VITE SPEZZATE

VITE SPEZZATE

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FEMINICIDIO: PER NON DIMENTICARE

Cessa il fragore, si spengono le luci e il dolore resta!

Resta il rimorso per le parole non dette, per l’abbraccio mancato, per le promesse non mantenute.

Questo resta alle donne che non sentiranno più chiamarsi “mamma”; alle mamme che non vedranno più i loro figli.

Ci si aggrappa alla Giustizia, confidando che il colpevole venga punito e ben presto ci si accorge che basta un cavillo, una dimenticanza e LUI torna libero, libero di fare ancora del male, libero di infliggere ancora sofferenza e atroce dolore. “Una violenza cieca sempre più immotivata e incomprensibile”.

Grazie alla partecipazione di donne –  vittime di atroci delitti che hanno deciso di dire BASTA, l’Avv Gelsomina Cimino sta curando la costituzione di un’Associazione  Nazionale che sia dalla parte delle donne, contro il feminicidio, contro la violenza gratuita e che sappia ascoltare il grido di dolore che si nasconde dietro ad un occhio nero.

Non sarai più sola e quando deciderai di fare il primo passo verso la libertà, troverai esperti sempre pronti, che ti sapranno difendere, consigliare su cosa fare e dove andare.

La violenza sulle donne nel mondo è la forma più pervasiva di violazione dei diritti umani conosciuta oggi, che devasta vite, disgrega comunità e ostacola lo sviluppo.

Sono 6.788.000 le donne che hanno subito violenza almeno una volta nella vita in Italia.

Sono 3.466.000 invece coloro che hanno a che fare con casi di stalking.

Oltre 1 milione e 400 mila donne hanno subito molestie o ricatti sul lavoro.

Dobbiamo gridare al mondo intero: “La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale…un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere Amata” (William Shakespeare)

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Assegno circolare Doppio termine per l’incasso e per il rimborso

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Assegno circolare  Doppio termine per l’incasso e per il rimborso

avvocato a roma
avvocato gelsomina cimino

Con la Sentenza n. 5889/2018 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione relativa alla prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione delle somme oggetto di un assegno circolare mai riscosso.

Nel caso di specie la ricorrente aveva, invero, richiesto l’emissione, da parte di un istituto di credito bancario, di un assegno circolare a favore della figlia, la quale, tuttavia non provvedeva all’incasso ed anzi ne denunciava lo smarrimento.

Per comprendere appieno la questione, fondamentali sono le tempistiche delle circostanze fattuali portate all’attenzione della magistratura.

Occorre infatti tenere ben presente che l’emissione dell’assegno risale al marzo 2001 mentre, la denuncia di smarrimento è avvenuta nel luglio 2011.

A complicare il quadro probatorio, interveniva nel 2009, il trasferimento, da parte della banca emittente, della metà della somma al fondo depositi “dormienti”, istituito con la l. 266/2005, e relativo fra l’altro (si tratta in verità del Fondo per indennizzare le vittime di frodi finanziarie), agli assegni circolari non riscossi nel termine di prescrizione imposto dalla normativa vigente.

Orbene, la ricorrente, dopo aver tentato invano di riscuotere l’assegno consegnato alla figlia e non riscosso, a fronte del suddetto trasferimento, ricorreva al Tribunale di Torino onde ottenere la restituzione della somma incorporata nell’assegno.

Il ricorso veniva rigettato per carenza di legittimazione ad agire della ricorrente, in quanto il Tribunale ha ritenuto che la sola legittimata ad agire fosse la figlia, beneficiaria dell’assegno.

La mamma ricorreva quindi alla Corte d’Appello di Torino, la quale pur riformando parzialmente la sentenza di primo grado, riconoscendo la legittimazione ad agire della ricorrente, respingeva il ricorso atteso il decorso del termine prescrizionale per riscuotere l’assegno.

Seguitava il ricorso per la cassazione della sentenza de qua, il quale è stato ritenuto fondato da parte della Suprema Corte, che ha, in primo luogo chiarito il quadro normativo di riferimento, richiamando l’art. 2935 c.c., il quale prevede, in generale l’estinzione dei diritti in 10 anni, a decorrere dal giorno in cui il diritto stesso può essere fatto valere, salvo che la legge disponga diversamente.

Per quanto riguarda gli assegni l’art. 84 del R.D. 1736/1933 prevede, con riferimento agli assegni circolari, i quali vanno tenuti nettamente distinti dagli assegni bancari, il termine breve di tre anni per la prescrizione del diritto di azione dei confronti dell’emittente bancario.

In tale quadro normativo si inserisce altresì l’art. 345 ter della L. n. 266/2005, il quale prevede che gli importi degli assegni circolari non riscossi entro il termine di prescrizione del relativo diritto, sono versati al Fondo depositi “dormienti” entro il 31 maggio dell’anno successivo a quello in cui scade il termine di prescrizione, rimanendo, tuttavia impregiudicato il diritto del richiedente l’emissione dell’assegno circolare non riscosso alla restituzione del relativo importo.

Ne deriva quindi che una volta che sia decorso il termine triennale, il beneficiario dell’assegno circolare non può più ottenerne il pagamento, con la conseguenza che colui che ha richiesto tale titolo di credito può ripetere la provvista dal cd. Fondo depositi dormienti, e la relativa azione si prescrive nel termine ordinario decennale, applicando le regole proprie del “mandato” che caratterizza il rapporto fra cliente e Istituto emittente.

Applicando tali principi appare evidente come la ricorrente avesse piena legittimazione ad agire per la restituzione della somma essendo spirato (nel marzo 2004) il termine per la beneficiaria ad incassare l’assegno e non essendo ancora spirato il termine di prescrizione della ricorrente ad ottenere la restituzione della provvista al momento dell’introduzione della causa.

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LA CASSAZIONE DICE NO AI TELEFONINI IN CABINA ELETTORALE

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LA CASSAZIONE DICE NO AI TELEFONINI IN CABINA ELETTORALE

NESSUN SMARTPHONE IN CABINA 

Con la Sentenza n. 9400/2018 la Corte di Cassazione ha chiarito la fattispecie punitiva prevista dall’art.1 del D.L. n. 96/2008, il quale stabilisce che durante le consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini; punendo con l’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda da 300 a 1.000 chi contravviene a tale disposizione.

Nel caso affrontato dalla Corte Suprema, il ricorrente aveva impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, la quale, pur confermando il giudizio di colpevolezza in relazione alla fattispecie imputata, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava l’imputato alla pena pecuniaria di euro 15.000 in luogo della pena detentiva.

A sostegno del ricorso, la difesa del ricorrente obiettava che per la concreta applicazione della fattispecie incriminatrice, difettava nel caso de quo, la ritenuta condizione di procedibilità di cui al secondo comma della norma citata.

In particolare, il ricorrente assumeva vizio di violazione di legge laddove non era stato valutato che nel caso de quo difettava l’invito del presidente di seggio a non introdurre nella cabina il mezzo di riproduzione visiva.

L’interpretazione offerta non ha tuttavia persuaso i Giudici di Legittimità che, al contrario, hanno confermato, richiamando il dato letterale della norma, che la condotta costituente reato è esclusivamente quella descritta nel comma primo (Nelle consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini. 2. Il presidente dell’ufficio elettorale di sezione, all’atto della presentazione del documento di identificazione e della tessera elettorale da parte dell’elettore, invita l’elettore stessa depositare le apparecchiature indicate al  comma 1) e che il secondo e terzo comma, lungi da poter essere considerati condizione di procedibilità o punibilità del reato dettano solo oneri per il presidente di seggio, la cui inosservanza è priva  di conseguenze penali.

Tanto è vero che il quarto comma della citata norma, nel dettare la sanzione penale in caso di inosservanza, fa esclusivo riferimento alla condotta descritta al primo comma, e non già agli adempimenti posti a carico del presidente, dacchè è stata confermata la correttezza della decisione impugnata.

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il ristoratore che non indica la presenza di alimenti surgelati sul menù commette il reato di frode

Il ristoratore che non indica la presenza di alimenti surgelati sul menù commette il reato di frode

Con la Sentenza n. 4735/2018 la Corte di Cassazione in materia penale è intervenuta a chiarire cosa effettivamente rischia un ristoratore che ometta di indicare che le pietanze proposte con il menu contengano ingredienti surgelati e non freschi, intervenendo nel giudizio contro un soggetto condannato in primo grado e confermato in appello per il reato di cui all’art. 515 c.p. “frode nell’esercizio del commercio” perché, in qualità di legale rappresentante di una società proprietaria di un ristorante deteneva per la vendita, esclusivamente pesce congelato e compiva atti idonei alla somministrazione agli avventori dell’esercizio commerciale di ristorazione prodotti ittici surgelati in luogo di quelli freschi indicati nel menù”.

Contro le statuizioni della Corte d’Appello di Bologna, l’imputato proponeva ricorso in Cassazione dolendosi, in particolare, della circostanza secondo la quale la Corte avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’ipotesi di reato di tentativo di frode in commercio dalla mera esposizione di immagini ritraenti pietanze dalla quali non si potrebbe dedurre, in assenza di apposita lista, se i prodotti fossero freschi o surgelati, né ricavarne l’indicazione della natura dei prodotti impiegati nella sua preparazione. In sostanza, argomenta il ricorrente, l’immagine pubblicitaria delle pietanze aveva solo valenza “dimostrativa della presentazione del piatto” mentre “è solo con l’inserimento nella lista data agli avventori o posizionata sul tavolo che si manifesta l’intenzione del ristoratore ad offrire quei prodotti”, da cui deriverebbe l’insussistenza del reato contestato.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso è manifestamente infondato oltre che inammissibile. Secondo l’indirizzo ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, “il tentativo del reato di cui all’art. 515 c.p. è configurato e si verifica quando l’alienante compie atti idonei diretti in modo non equivoco a consegnare all’acquirente una cosa per un’altra ovvero una cosa, per origine, qualità o quantità diversa da quella pattuita o dichiarata”. Di conseguenza, “costituisce il tentativo del delitto di frode in commercio anche il semplice fatto di non indicare nella lista delle vivande che determinati prodotti sono congelati, giacché il ristoratore ha l’obbligo di dichiarare la qualità della merce offerta ai consumatori“.

Ed invero, già con la Sent. n. 28/2000 le Sezioni Unite avevano superato il contrasto interpretativo presente in giurisprudenza sulla configurabilità del tentativo di frode in commercio, per cui secondo indirizzo ormai consolidato, “se il prodotto viene esposto sui banchi dell’esercizio o comunque offerto al pubblico, la condotta posta in essere dall’esercente l’attività commerciale è idonea ad integrare il tentativo perché dimostra l’intenzione di vendere proprio quel prodotto“.

Inoltre, il menu, o la lista delle vivande, “consegnata agli avventori o sistemata sui tavoli di un ristorante equivale ad una proposta contrattuale nei confronti dei potenziali clienti e manifesta l’intenzione del ristoratore di offrire i prodotti indicati nella lista, dunque, anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore“.

In sostanza, conclude la Suprema Corte, i giudici del merito hanno congruamente motivato la responsabilità penale del ricorrente, atteso peraltro che all’interno dell’esercizio commerciale erano presenti esclusivamente provviste congelate. Infine, quanto alle modalità di rappresentazione dell’offerta dei prodotti,”anche l’esposizione di immagini del prodotto offerto, in luogo della sua descrizione nel menù, è idonea a configurare la condotta della fattispecie criminosa, stante la natura diretta a incentivare la consumazione del prodotto“.

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NOTAIO – SEPARAZIONE DEI CONIUGI: NIENTE TASSE SUL TRASFERIMENTO IMMOBILIARE CONTIGUO

SEPARAZIONE DEI CONIUGI: NIENTE TASSE SUL TRASFERIMENTO IMMOBILIARE CONTIGUO

La sentenza n. 2179/2017 pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale per il Lazio,  accoglie l’appello proposto da un Notaio cui era stato contestata, da parte dell’Agenzia dell’Entrate, l’erronea applicazione dell’imposta di registro su un contratto di compravendita immobiliare stipulato da un padre in adempimento degli accordi di separazione, a seguito dei quali egli si era obbligato all’acquisto di un immobile da un soggetto estraneo alla coppia, a favore della moglie e dei figli minorenni, con la formula del contratto a favore di terzo ex art 1411 cc.;il contratto di compravendita prevedeva, infatti, che la moglie divenisse usufruttuaria dell’immobile e che i figli minori se ne riservassero conseguentemente la nuda proprietà.
Nel caso in esame, il notaio aveva registrato il contratto in esenzione da imposte, in applicazione dell’articolo 19, legge 6 marzo 1987, n. 74, secondo cui tutti «gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa».
In primo grado la Commissione Tributaria provinciale di Roma aveva ritenuto erronea l’applicazione dell’esenzione de qua, sia perché il trasferimento dell’immobile era stato posto in essere da un soggetto diverso dal coniuge, sia poiché dall’accordo di separazione omologato non era possibile evincere la natura funzionale di tale atto ai fini della risoluzione della crisi coniugale.
Non è dello stesso avviso la Commissione Tributaria Regionale, la quale in sede d’appello, ribalta totalmente la decisione dei giudici di merito, chiarendo che, come sancito dalla Corte di Cassazione sent. 2111/2016, debba riconoscersi ai sensi dell’art. 19 della legge n. 74/1987, il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separazione che, anche attraverso la previsione di trasferimenti mobiliari e immobiliari, siano volti a definire in modo tendenzialmente stabile la crisi coniugale. In quest’ottica a nulla rileva che, nel caso in esame, i venditori fossero persone estranee al nucleo familiare, perché le altre parti del contratto erano i coniugi e i loro figli e perché l’operazione immobiliare era espressamente prevista tra le condizioni della separazione consensuale omologata.
Secondo tale lettura, avallata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 154/1999, la norma di cui all’articolo 19, legge 74/1987 – che, peraltro, fa riferimento genericamente a trasferimenti mobiliari e immobiliari senza specificare che tali trasferimenti debbano riguardare beni già di proprietà di uno o di entrambi i coniugi – deve essere intesa in senso ampio, vale a dire che il trattamento agevolato, nell’intento del legislatore, deve ritenersi ammissibile nella misura in cui l’atto da compiersi sia funzionale e indispensabile ai fini della risoluzione della crisi coniugale. Ciò che rileva per applicare il trattamento fiscale di favore, infatti, è che venga data esecuzione agli accordi assunti nel verbale di separazione consensuale omologato.
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legge 104/92: Legittimo il rifiuto del dipendente al trasferimento se gode delle tutele previste dalla legge

Legge 104/92

Legittimo il rifiuto del dipendente al trasferimento se gode delle tutele previste dalla legge 

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24015 del 12 ottobre 2017, si è espressa sulla questione della possibilità o meno di trasferire il lavoratore dipendente che usufruisca dei permessi ex legge 104/1992 per assistere un familiare disabile.
Il caso, nella specie, ha riguardato il ricorso di un lavoratore (dipendente presso un carcere, addetto alla mensa) il quale si era visto licenziare a seguito di un suo rifiuto ad essere trasferito in altra sede aziendale, seppur questa nuova unità era distante pochi chilometri dalla precedente e, comunque, entro lo stesso Comune.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato il ricorso del lavoratore contro il licenziamento. Per entrambi i giudici del merito, infatti, sebbene il lavoratore fosse in possesso dei requisiti di cui alla Legge n. 104/1992, il trasferimento doveva ritenersi legittimo.
La pronuncia della Cassazione che accoglie il ricorso del lavoratore, assume rilievo in quanto afferma un importante principio di diritto: il lavoratore che fruisce dei permessi ex legge 104 non può essere trasferito, perché verrebbe violato il più rigoroso regime di protezione di cui egli gode per il fatto che assiste un familiare in situazione di handicap.
Viene chiarito, pertanto, che, nel valutare il trasferimento del dipendente che fruisce dei permessi mensili per l’assistenza di familiari disabili, non può operare il riferimento posto dall’articolo 2103 del codice civile al concetto di unità produttiva (“Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.).
Il riconoscimento al lavoratore dello speciale regime di protezione ha come obiettivo la tutela del diritto del congiunto a mantenere invariate condizioni di assistenza nel rispetto di quanto previsto dalla Costituzione oltre che dalla Carta di Nizza (che salvaguarda il diritto dei disabili di beneficiare di misure rivolte al loro inserimento sociale) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 in materia di protezione dei disabili.
Ed infatti, alla luce delle richiamate fonti, sostengono gli Ermellini: “L’efficacia della tutela della persona con disabilità si realizza, per quanto rileva nella fattispecie in esame, anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, in quanto il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza.”.
In buona sostanza, per la Cassazione il lavoratore che usufruisce dei permessi della richiamata legge, ha il diritto di scegliere la propria sede di lavoro, che solitamente sarà la più vicina al domicilio del disabile da lui assistito. Inoltre, egli non potrà essere trasferito in un’altra sede dell’azienda senza che abbia dato il proprio consenso.
E lo stesso principio – in deroga al citato art. 2103 c.c. – vale anche se il trasferimento non comporta lo spostamento ad una nuova unità produttiva o si realizza nell’ambito dello stesso Comune.
Orbene, in questo contesto, volto a chiarire i vincoli legati al trasferimento del lavoratore che usufruisce dei permessi previsti dalla Legge 104/92, l’unico limite che la Suprema Corte individua è quello che si verifica quando il datore di lavoro dimostri l’esistenza di specifiche esigenze tecnico-produttive od organizzative, le quali impediscono una soluzione diversa dal mutamento geografico del posto di lavoro. Per cui il datore di lavoro dovrà dimostrare che tali ragioni possono essere soddisfatte solo con il trasferimento del lavoratore in questione. Il trasferimento infine potrà avvenire in caso comprovato di incompatibilità ambientale del dipendente o per la definitiva soppressione del posto di lavoro.
Per la Cassazione, diviene fondamentale valorizzare al massimo le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore nel momento in cui si effettua il necessario bilanciamento di interessi e di diritti del lavoratore e del datore di lavoro “occorrendo salvaguardare condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”.
La Corte d’appello dovrà quindi tornare a pronunciarsi sulla vicenda, tenendo conto dei principi di diritto enunciati dalla Cassazione con la sentenza in commento, che possono così sintetizzarsi: “Il trasferimento del lavoratore legittima il rifiuto del dipendente che ha diritto alla tutela di cui all’art. 33 c. 5 della L. n. 104 del 1992 di assumere servizio nella sede diversa cui sia stato destinato ove il trasferimento sia idoneo a pregiudicare gli interessi di assistenza familiare del dipendente e ove il datore di lavoro non provi che il trasferimento è stato disposto per effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive insuscettibili di essere diversamente soddisfatte” .
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GIUDIZIO DI REVISIONE

GIUDIZIO DI REVISIONE

NESSUNA REVISIONE AL SOGGETTO CONDANNATO CIVILMENTE CHE SI SIA AVVALSO DELLA PRESCRIZIONE DEL REATO

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La questione su cui si è pronunciata lo scorso 28 novembre la Suprema Corte con la Sentenza n. 53678/2017, al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale creatosi ormai da tempo sul punto, può essere così sintetizzata: “se, in caso di sentenza passata in giudicato con la quale l’imputato sia stato prosciolto per prescrizione del reato ascrittogli, ma condannato al risarcimento dei danni a favore della parte civile costituita, sia o no ammissibile il giudizio di revisione”.

Il caso in esame vede protagonisti tre ricorrenti, cui inizialmente veniva ascritto il reato di circonvenzione di incapaci, dichiarato, poi, estinto per prescrizione, con la sola condanna al risarcimento dei danni in favore delle vittime costituitesi parti civili. La difesa dei ricorrenti proponeva, quindi, istanza di revisione, sulla base di nuove prove emerse successivamente a detta pronuncia. L’istanza, ritenuta inammissibile, veniva rigettata. E così la difesa dei tre istanti ha proposto ricorso, richiamando il precedente giurisprudenziale di legittimità n. 46707/2016, favorevole alla revisione.

L’intervento della Suprema Corte, sopraggiunto in questi ultimi giorni, tenderebbe a porsi come definitivo chiarimento di quello che rappresenta il punto nodale della presente questione, ossia quale significato debba attribuirsi al sinallagma “sentenza di condanna” e al lemma “condannato” (il soggetto legittimato, ex art. 632 c.p.p., a proporre l’istanza di revisione, di cui il legislatore non ha fornito una precisa definizione).

Sul punto si sono delineati due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Il primo, maggioritario, prende le mosse dalle numerose sentenze, sia datate che recenti (Cass. 4231/1992; Cass. 1672/1992; Cass. 15973/2004; Cass. 2393/2011 Rv. 249781; Cass. 24155/2011 Rv. 250631; Cass. 2656/2017 Rv. 269528), le quali stabiliscono l’inammissibilità della revisione, intesa come un mezzo di impugnazione straordinario, preordinato al “proscioglimento” della persona già condannata in via definitiva, laddove difetti l’esistenza di una sentenza di condanna o di un decreto penale di condanna, ovvero di una sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 c.p.p..

La revisione, infatti, essendo finalizzata a “prosciogliere” il soggetto condannato, non può ritenersi ammissibile rispetto ad una sentenza di proscioglimento, quale quella in forza della quale sia stata dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione (art. 531 cit.), sia pure accompagnata da una statuizione di condanna a carico dell’imputato ai soli fini civilistici.

L’orientamento minoritario, sostenuto unicamente dalla sentenza n. 46707/2016, ha ritenuto, invece, ammissibile la revisione in quanto nella locuzione “condannato” dovrebbe rientrare anche colui il quale si sia visto dichiarare il reato estinto per prescrizione, ma, al tempo stesso, sia stato condannato al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.

Dopo un breve cenno alla giurisprudenza, sia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che della Corte Costituzionale, la pronuncia in commento dichiara di aderire alla tesi maggioritaria, negando, quindi, che nel caso de quo possa farsi luogo all’ammissibilità della revisione.

In particolare, riporta la Corte, “il Giudice delle Leggi, in specie nella sentenza n. 49/2015 (…) ribadì che nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità» e che il sintagma “sentenza di condanna” va inteso, al di là del dato formale, in senso sostanziale e cioè come una pronuncia a seguito della quale sia inflitta all’imputato una sanzione, dovendosi valutare non la forma della pronuncia, ma la sostanza dell’accertamento”

Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte conduce ad un’inequivoca soluzione: va considerata sentenza di condanna non solo quel provvedimento con il quale sia inflitta una sanzione strettamente penale ma, anche quel provvedimento che, al di là del dato meramente formale con il quale è denominato, nella sostanza, contenga una sanzione latamente penale e cioè una sanzione punitiva e deterrente, ma non quando da esso conseguano effetti meramente riparatori o preventivi, proprio perché tali conseguenze, non rientrando nell’ambito delle sanzioni punitive, si pongono al di fuori del perimetro latamente penale.

Pertanto, la sentenza di prescrizione, laddove si concluda solo con la conferma delle statuizioni civili che presuppone un accertamento sulla responsabilità penale, va ritenuta, pur sempre, non solo formalmente, ma anche sostanzialmente, una sentenza di proscioglimento perché da essa non consegue alcun effetto di natura sanzionatoria o latamente penalistica. Infatti, la condanna al risarcimento del danno a favore della costituita parte civile va ritenuta una semplice conseguenza di natura riparatoria che, quindi, nulla ha a che vedere con gli effetti sanzionatori di natura latamente penalistici.

Se, quindi, la sentenza di proscioglimento per prescrizione non può essere considerata una sentenza di condanna, ne consegue che, neppure l’imputato – prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione – può essere ritenuto un “condannato”, legittimato ex art. 632 c.p.p. a proporre istanza di revisione.

Il sistema, ha, quindi, una sua intrinseca coerenza nel non consentire la revisione di una sentenza penale a chi sia stato prosciolto per prescrizione del reato e da questa sentenza – che avrebbe potuto evitare rinunciando alla causa estintiva della prescrizione – non abbia subito alcuna conseguenza di natura sanzionatoria o latamente penalistica, tale non potendosi considerare, per le ragioni esposte, la condanna al risarcimento dei danni a favore della parte civile che continuerà a dispiegare i suoi effetti solo in ambito civilistico e non penale.

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AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

 

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Con la sentenza n. 28369/2017 dello scorso 28 novembre a Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha statuito sulla questione del riparto di giurisdizione per le controversie in materia di pubblico impiego intervenendo nella vicenda occorsa ad un dipendente dell’Anas il quale aveva fatto ricorso onde ottenere l’accertamento del proprio diritto ad essere inquadrato nella mansione di “quadro di primo livello con posizione organizzativa ed economica A” ,superiore a quella ricoperta presso l’azienda, oltreché al risarcimento del danno biologico per aver patito un infarto al miocardio causato dal sovraccarico di mansioni e di incarichi.

Tale vicenda era decisa in primo grado dal Tribunale di Campobasso, il quale ritenne accertato che il ricorrente avesse svolto mansioni superiori al proprio inquadramento dal 1975 all’aprile 2002 e per l’effetto condannò l’Anas al pagamento delle differenze retributive ed al risarcimento del danno non patrimoniale da dequalificazione.

Tale decisione fu successivamente impugnata presso la Corte d’Appello di Campobasso la quale, riformò la sentenza del giudice di prime cure, dovendo ritenere il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per il periodo anteriore al 26.07.1995, epoca di trasformazione in Ente nazionale per le strade ai sensi del d.lgs. n. 143/94, e di conseguenza, per il resto, rigettare la domanda del lavoratore.

Al fine di meglio comprendere la questione occorre rammentare che in materia di pubblico impiego, successivamente all’assoggettamento di quest’ultimo alle norme di diritto privato e alla contrattazione collettiva, avviata con il D.Lgs. 29/1993, si sono poste notevoli questioni in merito al riparto di competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Norma spartiacque in materia è il cosiddetto T.U. in materia di pubblico impiego emanato con il D.Lgs. n. 80/1998, successivamente modificato dal D.Lgs. n. 165 del 2001 il cui art. 63 devolve alla cognizione del Giudice Ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La successione tra la precedente e la nuova disciplina è regolata, a sua volta, dall’art. 69, comma 7, D.Lgs. 165/2001, ai sensi del quale le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla data del 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Ed è qui che si snoda la questione del nostro lavoratore, che vista la decisione della Corte d’appello di Campobasso ricorreva in Cassazione articolando le proprie ragioni in tre motivi a loro volta suddivisi in più punti.

Ed invero il ricorrente contestava, per quanto è qui di interesse, le affermazioni dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta sussistenza del difetto di giurisdizione affermato sulla base del riferimento al dato storico dello svolgimento delle mansioni superiori fino al 26.07.1995, oltre che a quello del danno biologico sofferto per l’infarto occorso nel 1992.

La difesa di parte ricorrente osservava, infatti, che per stabilire la giurisdizione occorre tener conto del principio di legittimità, secondo cui, laddove la pretesa abbia origine da un fatto permanente del datore di lavoro, si deve aver riguardo al momento della realizzazione del fatto dannoso e quindi, a quello della cessazione della permanenza. Ciò posto applicando tale principio alla fattispecie in esame, ne deriverebbe, secondo il ricorrente, che dal momento della cessazione dell’illecito datoriale, avvenuta dopo il 30.06.1998, non poteva non sussistere la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria atteso che a partire da tale data le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione sono attribuite ex art. 69 comma / del D.lgs m. 165/2001 al giudice ordinario.

Allo stesso modo, secondo il ricorrente si determinerebbe la giurisdizione per quel che concerne il risarcimento del danno biologico da infarto dovendo datare la lesione al momento (3.04.1996) in cui gli venne comunicato il rigetto della richiesta di equo indennizzo.

Da qui discenderebbe – secondo la difesa del ricorrente –  la giurisdizione del giudice ordinario in quanto provvedimento successivo al 26.07.1995 data in cui l’azienda presso cui lavorava fu trasformata in ANAS con la conseguente sottoposizione dei rapporti di lavoro del personale dipendente alla disciplina delle norme di diritto privato e della contrattazione collettiva.

In ordine alle suesposte questioni la Corte ha ritenuto fondato il motivo inerente al difetto di giurisdizione del giudice ordinario in quanto “dando seguito a quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 20726/2012, si rileva che in tale decisione è stato posto in risalto il concetto di infrazionabilità della giurisdizione nei casi, come il presente, contraddistinti dalla unitarietà della questione di merito dedotta in giudizio, benché ricompresa nel periodo al cui interno si colloca il discrimine temporale del 30.06.1998 tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario”.

Ed invero già allora la Suprema Corte aveva espresso, come regola, la giurisdizione del giudice ordinario per ogni questione che riguardi il periodo del rapporto successivo al 30.06.1998 o che parzialmente investa anche il periodo precedente, ove risulti essere sostanzialmente unitaria la fattispecie dedotta in giudizio; lasciando residuare la giurisdizione del giudice amministrativo per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo del rapporto compreso entro la data suddetta.

Pertanto, ha osservato la Corte, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, atteso che nel caso in esame “ non vi è alcun dubbio sul fatto che la questione posta all’attenzione dei giudice di merito […] era sempre la stessa, trattandosi di verificare per tutto il periodo di causa la fondatezza o meno delle questioni connesse alla richiesta di riconoscimento del diritto all’inquadramento nelle superiori mansioni […] ed alla conseguente richiesta di condanna della datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive ed al preteso risarcimento del danno”.

Diverso discorso va invece fatto per quanto attiene la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione al reclamato risarcimento del danno biologico subito in seguito all’evento patologico subito del 1992. Sul punto la Corte richiama nuovamente una Sezione Unite pregressa (n. 5468/2009) la quale aveva già statuito che nel caso di controversia relativa al rapporto di pubblico impiego per il quale non trova applicazione il d. lgs. 31.03.1998 n. 80, la soluzione della questione del riparto di giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della propria integrità psico-fisica è strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta, in quanto, se è fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente datore di lavoro, la cognizione rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se è stata dedotta la responsabilità extracontrattuale la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Tuttavia, prosegue la Corte, l’accertamento circa la natura del titolo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall’attore, mentre assume valore decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito, e quindi l’accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di “neminem laedere” e riguardi, quindi, condotte la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino la ragion d’essere nel rapporto di lavoro.

Su tali basi le Sezioni Unite hanno dunque ritenuto di dover confermare, per tale voce di danno, la giurisdizione del giudice amministrativo.

In definitiva, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento alle rivendicate mansioni superiori e alla relativa richiesta di pagamento delle differenze retributive e di risarcimento danni per la lamentata dequalificazione, mentre va confermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla verifica della sussistenza del danno biologico per l’infarto al miocardio occorso nel 1992.

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SCUOLA: VIA LIBERA AI MINORI DI ANNI 14

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USCITA DA SCUOLA

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È la soluzione offerta in sede Parlamentare di fronte alle polemiche insorte all’indomani di una sentenza della Cassazione che aveva applicato in modo “rigido” la normativa vigente, ritenendo responsabile l’Istituto Scolastico, dell’incidente occorso ad un minore di anni 11 che aveva lasciato la scuola da solo ed era stato investito, perdendo la vita, da un autobus di linea.

Obbligo di vigilanza dunque che nel caso di minori di anni 14, secondo l’attuale assetto normativo, incombe sull’Istituto scolastico, obbligato ad affidare l’alunno solo al genitore o a persona a ciò autorizzata dagli esercenti la responsabilità genitoriale e che, grazie all’emendamento approvato al Senato – ma non ancora legge – risulterà affievolito, potendo i genitori, in questo modo, esonerare espressamente la scuola da ogni responsabilità derivante dall’uscita dell’alunno minorenne che, da solo, potrà usufruire dei mezzi pubblici di trasporto.

Libertà e autodeterminazione nell’ottica di un processo di responsabilizzazione del minore cui, si confida, corrisponderà una altrettanto accurata responsabilizzazione del genitore che, se non particolarmente accorto, potrebbe “legittimare” l’allontanamento del proprio figlio con chiunque – anche malintenzionato – non espressamente autorizzato e comunque non noto alla famiglia, sebbene, eventualmente, conosciuto dal solo ragazzo.

Il suggerimento dunque è quello di approntare comunicazioni di esonero ben delimitate, indicando esattamente le persone e le modalità, oltre i tempi, in cui l’alunno potrà allontanarsi dalla scuola.

 

Il testo dell’emendamento che è stato approvato in Senato in relazione alla legge di bilancio con il quale si permette ai genitori di autorizzare le scuole all’uscita autonoma dei minori di 14 anni:

(Disposizioni in materia di uscita dei minori di 14 anni dai locali scolastici)

  1. I genitori esercenti la responsabilità genitoriale, i tutori e i soggetti affidatari ai sensi della legge 4 maggio 1983, n. 184, dei minori di 14 anni, in considerazione dell’età di questi ultimi, del loro grado di autonomia e dello specifico contesto, nell’ambito di un processo di loro autoresponsabilizzazione, possono autorizzare le istituzioni del sistema nazionale di istruzione a consentire l’uscita autonoma dei minori di 14 anni dai locali scolastici al termine dell’orario delle lezioni. L’autorizzazione esonera il personale scolastico dalla responsabilità connessa all’adempimento dell’obbligo di vigilanza.
  2. L’autorizzazione ad usufruire in modo autonomo del servizio di trasporto scolastico, rilasciata dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale e dai tutori dei minori di 14 anni agli enti locali gestori del servizio esonera dalla responsabilità connessa all’adempimento dell’obbligo di vigilanza nella salita e discesa dal mezzo e nel tempo di sosta alla fermata utilizzata, anche al ritorno dalle attività scolastiche.»

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