Creato da rteo1 il 25/10/2008
filo aperto con tutti coloro che s'interrogano sull'organizzazione politica della società e che sognano una democrazia sul modello della Grecia classica

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UN CITTADINO DEMOCRATICO IN "USCITA" DAL TERZO MILLENNIO

Post n°1080 pubblicato il 10 Ottobre 2023 da rteo1
Foto di rteo1

https://www.ibs.it/cittadino-democratico-in-uscita-dal-libro-teodoro-russo/e/9791222801568 

 

https://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/1302533/un-cittadino-democratico-in-uscita-dal-terzo-millennio_1325334

 

https://www.lafeltrinelli.it/cittadino-democratico-in-uscita-dal-libro-teodoro-russo/e/9791222801568?queryId=9d2f6dc3b6c8054ffb09319eb14206be 

 
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DEMOCRAZIA ETICA E GIUSTIZIA SOCIALE DISTRIBUTIVA

Post n°1078 pubblicato il 11 Settembre 2023 da rteo1

DEMOCRAZIA ETICA E GIUSTIZIA SOCIALE DISTRIBUTIVA

Credo che la "democrazia" tra i tanti benefici, relativamente al ruolo politico del c.d. "Popolo", abbia prodotto anche l'effetto di riconoscere ai cittadini il diritto di "pensare" e di esprimere (più o meno) liberamente il proprio pensiero. Ovviamente questo non è tutto, perché al di là del "cogito ergo sum" di Cartesio, gli uomini hanno anche un "corpo" che reclama di "essere alimentato" per poter agire, lavorare, produrre, e non solo consentire il "cogitare". Per questi motivi, da molto tempo, ormai, tra i diversi argomenti che impegnano l'agone politico vi è sicuramente quello relativo alla distribuzione delle ricchezze nell'ambito della società. Va evidenziato che le modalità di riparto della ricchezza sono strettamente collegate alla forma di Stato e di governo. In una monarchia, ad es. di tipo assoluto, come era quella di Luigi XIV, Re di Francia, che si identificava con lo Stato (l'état se moi, come diceva), tutte le ricchezze appartenevano al Re, come anche i sudditi. Lo Stato, quindi, era "patrimonio" del Re e, pertanto, passava in successione dinastica come "bene ereditario". Ma anche le più moderne "monarchie" con i Re, dette "costituzionali" o "democratiche", come ad es. quella inglese (ma anche Spagnola, Belga, Svedese, Danese, Norvegese...) pur non essendo più "proprietarie dei regni" (Stati) tuttavia godono del privilegio di un "sostanzioso appannaggio" economico-patrimoniale a carico dei sudditi (i quali, formalmente, sono altro, rispetto ai cittadini perché hanno il "dovere" dell'inchino e della riverenza, tipici atti di sottomissione, psicofisica e morale e non di pura e libera "cortesia") e partecipano, altresì, al Governo dello Stato con funzioni più o meno intrecciate con le procedure del potere legislativo ed esecutivo. Diversamente, invece, avviene nella c.d. "democrazia" (nella forma moderna di "Repubblica democratica"), nella quale il destinatario delle ricchezze prodotte dalla Comunità è il Popolo (in realtà solo una parte, purtroppo, come si evidenzierà in seguito) che è anche definito dalla Costituzione (art.1) come "Sovrano" della Repubblica (mentre, ex art.87, co.1, della Carta, il "Capo dello Stato" è il Presidente della Repubblica). Infine, nell'oligarchia (forma di governo risultante dai modelli platonici e aristotelici) sono soprattutto gli "oligarchi", ossia l'élite dominante al potere, ad accaparrarsi la maggior parte delle risorse. Vi è, pertanto, una correlazione tra le forme di Stato e di governo innanzi menzionate e la "ripartizione delle risorse" prodotte dalla Comunità; tale correlazione perciò può ben essere presa come riferimento per dedurne quanta "democrazia" è entrata a far parte della Repubblica-democratica, nella Monarchia-democratica o nell'oligarchia. Trattasi, in altri termini, di  un metodo di analisi "sostanziale", più reale e veritiero rispetto al modello costituzionalizzato che fa uso di formule teoriche, retoriche e di simboli sacralizzati. Per fare un esempio concreto richiamiamo l'art.1 della Costituzione italiana che, come noto, sancisce: "L'Italia è una Repubblica democratica..." e che "La sovranità appartiene al Popolo....". L'Italia, quindi, non è - formalmente - una monarchia né una oligarchia, ma è una "democrazia" (innestata nella forma repubblicana che riconosce la "Sovranità" al Popolo) pertanto, in ordine alla distribuzione delle ricchezze, se fosse vero il "principio fondamentale della Costituzione", si dovrebbe riscontrare "nei fatti" che il "Popolo" (ossia, in senso lato, tutti i cittadini, nessuno escluso) sia il beneficiario (goda, fruisca) di tutte le risorse (mobili, immobili e opere intellettuali) prodotte dall'intera Comunità. E inoltre, trattandosi di democrazia, che, a differenza degli altri regimi di governo, si fonda sul principio politico-giuridico ed etico dell'eguaglianza dei cittadini (parità tra cittadini, in senso reale, concreto, orizzontale, e non soltanto in senso formale "dinanzi alla legge"), la richezza dovrebbe risultare "equamente distribuita" (secondo eguaglianza e giustizia sociale). Vediamo, allora, se è proprio così. Dai dati ufficiali (al 2019, ma tuttora validi in termini percentuali) si rileva che la "torta della ricchezza" (l'intero "patrimonio" delle famiglie italiane) è stata stimata in circa 9.297 miliardi di euro, con il 20% più ricco che possiede quasi il 70% della ricchezza nazionale; un altro 20% detiene il 17% circa della ricchezza e il restante 60% dei cittadini possiede solo il 13,3% (ai margini dei quali si trovano circa 5.000.000 di cc.dd. "poveri assoluti" nonché 5.000.000 di cc.dd. "poveri relativi"). È di tutta evidenza, dai dati che precedono, che in Italia, dal punto di vista della distribuzione delle risorse, esiste una oligarchia (da oligos, pochi) che ha un ruolo "idrovoro" ed "energivoro" "nell'accaparramento" delle ricchezze (circa il 70%) mentre la "democrazia" (ossia il 60% del "popolo") ha soltanto una parte marginale (partecipa al riparto della ricchezza solo per il residuo 13,3 %), con oltre 5.000.000 di "cittadini" privati, o limitati, delle risorse, della dignità e dei diritti umani. Eppure si continua a ripetere, senza alcuna esistazione, senza alcun disagio morale, né etico, religioso o sociale che in Italia c'è la "democrazia", così come ci sarebbe in tutti gli altri Stati europei e nell'intero occidente capeggiato dall'America. Invece, stando ai predetti dati statistici, bisognerebbe dire che c'è soltanto una "quota di democrazia". Ed è così in tutto l'occidente, sia negli Stati repubblicani che nelle monarchie con i Re (che in Europa costituiscono la maggioranza), nel quale la democrazia è soltanto una "quota", una ""frazione", che concorre con le élites oligarchiche e monocratiche nel governo degli Stati e alla distribuzione delle risorse. È questa, quindi, la realtà che emerge dall'analisi del "riparto della ricchezza" nei diversi modelli di Stato e di  governo europei e occidentali. Non basta dire, perciò, che uno Stato è democratico ma bisogna chiedersi anche "quanto" lo sia, non solo nella forma (art.3 della Cost.: Tutti i cittadini sono eguali...) ma anche e soprattutto nella "sostanza" (quanti cittadini partecipano e quanti sono esclusi dalla distribuzione delle risorse). La già citata Costituzione italiana al comma 2 dell'art.1 sancisce che "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Non vi è dubbio che in virtù di tale prescrizione si abbia voluto, politicamente e istituzionalmente, limitare l'esercizio diretto della volontà popolare, sia in ordine al potere legislativo (approvare le leggi, iniziativa legislativa e referendaria vincolanti, ecc.) sia nell'attribuzione delle diverse cariche statali (il Popolo, oggi, non elegge direttamente il PDR, né il "Capo del Governo", né i Giudici della Corte costituzionale, e neanche le supreme cariche delle altre magistrature, come, invece, avveniva, ad es., nella democrazia ateniese ove l'Assemblea era costituita dal popolo, come anche  i tribunali, i cui giudici, peraltro, erano scelti tra la "classe dei più poveri", i Teti, mediante estrazione a sorte, e la funzione aveva una durata annuale). È del tutto evidente, perciò, che nell'ordinamento italiano, sul piano "sostanziale", la "democrazia" coesiste con una sorta di "oligarchia" (l'élite) e che si rinviene anche un ruolo apicale "monarchico" (mònos, uno solo), com'è quello del "Capo dello Stato" (il PdR), al quale sono riservate risorse e privilegi. Trattasi, perciò, di una "formula" politico-costituzionale riconducibile a quella definita "mista" da Aristotele, il quale la riteneva, tuttavia, come la più equilibrata possibile perché in grado di dare maggiore stabilità alla Polis. Oggi, però, agli albori del terzio millennio, sebbene vi siano tendenze geopolitiche egemoniche di alcuni Stati atte a riportare indietro "l'orologio della storia" e l'intera umanità all'età della pietra, si può anche "prendere atto" di tale forma "mista" di gestione del potere pubblico ma bisogna correggere l'iniquo riparto delle ricchezze, che si fonda sulla "forza" politico-economica e giuridica delle diverse "classi" (o categorie sociali e istituzionali), e recuperare e valorizzare il "principio etico" di fondo della democrazia, ossia il principio dell'eguaglianza reale. Nessuna forma di governo può esistere solo come pura "forma politica" (né giuridica) ma tutte hanno bisogno di un "principio etico" (ad es. le virtù, l'onore e il coraggio per l'Aristocrazia). Così anche la moderna democrazia ha bisogno del "principio etico dell'eguaglianza reale", in virtù del quale "tutto il Popolo" deve partecipare alla distribuzione delle risorse. La democrazia, perciò, dev'essere anche "etica" e non solo politico-giuridica in senso stretto. Vale la pena ricordare che le "leggi del libero mercato" sono solo il frutto della elaborazione e imposizione del capitalismo economico-finanziario dell'élite imperiale dominante (internazionale e nazionale) ma non hanno alcun valore assoluto. Bisogna, perciò, ripartire dal comune fondamento biologico che tutti gli "umani" hanno lo stesso DNA (e moltissimi vizi e difetti comuni); che "nessuno basta a sé stesso" e "tutti hanno bisogno di tutti" perciò è giusta la distribuzione delle ricchezze secondo il principio della "democrazia-etica", la quale trova un valido fondamento nella "Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo" che all'art.1 sancisce: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». La Dichiarazione venne adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi con la Risoluzione 219077A del 10 dicembre 1948 e tra i Paesi firmatari vi erano gli Stati Uniti d'America, il Regno Unito e la Francia (l'Italia entrò a far parte dell'Assemblea nel 1955). Come si rileva dalla citata "Dichiarazione" (che non può essere sconfessata dai firmatari, se non negando di essere stati "capaci d'intendere e di volere", o in "malafede, non credendo in ciò che "dichiaravano" e firmavano) è la "nascita" il momento fondamentale: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". La "nascita", pertanto, deve costituire l'evento, l'accadimento, il fatto biologico, il momento in cui "tutti gli esseri umani" sono nella condizione di "eguaglianza in dignità e diritti". Tale "nascita" non ha, per quanto si ricava dalla "Dichiarazione", alcun riferimento con i "genitori", né con la "stirpe" o la "gens" familiare, perciò al momento della nascita sono "tutti eguali", sia il figlio di un bracciante, che di un operaio, di un magistrato, di un professionista, di un parlamentare, di un "grande capitano d'industria", ecc. Non vi è dubbio, ovviamente, che nella realtà, almeno finora, chi nasce in una famiglia di ricchi non sarà mai "eguale" a chi nasce in una famiglia di poveri perché la "dinamica" è regolamentata dagli "ordinamenti giuridici"; ma questi non hanno alcun valore assoluto e universale e non sono né eterni né immutabili. Basta perciò soltanto volerlo "politicamente" e "culturalmente". In che modo ? ci si domanderà. La soluzione è quella di superare la "finzione giuridica" che, contronatura, mediante l'istituto della "successione ereditaria", fa sopravvivere alla morte biologica un essere umano. Tale "istituto giuridico" ha in sé, sullo sfondo, anche dell'inconscio, una "folle idea metafisica", ontologica, dell'uomo quale essere dotato di potere assoluto rispetto alla morte (come quello del Dio Creatore e Salvatore), che consente, mediante l'esercizio della funzione legislativa, di "continuare" ad esistere (giuridicamente) mediante successori (legittimi o testamentari), in primis i figli. Indubbiamente questi ultimi hanno in sé (in generale) una parte del patrimonio genetico dei "genitori" (uso le virgolette perchè oggi il concetto di "genitorialità" è controverso tra le diverse fazioni politiche), ma è altrettanto certo che essi siano "altro", degli individui del tutto originali, nuovi e diversi rispetto ai propri genitori (molti "geni" hanno avuto dei figli "idioti" e molti "idioti" hanno avuto figli "geniali"). Ecco, allora, perché risulta essere naturalmente ed eticamente giusto e corretto quanto solennizzato nella suddetta "Dichiarazione universale", cioè che tutti alla "nascita" sono "eguali in dignità e diritti". Occorre, perciò, trovare una qualche soluzione "giuridica" per poter trasferire tali principi e valori anche sul piano patrimoniale. La Costituzione italiana all'art.42, u.co, sancisce che "La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità". È questa, perciò, la via da seguire, ossia intervenire sulla legge della successione ereditaria per ridistribuire equamente le risorse che oggi sono "ingiustamente" detenute soltanto dai suddetti "ricchi" (il 20% dei cittadini, che possiede il 70% delle risorse), ma anche dai "meno ricchi" (il 20%, che detiene un altro 20%) e dalla "classe media" (il 60%, che possiede il restante 15% circa). Alexis de Tocqueville, nel suo noto saggio "La democrazia in America", registrava, con sorpresa, con la sua cultura di aristocratico e di alto magistrato, che in alcuni Stati americani le imposte di successione erano particolarmente elevate per far sì che le ricchezze accumulate ritornassero alla collettività. Come si vede, a quel tempo avevano ben chiaro quale fosse il vero problema della diseguaglianza sociale: l'accumulo illimitato delle ricchezze a causa della trasmissione dei beni per via ereditaria, perciò intervenivano mediante una elevata imposta di successione. In Italia la materia (scottante !) è stata disciplinata con il d. Lgs. del 31.10.1990, n.346, che ha approvato il T.U., contenente le "disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni. L'art.3, comma 4-ter, prevede che "I trasferimenti effettuati anche tramite i patti di famiglia... a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, quote sociali e di azioni non sono soggetti all'imposta". L'art.12, invece, sancisce che "1. Non concorrono a formare l'attivo ereditario: h) i titoli del debito pubblico, fra i quali si intendono compresi i buoni ordinari del tesoro e i certificati di credito del tesoro, ivi compresi i corrispondenti titoli del debito pubblico emessi dagli Stati appartenenti all'unione europea e dagli Stati aderenti all'Accordo sullo spazio economico europeo"; i) gli altri titoli di Stato, garantiti dallo Stato o equiparati, ivi compresi i titoli di Stato e gli altri titoli ad essi equiparati emessi dagli Stati appartenenti all'Unione europea e dagli Stati aderenti all'Accordo sullo Spazio economico europeo, nonché ogni altro bene o diritto, dichiarati esenti dall'imposta da norme di legge". L'art.13, inoltre, esclude " I beni culturali di cui agli articoli 1, 2 e 5  della legge 1 giugno 1939, n.1089, e all'art.36 del DPR 30.9.1963, N.1409...". In ordine alle aliquote, invece, l'art.7, commi 1 e 2 (come modificati dall'art.69, L. n.342/2000), sancisce: "1. L'imposta è determinata dall'applicazione delle seguenti aliquote al valore della quota di eredità o del legato: a) quattro per cento, nei confronti del coniuge e dei parenti in linea retta; b) sei per cento, nei confronti degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonchè degli affini in linea collaterale fino al terzo grado; c) otto per cento, nei confronti degli altri soggetti. 2. L'imposta si applica esclusivamente sulla parte del valore della quota o del legato che supera i 350 milioni di lire (euro 180.759). 2-bis. Quando il beneficiario è un discendente in linea retta minore di età, anche chiamato per rappresentazione, o una persona con handicap riconosciuto grave ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificata dalla legge 21 maggio 1998, n. 162, l'imposta si applica esclusivamente sulla parte del valore della quota o del legato che supera l'ammontare di un miliardo di lire (euro 516.456). Da quanto precede emerge in modo del tutto evidente che in Italia la "democrazia etica" è un puro miraggio ma che, tuttavia, se quella parte politica che ama compiacersi ritenendosi  "democratica e progressista" riuscisse ad esserlo anche nei fatti allora si potrebbe sottoporre ad imposta di successione (almeno) il 70% dell'intero patrimonio (asse) ereditario, col trasferimento delle risorse al "Sovrano" cioè al "Popolo", il quale, per il tramite delle "sue istituzioni repubblicane" (in particolare i Comuni), le ridistribuisce  in modo eguale tra tutti i cittadini (nessuno escluso). In alternativa, qualora si dovesse ritenere opportuna una modifica graduale della vigente normativa si potrebbe iniziare mediante l'abrogazione del suddetto comma 4-ter dell'art.3; modificando l'art.12 con l'introduzione di una esclusione parziale dei titoli del debito pubblico (ad es. fino a €. 50.000), e introducendo, a modifica dell'art.7, un'aliquota progressiva, per scaglioni, (conformemente all'art.53 della Costituzione), fino a una aliquota massima del 70 % sull'intero patrimonio (asse) ereditario, con una soglia di esenzione della quota ereditaria o del legato (ad es. €. 155.000, pari alla quota pro capite di €.9297 mld). L'equa distribuzione delle risorse, invece, secondo un principio di "democrazia etica" e di "giustizia sociale", dovrebbe avvenire cominciando dal "basso" (per capirci, "dall'ultimo" dei cittadini) e "salire" nella c.d. "scala sociale", o della "gerarchia" delle diverse funzioni pubbliche, anziché, come tuttora avviene, partendo "dall'alto", dai vertici, perché così si arriva sempre in fine (alla "base sociale") senza avere più risorse disponibili da distribuire (oggi, come sopra detto, ci sono circa 5.000.000 di poveri assoluti). Occorrerà, quindi, "ribaltare la piramide" nella "distribuzione delle risorse" incominciando dalla base verso il vertice per realizzare una società ispirata alla "democrazia etica" e alla "giustizia sociale" in cui i cittadini,  al di là del momento in cui esercitino le diverse attività, ruoli e funzioni, si relazionino in senso "orizzontale" e non più "verticale", secondo un criterio di eguaglianza sostanziale e non più solo formale. In altri termini, al di là della necessità socio-politica di dover organizzare secondo un criterio "piramidale" le molteplici attività, la distribuzione delle risorse prodotte dall'intera comunità, invece, deve avvenire in modo egualitario. L'ineguaglianza, quindi, può riguardare il solo ambito lavorativo (anche istituzionale), come esigenza di efficienza del sistema, secondo "merito" (competenza)  ma non può giustificare una diseguale distribuzione delle risorse in ossequio del principio della "Sovranità del Popolo". E in linea con questa soluzione tutti i "pensionati" dovranno essere qualificati col solo titolo di "cittadini", senz'altra distinzione (e decretare l'esistenza di un unico "Istituto nazionale di previdenza", con un tetto massimo alle pensioni, da pagarsi con le imposte progressive e non più con i "contributi previdenziali"). E si dovrebbe riconoscere alle donne-madri uno stipendio mensile per il loro ruolo sociale e i sacrifici psicofisici della maternità che le rendono delle moderne "eroine". Non vi è dubbio che l'idea della "democrazia etica" e le soluzioni innanzi prospettate di "giustizia sociale" nella "distribuzione delle ricchezze" siano alquanto "utopiche" (anche perché gli "umani" in un mondo "duale" sono anche "dis-umani"), ma le "idee", anche se gli umani non le "realizzino", devono comunque "manifestarsi", come sosteneva Hegel, sia per il tramite degli "autori minori" - come in questo caso -, che dei Maggiori, come è avvenuto con Platone, che aveva proposto come soluzione la sua Repubblica ideale; ma anche sant'Agostino, che aveva immaginato la sua "Civitas Dei" e Tommaso Campanella la "Città del Sole" (senza dimenticare Tommaso Moro con la sua Utòpia e che persino Dante aveva elaborato la sua Monàrchia ritenendola come miglior modello di governo possibile). 

 
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IL SENSO IN SÈ E LA PARTECIPAZIONE

Post n°1077 pubblicato il 03 Giugno 2023 da rteo1

IL SENSO IN SÈ E LA PARTECIPAZIONE

L'uomo ha bisogno di dare un "senso" al suo essere nel mondo. Qualunque senso sia, materiale o spirituale, reale o ideale, non fa alcuna differenza. Ciò che conta è "crederci", almeno finchè non si scopra l'inganno fatto a sé stessi. D'altronde va anche "umanamente" compreso perché non è facile accettare di essere un "animale", per quanto ritenuto (dallo stesso uomo) più evoluto, tanto da autodefinirsi "homo sapiens". E la sua esigenza di "dare un senso" è soprattutto in funzione del "dopo". Anzi, è proprio quest'ultimo, "il dopo", che lo tormenta di più, tanto che i più fragili psicologicamente - ossia la stragrande maggioranza degli umani - preferiscono non pensarci e fare ricorso ad inutili e superstiziosi "scongiuri" e a bizzarri e folcloristici rituali per cancellare, almeno dalla mente, l'evento finale, cioè il "passaggio di stato", che tuttavia è necessario alla vita e per la vita. Il pensiero di dare un senso alle cose, alle azioni, agli accadimenti, che si manifestano nella realtà fenomenica strugge l'intera esistenza. È infatti il pensiero che tormenta l'intero corso della vita "terrena". Non di tutti, ovviamente, ma di certo di tutti coloro che sono convinti che il pensiero(libero) sia il mezzo di interlocuzione con l'universale, col Tutto, l'infinito, l'indeterminato, l'Essere. La Costituzione italiana lo "celebra" all'art.21, comma 1, ove è sancito che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", salvo, poi, limitarlo, al comma 6 : "Sono vietate le pubblicazioni a mezzo stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni", oltre a sanzionarlo penalmente con i "reati di opinione" (vilipendio) e di "satira" (ingiuria e diffamazione).  Ma questo "dualismo" costituzionale e giuridico non è altro che la prova indiretta che ad essere duale è proprio "il pensiero" allorquando si concretizza nello spazio-tempo. Anche se si ha "paura" di ammetterlo, perché crollerebbe una certezza fondamentale su cui è stato strutturato l'intero "castello di sabbia" degli esseri umani. Hegel nel suo saggio "La fenomenologia dello spirito", sosteneva che "la realtà è autocontraddittoria, tende a superare sé stessa e a diventare altro da quello che è"; diceva anche che l'idea deve manifestarsi e che lo fa diventando realtà naturale la quale ha in sé la "razionalità". In altri termini, trattasi di una concezione dell'idea simile a quella platonica che prevedeva l'intervento del "Demiurgo artefice" nella mediazione tra il mondo delle idee e le relative forme (copie) imperfette realizzate nella natura e, altresì, della visione "conflittuale" eraclitea di tutte le cose durante il divenire. Il dilemma, comunque, per i limiti e le imperfezioni che caratterizzano gli umani, è comprendere se l'idea sia già in sé "autocontraddittoria" oppure se lo diventi dopo, nel momento in cui l'idea (mediata e a causa di questa "mediazione") diventa "realtà" (l'energia-materia che acquista forma, con origine dal "mondo quantico"). Ovviamente la risposta può essere soltanto relativa, soggettiva, a seconda dell'esperienza, della conoscenza, della visione che ciascuno ha della vita, dell'universo e delle sue leggi. Postulare, perciò, che il pensiero collegato al mondo delle idee universali sia contraddittorio in sé perché già le idee sono autocontraddittorie vuol dire che lo è tutto l'universo e che, di conseguenza, lo sono anche, inevitabilmente, tutte le decisioni umane (individuali o collettive, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.). In questo caso, perciò, non sarebbe giustificabile nessuna "condanna" degli umani, che devono essere tutti "assolti" da ogni colpa, perché essi sono "prigionieri" del "dualismo cosmico". Certamente i cultori del mito del "libero arbitrio" non accetteranno mai l'esistenza del principio del determinismo, del meccanicismo, cui credeva Einstein, e del Destino, inteso come "la necessità dell'esser sé" di ogni cosa (uomini inclusi) che "non può non essere ciò che è", anche durante il "divenire", cioè quando si trasforma per diventare (apparentemente) "altro da sé" (il neonato, il bambino, l'adolescente, l'adulto, il vecchio). Pertanto ci sarà sempre un "dualismo" tra coloro che credono nell'Indeterminismo, il caos, e quindi la casualità, posta a base dell'universo (in particolare nel mondo subatomico, secondo il principio di indeterminazione di Heisemberg), e i sostenitori del principio del determinismo, il cosmos, la regolarità e immutabilità delle leggi della fisica generale. Anche se, a dire il vero, e in linea con quanto già sopra accennato, non si possa escludere che sia il "determinismo" che "l'indeterminismo" siano coesistenti, coessenziali, come l'energia e la materia, perchè come sosteneva Hegel "la verità è nel tutto" ed Eraclito affermava che "la saggezza consiste nel comprendere il governo del tutto mediante il tutto". Un "Tutto", quindi, che si manifesta in forma "duale" nel divenire, nel quale appare, e perciò anche il dualismo "senso-non senso" dell'esistenza umana. Anche se risulta arduo comprenderne la "ragione" mediante la "ragione" perché questa non è un assoluto ma soltanto un "mito" umano. La c.d. "ragione", infatti, se vi è dualismo, come appare nelle cose, non può non essere commista con l'anti-ragione, o con l'irrazionalità, la quale coabita nel subconscio unitamente all'Io e al superIo. La "commistione", quindi, la "simbiosi", come tra l'energia e la materia, dev'essere, perciò, il paradigma mentale che deve guidare ogni ricerca del pensiero umano. Anche  in ordine alla ricerca del  "senso", mettendo in conto che esso possa essere un tutt'uno col "non senso", anche quando le convenzioni umane impongano separazioni e differenze, premi e punizioni, elogi e sanzioni, a seconda del "senso e del non senso". E ciò è inevitabile perché purtroppo il "pensiero umano" non è libero ma è socialmente condizionato, segregato e plasmato dalle "regole" politiche generali, morali e religiose che governano gli aggregati civili, la mente e la psiche umana. E così anche la "ragione", il "logos" mitizzato dalla civiltà occidentale, diventa in assoluto inaffidabile, e di ciò se ne ha prova quando i governi decidono di mandare al "massacro" i popoli e di annientare i sogni dei giovani per degli illusori segni, simboli e ideologie, come narra Ignazio Silone ne "La scuola dei dittatori", anziché sedersi a un tavolo della diplomazia per trovare almeno una soluzione possibile tra le infinite soluzioni. E allora, stando così le cose (senza prova contraria, peraltro difficile a darsi), occorre ora affrontare la seguente domanda: esiste un senso in sé, in generale, e della stessa vita ? Una canzone dal titolo "Un senso" di un noto artista italiano contiene il seguente brano: «Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l'ha ». Gli artisti, si sa, hanno una sensibilità particolare che consente loro di travalicare i limiti della "ragione" e di avvicinarsi al "senso ontologico" delle cose e del Tutto. Bisogna, perciò, tenerne sempre conto, ma non si può, ovviamente, abdicare mai la verifica, la ricerca del fondamento mediante il proprio pensiero. Ed è proprio questo che fa subito emergere l'aporia, la contraddizione in sé, del predetto brano musicale: se si ritenga, infatti, che la vita non abbia senso, allora non ha senso cercare (trovare) un senso. Invece è evidente l'errore di escludere, a priori, che "la vita abbia un senso in sé stessa" (così come la sua antagonista: la morte). Certamente questa soluzione ridimensiona l'uomo e il suo egocentrismo ma consente di comprendere che non è vero che non esista alcun senso, in assoluto, ma che invece il senso esista, come "senso in sé", sia della vita che di tutte le cose, e inoltre che questa "conclusione" non impedisce agli uomini di darsi e dare un senso, ma con la consapevolezza di essere delle "maschere" (non a caso detti "persone", ossia "maschere") ma anche delle "macchine biologiche programmate" (come, ad es., l'apoptosi). Un modo, seppur indiretto, per "dimostrarlo", tra i tanti possibili, risulta essere quello relativo ad alcuni rituali fondamentali esistenti in natura. Il primo è certamente quello del "corteggiamento", finalizzato alla riproduzione. Tutte le specie viventi sono "schiave" di tale rituale, che prelude la selezione del partner. Solitamente è il "maschio" che si esibisce, come in teatro, assumendo le "pose" più ardimentose, ma anche "ridicole", al tempo stesso. Si ostentano piumaggi, suoni, canti, stridii, muscoli, e si fa ricorso alla "competizione", alla "lotta", tra gli aspiranti per il primato dell'accoppiamento. La "femmina" solitamente attende che la "contesa" abbia termine, e a volte sceglie anche il partner che ritenga più idoneo allo scopo (questa libertà di scelta e anche d'iniziativa sono diventate, ormai, "patrimonio culturale" di buona parte del "mondo occidentale"). In natura, quindi, tutto avviene secondo la "competizione" in vista dell'accoppiamento per la "riproduzione". È questo, quindi, il "trofeo", il "premio" in palio, che consente la trasmissione del "patrimonio genetico" e la prosecuzione della specie. Anche gli esseri umani soggiacciono alle stesse leggi della natura. Ma essi, che hanno anche il "dono" della fantasia, frutto della follia che abita l'inconscio, ci aggiungono anche altro, che è il prodotto della società e della cosiddetta "civiltà": i riti. Sono questi, infatti, che più di tutto marcano la differenza tra gli umani e le altre specie viventi, e non perché queste ultime non abbiano i propri "riti", giacché anch'esse ne hanno (secondo natura), ma perché gli umani hanno anche l'esigenza di "dare senso" alle proprie azioni, per cui "inventano" rituali, spesso bizzarri ed estrosi, che a volte travalicano ogni (buon) senso, fino al punto che "il senso non ha più alcun senso". Per comprendere queste "pazzie" tipiche del mondo umano è sufficiente riflettere sulla complessità e varietà dei "corteggiamenti", ma anche sull'accoppiamento, che precede, prescinde, o segue il rituale del "matrimonio", che spesso si conclude con i "festeggiamenti" a cui prendono parte "processioni" di invitati. Lo stesso dicasi per i "rituali" politici, istituzionali, sociali prescritti dalle "regole" giuridiche, etiche, morali, religiose, che a volte non hanno alcun collegamento col reale, col naturale, "costringendo" gli individui e le masse a credere o accettare per fede (o per appartenenza) che simboli e segni abbiano in sé ed esprimano principi e valori "assoluti", trascendenti, metafisici, senza rendersi conto che durante lo spazio-tempo del divenire, senza il libero pensiero, "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito". E ciò nonostante, gli umani  continuano a voler imporre in generale le loro produzioni, sacralizzandole con i riti, come se fossero l'espressione della "verità". Alla base, comunque, dell'esistenza, sia umana che non, vi è, come detto, la "competizione" che, in generale, secondo natura, è finalizzata alla "riproduzione". La competizione, perciò, e la riproduzione costituiscono, in generale, i veri fondamentali della natura di tutti gli esseri viventi e delle organizzazioni umane. Anche le "leggi", quindi, così come la competizione per l'assunzione di funzioni e ruoli pubblici, hanno come substrato, più o meno inconscio, dominato dall'economia della specie, il fine della "riproduzione". In ordine a quest'ultima giova sottolineare che essa nell'élite intellettuale e creativa tende spesso a "sublimarsi" e, così, l'élite trae "piacere"  dalla creazione di prodotti artistici, culturali, politici, economici, ovvero, nel campo istituzionale, mediante la identificazione col potere costituito, e, nel mondo religioso, con la missione verso il trascendente. La riproduzione, perciò, quale esigenza primaria ed essenziale per la natura, interconnessa con la competizione, nel consorzio umano impone il suo "senso in sé", non curandosi  del "senso-nonsenso umano" che mediante la divaricazione dell'intelletto, per esigenze socio-politiche, oltre che psicologiche dell'individuo, spinge a "dissociare" "l'essere" dal "dover essere", mediante l'apparire (che tuttavia è anch'essa una forma della "competizione"). E cosi può accadere di assistere a "rituali" pubblici, privati e sociali del tutto analoghi a quelli tipici dell'infanzia o dell'epoca dei miti, seppur celebrati con "solennità". Esigenze tutte umane di "dare senso" e credere di essere la "specie prescelta" e di avere il primato assoluto sia in natura che su tutte le altre specie viventi. Ma soprattutto di voler credere di "essere altro" rispetto a ciò che realmente si è e che si manifesta nel "circolo dell'apparire", come sosteneva E. Severino. Tutto comunque, e si ribadisce, si muove sempre in base alla competizione (negli umani solo un gamete, tra diversi milioni, feconda l'ovocita). Nulla e nessuno la può impedire perché essa è alla base della natura (anche la pandemia virale costituisce un esempio di "competizione" tra specie diverse) ed ha senso "in sé stessa". Tale "competizione" in ambito sociale viene disciplinata mediante le "regole" e le istituzioni. Lo sport, come ad es. il calcio, ne costituisce l'esempio per eccellenza, dove il "trofeo" (la coppa) costituisce l'equivalente simbolico del risultato dell'accoppiamento e "riproduzione sessuale o intellettuale". Il "frutto" è il trofeo in palio, la coppa, come l'elezione alla carica pubblica è il premio della competizione elettorale (e il "posto fisso", il premio del concorso pubblico). Certamente senza né regole socio-politiche né istituzioni tutti gli umani sarebbero preda delle basilari "pulsioni naturali" (alimentari, per la sopravvivenza, e sessuali, per la prosecuzione della specie), che pur tuttavia, seppur in modo più o meno inconscio, continuano ad orientare i comportamenti degli umani, singoli e associati. E tanto è vero che analizzando i criteri di distribuzione delle risorse economiche prodotte dalle società "civili" ben si coglie come tali risorse siano distribuite sulla base (iniqua ma resa legale dai legislatori) della "competizione" tra le diverse funzioni e ruoli pubblici e privati, secondo gerarchie più o meno rigide tra classi e caste. Relativamente a queste va detto che la "democratizzazione della Repubblica", come è accaduto nel dopoguerra in Italia (ma anche in molti altri Stati europei), ha consentito di superare le dure ed estreme contrapposizioni sociali di stampo ottocentesco, ben analizzate e sviluppate nel Manifesto del 1848 e nel Capitale di K. Marx, che, secondo la logica dialettica dell'ineludibile conflitto tra le classi, avrebbero dovuto portare la "classe proletaria" (operai e contadini) alla conquista del potere politico diventato prerogativa della "borghesia", che lo aveva sottratto alla "classe feudataria". Per effetto della "democratizzazione", che ha "imborghesito" i proletari, come argutamente osservato dal filosofo Aldo Masullo nella relazione "crisi della fenomenologia e fenomenologia della crisi", la contrapposizione tra le classi si è diluita e affievolita, soprattutto dopo i "moti del 1968". La "contrapposizione democratica", così, nell'attuale Repubblica, ha ridimensionato il potenziale "rivoluzionario" della "classe proletaria" e ha assunto la forma e la natura della "competizione" tra molteplici "gruppi di interessi" (partiti, in primis, sindacati, corporazioni professionali, burocratiche, istituzionali, associazioni, ecc.). La "competizione" è ora la "regola" delle diverse dinamiche sociali per l'accaparramento delle risorse economiche (il "premio") direttamente e indirettamente finalizzate alla "riproduzione" (scegliere o essere scelti dal partner), o alla sublimazione (assunzione ed esercizio del potere o realizzare opere d'arte). L'esperienza, però, soprattutto di questi ultimi tempi, ha reso evidente che la "competizione", quando concerne gli Stati, può spingersi finanche nel campo bellico nel quale, a causa dell'esistenza delle pulsioni distruttive nell'inconscio umano, è la soppressione della vita del "nemico" che diventa il "trofeo" da conquistare. E così gli "Stati", strumenti idonei ad esaltare le virtù dei cittadini, quando mal governati, diventano  amplificatori delle "pulsioni distruttive"  e strumenti di morte anziché di vita. Perciò non bisogna mai sopprimere gli "anticorpi politici" per impedire che qualunque umano, a qualsiasi vertice si collochi nella gerarchia politica, possa avere il potere assoluto di "mandare al macello" il "Popolo" di cui è parte. Già troppe inutili e futili tragedie hanno funestato la "storia". Basta, perciò, col "rito della potenza" fine a sé, per alimentare la "potenza" perché alla fine sarà la stessa potenza a distruggere sé stessa. La conoscenza finora acquisita, anche grazie all'eredità ricevuta  dalle generazioni passate, dalla cultura, dalla scienza e dalla tecnologia, fa tuttavia ben sperare e ritenere che il (buon) senso umano, per evitare l'estinzione della specie, trasferisca, prima o poi, tutte le divergenze nel solo campo della "competizione", economica, politica e "intellettuale". La competizione, pertanto, per il bene comune e collettivo, incluso quello degli Stati, dovrà essere "democraticamente" estesa in tutti gli ambiti, sia locali che "nazionali" e internazionali. Non vi è dubbio che la "competizione" metterà da parte le odierne civiltà più "evolute" (e anche l'attuale democrazia, come già si coglie dai segnali che si registrano sia all'interno che all'esterno dell'Italia). Ma questa sarà solo la prova dell'esistenza del ciclo vitale di tutto ciò che esiste in natura, la quale, come tale, e come detto, ha "senso in sé", così come la "competizione", che potrà salvare la specie umana se ben intesa e praticata in linea col motto: L'importante non è vincere, ma partecipare. 

 
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IL PRESIDENZIALISMO DEMOCRATICO

Post n°1071 pubblicato il 13 Marzo 2023 da rteo1

IL PRESIDENZIALISMO DEMOCRATICO

In Italia da anni si parla di "presidenzialismo", così come di altre riforme costituzionali, come ad esempio quella della separazione delle carriere (o dell'Ordine) tra la magistratura inquirente e la giudicante. Questa legislatura sembra essere "politicamente buona" per introdurre nella Costituzione italiana il (semi)presidenzialismo (alla francese) perché il governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene l'hanno posto come punto fondamentale del programma elettorale e hanno confermato nelle sedute ufficiali che intendono approvarlo. Anche senza il contributo delle forze politiche di opposizione, se dovesse rendersi inevitabile. Comunque vada, è tuttavia opportuno (o necessario) che l'eventuale approvazione della legge di riforma sia sottoposta al vaglio referendario, sperando che non si concretizzi la disposizione del co.3 dell'art.138 della Costituzione: "Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti". Va detto, per "onestà intellettuale", che nessuna Costituzione dura in eterno, così come neppure la democrazia ateniese durò oltre i due secoli, con fasi alterne, tra cui anche un periodo dittatoriale. E di questo era ben cosapevole Solone il quale, incaricato dagli ateniesi di dare loro una Costituzione e delle leggi per superare le frequenti guerre civili, le approvò e ne fissò la durata in cento anni, e per evitare condizionamenti e "pressioni" sociali si allontanò dalla polis per una decina di anni. Anche a Polibio era ben nota la "ciclicità" delle Costituzioni, il quale l'associava al ciclo della natura, così come Gaetano Filangieri era convinto anche della ciclicità della legislazione. Niente di nuovo, perciò, se oggi si stia parlando di riformare in senso "presidenziale" la Repubblica italiana. D'altronde ciò è previsto anche dalla vigente Costituzione, che all'art.138, innanzi richiamato, lo consente (con la doppia approvazione), e ne è prova il fatto che, fino ad oggi, sono state già approvate molte modifiche della Carta (tra le più incisive vi è certamente la riforma del Titolo V sulle autonomie delle Regioni, su c.d. "giusto processo" e la recente riduzione del numero dei parlamentari). Indubbiamente il clima socio-politico-economico italiano, con circa dieci milioni di poveri (relativi e assoluti) e molte aziende che hanno già chiuso o stanno per chiudere i battenti, e il contesto geopolitico europeo e mondiale in cui molti Stati hanno piegato la "ragione" alla supremazia della volontà di potenza mediante l'impiego delle armi per risolvere conflitti etnico-territoriali e prendere parte attiva ad una farneticante guerra alle porte dell'Europa, consiglierebbero di risolvere prima di tutto i problemi quotidiani e di sopravvivenza di molti cittadini messi in ginocchio dalla crisi globale economica ed energetica. E, inoltre, di prendere sul serio gli estremi cambiamenti climatici sulla terra e la scarsità dell'acqua potabile in molte aree del pianeta colpite da lunghi periodi di siccità. Tuttavia, si deve anche riconoscere al mondo della c.d. "politica" pure la necessità dei suoi riti, sia in termini di programmi elettorali che di attuazione degli stessi. Ovviamente, prima di operare, però, un cambamento dell'attuale assetto costituzionale dello Stato occorrerà riflettere a lungo sul se sia proprio necessario, sul perché farlo e come intervenire circa la ripartizione dei poteri, avendo sempre ben chiaro che ogni scelta politico-istituzionale deve migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini e mai peggiorarle (come sarebbe, ad es., gettare le basi per futuri regimi dittatoriali). Bisogna, perciò, mettere da parte le "bandierine ideologiche" e "ragionare", prima di compiere passi così importanti per l'equilibrio istituzionale della Repubblica italiana. L'operazione "chirurgica" da eseguire in senso politico, costituzionale e giuridico inciderebbe, come ormai a tutti noto, sulla ripartizione, nell'ambito della Repubblica, dei fondamentali poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. In tale contesto, nell'attuale forma della Repubblica democratica, il ruolo del Presidente della Repubblica entra in relazione con tutti i poteri. È pertanto inevitabile che inclinando l'asse di tale eminente funzione verso una delle predette tre funzioni (come, ad es., quella governativa, di cui si tratta) si altererebbe l'equilibrio generale dell'intero regime repubblicano-democratico. Pertanto, una tale riforma implica un necessario riassetto generale di tutti i poteri statali per "dosare" in modo equilibrato il rapporto tra i poteri secondo il noto principio della separazione previsto da Montesquieu nel famoso libro "Lo spirito delle leggi" (Esprit des lois) in cui lo si esaltava e giustamente come strumento idoneo ad impedire il sorgere delle tirannie, dei dispotismi, delle dittature. Già Aristotele, però, nella sua opera "Politica", coglieva l'importanza della divisione dei poteri nell'ambito della "polis", dopo aver esaminato e descritto ben oltre un centinaio di Costituzioni vigenti durante il suo tempo e di quello a lui immediatamente precedente. E dalla tradizione anglosassone si recepiva anche il principio del "bilanciamento dei poteri" (check and balance) e del controllo reciproco tra i diversi poteri statali come migliore tutela di qualunque comunità politicamente organizzata. E tuttavia, malgrado tutte queste cautele, non si è mai riusciti ad impedire del tutto l'avvento del "capo", diversamente denominato nel corso della storia (Duce, Zar, Caesar, Führer, Califfo, Faraone, Scià, Rex, ecc.). E la stessa storia ha anche registrato nei secoli passati l'avvento del "principato" allorquando, nella Repubblica dell'impero romano, si passò dalla "Repubblica aristocratica" (senatoriale) a quella del "princeps" (l'imperatore romano). Occorre, perciò, stare sempre in guardia nell'elaborare le diverse formule politiche per evitare che si legittimi un "princeps", ossia un "capo", un uomo solo al comando, divinizzato, idolatrato, venerato e acclamato, perché una tale soluzione è sempre, in generale, foriera di tragedie per il popolo sottoposto a tale potere monarchico e al genere umano. L'impresa ovviamente non è facile perché la stragrande maggioranza degli uomini ha la vocazione al ruolo di  "gregari", ovvero a voler essere "servili", come ben sosteneva De la Boetie nell'opera "Discorso sulla servitù volontaria", tuttavia è doveroso per gli "uomini di libertà" ma anche di quelli "dell'amore", come li distingueva L. De Crescenzo, tentare di impedire che ciò possa accadere e adottare tutti i rimedi possibili affinché nessun "umano", almeno in Europa, diventi più un "princeps", inteso come "padre-padrone" di un popolo. Perciò bisogna essere sempre convinti che il "presidenzialismo" (o altra riforma) deve essere sempre "un mezzo" rispetto ai benefici che tutto il Popolo (nessun cittadino escluso) deve trarne, sia in termini di benessere che di libertà, individuali e collettive, oltre al miglior funzionamento dei poteri dello Stato, anche in senso di trasparenza generale dell'attività pubblica. Inoltre, va sempre tenuto presente che in natura "l'istituzione in sé" non esiste (è una "creazione" artificiale del diritto) e che essa per "agire" deve essere incarnata necessariamente da una persona fisica, ossia da un umano che, come tale, per "volontà suprema universale", è inevitabilmente imperfetto, nel senso che, per quanto sia "geniale" in un campo, ha sempre dei difetti psico-fisici e biologici che non possono essere assolutamente eliminati. Perciò la soluzione non potrà mai essere un rimedio politico, né che sia l'elezione diretta nè indiretta, anche se la scelta della prima esprime una maggiore democrazia del regime di governo. Pertanto, poiché ciascuno "conosce sé stesso" (o dovrebbe) e anche i propri simili ci si dovrà seriamente interrogare su quali e quanti poteri sia opportuno e necessario attribuire ad un umano, prima di dare il proprio consenso politico alla riforma in senso "presidenziale" della Repubblica, che sia alla francese o all'americana, oppure ispirata da altre latitudini. Ed è, altresì, anche utile riflettere sull'errore, diffuso non solo tra le diverse forze politiche ma anche tra i migliori politologi e accademici, che l'elezione diretta del PdR implichi necessariamente anche l'attribuzione allo stesso degli effettivi poteri di governo. Invero ciò, come di seguito meglio si preciserà, non è assolutamente indispensabile dal punto di vista democratico, perché una cosa è la partecipazione diretta del popolo (i cittadini elettori) nella scelta del candidato alla carica costituzionale o istituzionale altra, invece, la "quota" di potere da attribuire al Presidente (Pdr) nel quadro generale dei poteri costituzionali. In altri termini, ben si potrebbe, eventualmente, prevedere l'elezione diretta del PdR ma senza intaccare minimamente le attuali funzioni allo stesso già riconosciute dalla vigente Costituzione. E questa scelta non sarebbe assolutamente riduttiva del ruolo del Pdr bensì sarebbe da ritenere maggiormente "democratica", perché consentirebbe direttamente al Popolo anziché al Parlamento di eleggere il Pdr, il quale conserverebbe gli stessi poteri oggi riconosciutigli, che non sembrano essere né pochi né marginali. E per avere maggiori elementi sui cui poter riflettere risulta opportuno richiamare alcuni articoli circa gli attuali poteri: Art.87: "Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di inziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica"; inoltre: Art. 85: Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni (senza alcun limite formale ai mandati); Art.88: "Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse"; Art.92: "Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri"; Art.126: Con decreto motivato del Presidente della Repubblica sono disposti lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della giunta..."; Art. 59: È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare (cinque) senatori a vita..."; Art.135: "La Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo  dal Presidente della Repubblica...". Come ben si evince dalle norme innanzi richiamate il PdR s'inserisce nelle procedure della "funzione legislativa" (promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge, autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo, e può sciogliere le Camere), della funzione esecutiva (nomina il Presidente del Consiglio dei ministri, i funzionari dello Stato, ha il comando delle Forze armate), della funzione giudiziaria (Presiede il Consiglio superiore della magistratura) e della funzione di garanzia della Costituzione (nomina un terzo dei giudici della Corte costituzionale). Non sembrano pochi i poteri, in verità. Ma allora che cosa si vorrebbe cambiare con la riforma ? Dagli Atti Parlamentari della passata XVIII legislatura (vds. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. PdL n.42) si rilevano, in sintesi, le seguenti novità che s'intendeva introdurre nella Costituzione: "Il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto. Riduzione a quaranta anni l'attuale limite dei cinquanta anni per essere eletto a Pdr; Il Presidente della Repubblica è eletto per cinque anni. Può essere rieletto una sola volta. Il Presidente della Repubblica nomina il Primo ministro e, su proposta di questo, nomina e revoca i ministri. Il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri". In ordine all'elezione "diretta", come già sopra detto, non c'è alcuna obiezione da fare, ovviamente; anzi, essa amplia certamente la "democrazia" "concessa" dalla Costituzione repubblicana (magari ce ne fosse di più, per es. per la scelta di altre alte cariche apicali costituzionali, e anche in ordine all'iniziativa legislativa dei cittadini e a quella referendaria). In tale modo si riducono i "limiti" di cui all'art.1 che sanisce: "...La sovranità appartiene al Popolo ... nei limiti della Costituzione". È proprio questo "principio fondamentale" che "regola" l'esercizio della Sovranità popolare nella Repubblica, ben intesa quest'ultima, e descritta già da Aristotele, nella sua opera "Politeia", e da Cicerone, nella "Res publica", come il "complesso delle cariche pubbliche dello Stato" le quali, nella democrazia, poiché è il Popolo ad avere il "governo dello Stato" è lo stesso popolo ad assunmere le cariche, per cui l'elezione "diretta" anziché l'indiretta costituisce la migliore espressione della democrazia. Riconoscere, perciò, al Popolo il "suffragio universale e diretto" per l'elezione del Presidente della Repubblica consolida e rafforza la partecipazione democratica nella vita della Repubblica. Anche la durata del mandato a cinque anni, con la possibilità di una sola rielezione, sembra garantire maggiormente la democrazia, e si pone in linea con altri Stati europei dove la durata complessiva non supera i dieci anni e i due mandati. Più problematica, invece, appare la "nomina del Primo ministro" (non più semplice Presidente del Consiglio) e il potere di "presiedere il Consiglio dei ministri", soprattutto perché non vengono riviste tutte le altre competenze previste dalla vigente Costituzione, come, ad es., quelle relative alla "funzione legislativa", alla funzione "giudiziaria" e anche quella di "garanzia" (la nomina dei cinque Giudici della Corte costituzionale). È questo il vero vulnus della suddetta proposta di riforma in senso "presidenziale" dell'attuale Repubblica democratica. Gli italiani finora hanno avuto la possibilità di conservare il "gioco democratico" tra i diversi poteri e organi dello Stato a garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini grazie ad una "classe politica"  e ai partiti che avevano provato l'amara esperienza della seconda guerra mondiale e la dittatura. Da allora il "clima politico" è notevolmente cambiato, e anche il relativo livello di etica e moralità pubblica. Perciò non si può più escludere in assoluto il rischio di poter dare ingresso, nel futuro, a regimi di tipo totalitario; e neppure potrebbe impedirlo l'U.E., dove la democrazia è ancora lontana e il potere è burocratizzato e spostato verso il Consiglio europeo e la Commissione, che è un organo tecnico che si cura dei mercati e della finanza, mentre i costi istituzionali continuano a lievitare (l'U.E. spende circa 170 mld annui di euro e l'Italia contribuisce con circa 17 mld di euro all'anno). E neanche l'alleanza "occidentale" o "euroatlantica", che valorizza soprattutto lo strumento militare contro il "resto del mondo", può facilitare decisioni governative che limitino le libertà e i diritti fondamentali dei cittadini conquistati con il prezzo del sangue delle giovani generazioni passate. Per quanto innanzi detto, quindi, l'unica "riforma" che consenta il "presidenzialismo democratico" è soltanto l'elezione diretta del Presidente della Repubblica che conservi tutti e solo gli attuali poteri previsti dalla vigente Costituzione, senza alcuna ulteriore modifica della vigente Carta costituzionale, se non le sole norme che ora attribuiscono al Parlamento in seduta comune tale elezione. Ferma restando, comunque, la chiamata referendaria del Popolo per confermarne l'approvazione. Con la consapevolezza, ovviamente, dell'inevitabile "ritorno all'origine secondo l'ordine del tempo", come previsto da Anassimandro, e dell'azione imprevedibile dello "spirito oggettivo" sul mondo, come sostenuto da Hegel. Senza tuttavia escludere che, in attesa di tempi migliori, possa risultare democraticamente utile abbandonare (o accantonare) l'iniziativa politica, anche per "comprendere" più in profondità i delicati meccanismi del bilanciamento dei poteri, la loro necessaria separazione, e, in particolar modo, le dinamiche psicologiche e biologiche degli esseri umani, sia dei capi che dei gregari, sia dei liberi che degli schiavi.

 
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MEZZI E FINI DELL'UOMO

Post n°1070 pubblicato il 08 Gennaio 2023 da rteo1

MEZZI E FINI DELL'UOMO

Gli uomini fin dal "fuoco" di Prometeo "inventano", realizzano e costruiscono ogni cosa per migliorare le condizioni di vita individuali e collettive. Essi ne hanno bisogno, soprattutto per la propria esistenza e difesa perché sono carenti di istinti naturali, posseduti, invece, fin dalla nascita, da tutte le altre specie animali. "L'intelligenza", l'ideazione, l'immaginazione, l'esperienza, costituiscono le fonti principali da cui attingono per concretizzare i propri strumenti atti a potenziare i propri sensi, talenti e abilità. Tutto, comunque, è "creato" sempre con lo scopo, almeno iniziale e dichiarato, di farne uno strumento, un mezzo, anche se poi spesso accade che tale "mezzo" diventi un "fine". In particolare, quando il mezzo, a causa della follia umana, venga "rivestito", ammantato, di finalità sovrumane, ultraterrene, tali da renderlo oggetto "sacro", da venerare. E ciò accade anche rispetto a delle "idee astratte" che, soggettivamente e relativamente trasformate in "simboli" reali e concreti, assurgono a emblemi, modelli, "principi" e "valori universali", assoluti, che devono essere doverosamente e obbligatoriamente "ossequiati" per ciò che è stato d'autorità o convenzionalmente stabilito che essi "rappresentino" e non invece guardati, analizzati, radiografati, per ciò che in realtà essi sono in senso materiale, ossia dei puri oggetti fisici. Certamente questi processi sociali di "sacralizzazione" di oggetti materiali (frutto di aggregazioni di atomi in vibrazione) hanno in sé stessi delle patologie, anche se sul piano psicologico hanno un effetto di collante delle società, delle identità "nazionali", che sono un bene ma anche un male perché generano conflitti e possono sfociare anche in guerre. Gli uomini, comunque, amano mascherare e travisare la realtà, anche mentendo a sé stessi. Si illudono, così, anche di garantire in perpetuo l'ordine quando, invece, tale "ordine" alimenta il "disordine", che scaturisce dall'inevitabile entropia del sistema proprio a causa dell'energia necessaria per mantenere l'ordine. La realtà, invece, è che "Il re è nudo", come disse il bambino della fiaba di Andersen "I vestiti nuovi dell'imperatore". E per questo forse aveva ragione Nietzsche nel ritenere che né il cammello né il leone fossero il "superuomo" bensì il bambino perché privo dei condizionamenti del "SuperIo", senza alcuna responsabilità, guidato solo dall'inconscio, dalla voglia di divertirsi e dai sensi della natura. In ogni caso, il rapporto "mezzo-fine" deve sempre costituire un vincolo indissolubile, la strada maestra da seguire, da parte di qualsiasi società che abbia raggiunto un elevato livello di civiltà e di rispetto dei diritti, della dignità e delle libertà fondamentali degli uomini e dei cittadini. Scambiare, infatti, l'ordine dei fattori, ossia far diventare "fine" il "mezzo", può trasformare gli uomini in schiavi, non solo dal punto di vista culturale, intellettuale, ma persino fisicamente; come ad es. mediante incarcerazione, per aver espresso una libera "critica" del "modello", del "simbolo", magari con lo scopo di stimolare la riflessione e la crescita culturale della collettività la quale deve essere sempre consapevole che tutto ciò che l'uomo "crea" è soltanto "mezzo", anche quando sia convenzionalmente posto come "fine". L'unico "fine", infatti, è "il fine in sé", il fine universale, che appartiene soltanto all'assoluto, rispetto al quale tutte le cose, uomini inclusi, sono solo un "mezzo", parte del "fine ultimo". Perciò tutti i "fini temporali" degli uomini sono soltanto delle fantasie, frutto dell'antropocentrismo, che bisogna sempre ridimensionare e portare al loro giusto ruolo di mezzi, per impedire il dominio degli uomini sugli uomini. Pertanto bisogna avere sempre ben chiaro che, a prescindere da chi governi temporaneamente la società, l'uomo deve essere sempre al di sopra di qualunque creazione, "istituzione", invenzione, o ideazione umana. Anche quando trattasi di principi e valori come la vita, l'esistenza, la libertà, la dignità, la democrazia, la solidarietà, perché anch'essi devono essere dei mezzi al servizio dell'uomo e del cittadino. Anche, e soprattutto, il denaro e la tecnica, che sono diventati, ormai, dei "totem" adorati dagli umani. Per questo bisogna sempre essere vigili affinché il "potere", principalmente politico, ma anche di qualsiasi altra natura, relativo a qualsiasi livello sociale e ordinamentale, locale, nazionale e internazionale, sia sempre e solo strumento al servizio dei cittadini e mai il "fine", tenendo anche ben presente che il "potere" s'incarna necessariamente nell'uomo e che questi rischia sempre di esserne deformato e assimilato tanto da identificarsi, confondersi, con lo stesso potere. E che il "fine politico" deve essere sempre il "benessere di tutti i cittadini" (neanche uno escluso, o emarginato) e la ripartizione di tutte le risorse prodotte dalla collettività deve essere sempre equa e solidale, intendendosi per "equa" soltanto la distribuzione "paritaria" o, a limite, contenuta tra un minimo e un massimo secondo un rapporto di uno a quattro (come sosteneva Platone), dal momento che nelle società contemporanee vige la "specializzazione" del lavoro (per cui nessuno basta a sé stesso). Così come avviene più in generale in natura, a partire dalle cellule di ogni organismo vivente che si aggregano e si specializzano, per poi andare verso la conclusione del proprio ciclo vitale. Un rimedio contro le "devianze" umane a causa delle malìe del potere potrà essere l'avvicendamento costante nei ruoli e funzioni e la prescrizione di limiti inviolabili di età (max 70 anni) per uscire di scena, per indurre gli umani "ammalati" di potere ad occuparsi di sé stessi in funzione del "dopo". E potrà essere utile anche sancire che il nome e cognome della persona fisica precedano il titolo della funzione (così si evita anche il "problema" dell'articolo e della vocale maschile o  femminile rispetto alla "neutralità" dell'istituzione e si rende chiaro che quest'ultima è un mezzo e non un fine). È il mondo della politica e delle sue articolazioni, infatti, l'ambito nel quale accade spesso che siano "venerati" e "osannati" anche degli umani, senza razionalmente considerare che trattandosi di umani sono per ciò stesso anch'essi parte della medesima specie animale, con tutti i vizi (tanti), difetti (molti), con limiti fisici, psichici e mentali, e qualche virtù, relativa al regime socio-politico di riferimento. Come innanzi accennato le spiegazioni relative ai comportamenti umani sono certamente molteplici, e spaziano dal campo della mitologia all'antropologia, dalla psicologia alla sociologia, dalla teologia alla genetica, dalla fisica alla chimica. La "sacralizzazione" e la "divinizzazione", sia degli umani che di tutte le loro "creazioni" materiali e concettuali, sono certamente una grave malattia da cui bisogna necessariamente guarire e fintanto che questo non accadrà l'uomo sarà sempre culturalmente un primitivo, un cavernicolo, "un ponte tra la scimmia e il superuomo", come sosteneva Nietzsche, anche se ha vinto la sfida contro la legge della gravità mettendo in orbita satelliti e stazioni spaziali e sta realizzando il teletrasporto con la fisica dei quanti. Eppure siamo giunti, ormai, nel terzo millennio d.C., per cui bisognerebbe iniziare a scrivere una nuova storia, diversa da quella finora scritta, che è stata soprattutto l'elencazione cronologica delle numerose battaglie epiche e della mitizzazione dei vari condottieri, spesso definiti "magni" per pura propaganda e limitazione mentale. E sarebbe sufficiente a far invertire e modificare la rotta della storia la riflessione sui dati dell'ultima guerra mondiale che ha lasciato "sul campo" europeo e dell'est asiatico oltre sessanta milioni di vittime; e pensare altresì alle conseguenze devastanti delle bombe nucleari sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki che cancellarono le due città (oggi gli ordigni nucleari hanno una potenza distruttiva di migliaia di volte superiore e ci sono Stati che ne possiedono alcune migliaia). Eppure si continua a parlare con disinvoltura di "guerra nucleare", come se fosse una vacanza in crociera anziché una follia umana in grado di distruggere la terra. È fuori di dubbio, perciò, che l'uomo sia ancora un "minorato culturale", e non fa alcuna differenza che sia un comune cittadino o sia alla guida di potenze statali nazionali e mondiali (Non è l'abito che fa il monaco). Perciò è senz'altro terapeutico "metterlo a nudo", secondo Madre natura, anziché "sacralizzarlo", "venerarlo", idolatrarlo, perché tali "divinizzazioni" fanno sì che la sua follia diventi incontenibile, così come accadeva con i "Cesari pazzi" durante l'impero romano. E la cura deve necessariamente partire dalla diagnosi della patologia che ha come oggetto dell'analisi e della riflessione il processo aggregativo e disaggregativo, in generale e degli umani in particolare. Bisogna riconoscere che in natura tutto si aggrega, si "organizza", a partire dalle particelle subquantiche, per dare infinite forme a tutta la materia del mondo macroscopico, dal quale, poi, mediante il divenire dello spazio-tempo si verifica il processo inverso delle singole forme, le quali si disaggregano per ritornare ad essere pura energia. Perciò "nulla si crea, né si distrugge, ma tutto si trasforma". Molti "umani" lo hanno compreso; ne sono coscienti, consapevoli, e sono anche autocoscienti. Così come conoscono, ormai, il loro rapporto con le esigenze prioritarie della specie, di fronte alle quali l'Io soccombe sempre; così come crollano tutti i sogni, i progetti, le ambizioni a causa della "decretazione" della "fine del ciclo biologico" da parte della specie la quale, per la sua stessa esistenza, ha la necessità di rinnovarsi e perpetuarsi sempre e solo con "nuova vita"; mediante il costante avvicendamento delle generazioni che si passano il testimone come nella gara della "staffetta" (oggi i nati negli anni '40, subentrati a quelli degli anni '30, stanno "sgombrando il campo" per far "avanzare" in prima linea i nati negli anni '50, mentre si preparano "ai bordi" quelli nati negli anni '60 ancora per poco in "panchina"). Così come aveva intuito Schopenhauer: l'esigenza della vita è una sola: la vita; e aggiungeva: senza alcuno scopo! E di questo ne era convinto anche Leopardi. Trattavasi, però, di reazioni e delusioni dovute alla constatazione dell'inesistenza di alcun primato dell'uomo. Così come quando Blaise Pascal si doleva di fronte al cielo stellato perché l'universo ignorava la sua esistenza e Giobbe si lamentava verso Dio perché non lo premiava per la sua fede. Invece dovrebbe essere, ormai, proprio tale consapevolezza dell'insignificanza universale degli umani ad orientare tutte le loro scelte. A cominciare proprio fin dai fondamentali organizzativi delle società, sia formali che materiali. Nietzsche, a proposito della questione sull'esistenza della "dignità dell'uomo" e della "dignità del lavoro", sosteneva che "l'uomo in sé, in assoluto, non ha dignità, né diritti né doveri". Egli certamente aveva ragione, rispetto "all'uomo in sé", a cui bisognerebbe sempre ispirarsi nel corso della vita, ma con tale idea non sarebbe stato possibile tutelare l'uomo sociale, soprattutto se appartenente alle fasce emarginate, esempre preda degli altri uomini, come la realtà di tutti i giorni insegna. Ecco perché la teoria non può non tener conto dell'attuazione pratica in ambito sociale dove l'uomo è l'homo di Hobbes che vien "mangiato" dai sui simili pur protetto dalla "dignità". Figurarsi, cosa accadrebbe se non avesse neppure l'etichetta formale della "dignità". Ad ogni buon conto, però, secondo "natura" l'uomo non può che essere "uomo", e da questa consapevolezza ne deve necessariamente conseguire, senza alcun dramma né panico per il "senso del vuoto", l'accettazione che tutta la "produzione umana" è soltanto frutto delle convenzioni, per cui queste (relative a qualsiasi ambito ordinamentale) devono avere sempre il limite degli strumenti e mai diventare dei fini. Così come la miriade di enti giuridici, e anche gli organismi difensivi delle "alleanze" politiche e le organizzazioni internazionali. Dev'essere, perciò, sempre ben chiaro a tutti che nulla di ciò che viene concretizzato e istituzionalizzato è vero in assoluto. Così come neppure il pensiero e il giudizio umano che separano il "giusto e l'ingiusto"; e che anche il paradigma legale elaborato dagli organi preposti è soltanto un mezzo di disciplina della condotta dei cittadini che non può mai essere un fine, così come neanche tutte le regole derivanti dalle tradizioni, dall'etica e dalla morale. Va anche compreso che i "ricchi" e i "poveri" pur essendo presenti in ogni sistema sociale a causa della dinamica del conflitto (secondo Eraclito) tuttavia il divario, la diseguaglianza, è solo il frutto delle regole "politico-economiche" e giuridiche, perciò sempre modificabili. E va anche detto che gli uomini hanno la possibilità, mediante il costante controllo dei propri impulsi ancestrali, di valorizzare ed esprimere il loro potenziale di "esseri-umani", ovvero di trascendersi pensando all'Assoluto, di  collegarsi col "Tutto" e comprenderne la "molteplicità" e la "diversità". E tutto ciò è possibile realizzarlo durante il divenire. Eraclito sosteneva che nell'universo tutto è regolato dal conflitto. Ogni singolo organismo ne è pervaso perché ciò è "necessario" alla dinamica di trasformazione. Sono infatti le opposte polarità che impediscono la "stasi" e generano la dinamica nel senso irreversibile della "freccia del tempo". È perciò "cooperazione" nella "competizione" e "competizione" nella "cooperazione" e non "guerra". Freud ha individuato nel subconscio umano sia gli impulsi sessuali (Eros) che distruttivi (Thanatos), ma entrambi sono coessenziali, funzionali, in "cooperazione" e non in antitesi per annullarsi ma per alimentare la trasformazione. È, perciò, da questa consapevolezza che bisogna partire per trovare la migliore medicina possibile per guarire dal male. Occorre accettare il principio che ogni uomo è come "mezzo" fenomenicamente "unico" e che in assoluto nessun uomo è "migliore" né "peggiore" di nessun altro uomo; così come non lo è rispetto a tutte le altre e diverse forme e specie viventi che si manifestano nell'ecosistema e nell'universo. Per questo lo stesso Eraclito invitava a cercare di capire "le ragioni del governo del tutto, mediante il tutto". Nel "Tutto" non c'è, infatti, alcun primato di nessuna singola parte, mentre "il Tutto è più della somma delle singole parti". Perciò l'esigenza del primato umano è in assoluto del tutto fallace. Analogamente, come detto, anche tutte le convenzioni, le regole, che differenziano, distinguono, gli uomini dagli altri uomini sulla base dei ruoli o funzioni; oppure rispetto al c.d. "merito", il quale deve essere anch'esso inteso soltanto come mezzo in funzione del suddetto benessere generale di tutti i membri della collettività tenendo ben chiaro che chi ha "merito" in un campo non ha altrettanto merito in altri campi, e la società, da sempre, e soprattutto quella contemporanea, si fonda ormai sulle specializzazioni dei ruoli. E non ha alcuna giustificazione naturale e universale neppure il "primato" vantato dagli uomini sulle altre forme viventi, perché queste ultime hanno eguale importanza nel "Tutto" (anzi, semmai si potrebbe riconoscere a buon ragione il "primato" delle piante, perché sono le uniche autosufficienti capaci, mediante la fotosintesi, di trasformare l'energia solare in alimento). Bisogna, perciò, considerare tutto ciò che è produzione umana, sia materiale che concettuale, soltanto come "mezzo" e mai come "fine", soprattutto per quanto concerne il "potere di governo". Tutto, infatti, nel reale, e nella società in particolare, è soltanto mezzo perché l'unico fine è soltanto il "fine in sé" dell'Universo e dell'Assoluto, dove si ignora l'uomo, e la vita stessa, che ha avuto inizio senza l'uomo e continuerà comunque dopo di lui. 

 
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