviamente la "competizione", però, può anche giungere a livelli estremi, come accade (e sta avvenendo) tra le potenze statali, che spingono la competizione nel campo bellico nel quale, a causa dell'esistenza delle pulsioni distruttive nell'inconscio umano, la soppressione della vita del "nemico" diventa il "trofeo" da conquistare. E gli "Stati", strumenti idonei ad esaltare le virtù dei cittadini, se mal gestiti diventano  amplificatori delle "pulsioni distruttive" che scaricano la "forza" e la "violenza" cieche e bieche dimostrando che la "ragione" è pura convenzione. L'esperienza, però, finora maturata, anche grazie al contributo della cultura, delle idee liberali, della scienza e della tecnologia, induce a ritenere che il (buon) senso umano possa avere senso, così come è avvenuto con la "democratizzazione della competizione" che seppur ostacolata dalle élites e ancora imperfetta, perché trascura e a volte vessa, tiranneggia, le minoranze politiche (e non solo), costituisce la migliore soluzione sociale e politica finora adottata. Per questo essa dovrebbe essere estesa, quanto più è possibile, in tutti gli ambiti (istituzionali, politici, economici), con l'adozione di "statuti di libertà per le minoranze", se si vogliano ridurre i contrasti sociali (e le guerre civili e tra Stati). Certamente la "competizione" prima o poi "supererà" le odierne civiltà più "evolute" e anche l'attuale democrazia, come già si coglie dai segnali che si registrano sia all'interno che all'esterno dell'Italia. E questa sarà la prova evidente dell'esistenza del ciclo vitale di tutto ciò che esiste in natura; ma anche che tale ciclo ha il "senso in sé" così come nella fondamentale e ineliminabile "competizione", a cui tutto è assoggettato. È la "competizione", quindi, secondo il suo "senso in sé", di concorso verso il comune obiettivo (il pensiero puro, l'energia), "il principio fondamentale" che coinvolge la vita stessa e la natura. Tuttavia, nel divenire, c'è anche spazio per il "senso" degli esseri umani, singoli o associati, utile per metter ordine e dare speranza alla vita individuale, sociale e politica degli esseri umani. L'importante, però, è che tale "senso", prodotto dalla "ragione", da cui si originano "le convenzioni", non diventi mai "verità assoluta" perché questa, è interconnessa alla "competizione", che ha in sé stessa il proprio senso, ben diverso dal "senso in sé" degli esseri umani e di ogni cosa ed enti dell'assoluto.

 
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