legge 104/92: Legittimo il rifiuto del dipendente al trasferimento se gode delle tutele previste dalla legge

Legge 104/92

Legittimo il rifiuto del dipendente al trasferimento se gode delle tutele previste dalla legge 

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24015 del 12 ottobre 2017, si è espressa sulla questione della possibilità o meno di trasferire il lavoratore dipendente che usufruisca dei permessi ex legge 104/1992 per assistere un familiare disabile.
Il caso, nella specie, ha riguardato il ricorso di un lavoratore (dipendente presso un carcere, addetto alla mensa) il quale si era visto licenziare a seguito di un suo rifiuto ad essere trasferito in altra sede aziendale, seppur questa nuova unità era distante pochi chilometri dalla precedente e, comunque, entro lo stesso Comune.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato il ricorso del lavoratore contro il licenziamento. Per entrambi i giudici del merito, infatti, sebbene il lavoratore fosse in possesso dei requisiti di cui alla Legge n. 104/1992, il trasferimento doveva ritenersi legittimo.
La pronuncia della Cassazione che accoglie il ricorso del lavoratore, assume rilievo in quanto afferma un importante principio di diritto: il lavoratore che fruisce dei permessi ex legge 104 non può essere trasferito, perché verrebbe violato il più rigoroso regime di protezione di cui egli gode per il fatto che assiste un familiare in situazione di handicap.
Viene chiarito, pertanto, che, nel valutare il trasferimento del dipendente che fruisce dei permessi mensili per l’assistenza di familiari disabili, non può operare il riferimento posto dall’articolo 2103 del codice civile al concetto di unità produttiva (“Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.).
Il riconoscimento al lavoratore dello speciale regime di protezione ha come obiettivo la tutela del diritto del congiunto a mantenere invariate condizioni di assistenza nel rispetto di quanto previsto dalla Costituzione oltre che dalla Carta di Nizza (che salvaguarda il diritto dei disabili di beneficiare di misure rivolte al loro inserimento sociale) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 in materia di protezione dei disabili.
Ed infatti, alla luce delle richiamate fonti, sostengono gli Ermellini: “L’efficacia della tutela della persona con disabilità si realizza, per quanto rileva nella fattispecie in esame, anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, in quanto il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza.”.
In buona sostanza, per la Cassazione il lavoratore che usufruisce dei permessi della richiamata legge, ha il diritto di scegliere la propria sede di lavoro, che solitamente sarà la più vicina al domicilio del disabile da lui assistito. Inoltre, egli non potrà essere trasferito in un’altra sede dell’azienda senza che abbia dato il proprio consenso.
E lo stesso principio – in deroga al citato art. 2103 c.c. – vale anche se il trasferimento non comporta lo spostamento ad una nuova unità produttiva o si realizza nell’ambito dello stesso Comune.
Orbene, in questo contesto, volto a chiarire i vincoli legati al trasferimento del lavoratore che usufruisce dei permessi previsti dalla Legge 104/92, l’unico limite che la Suprema Corte individua è quello che si verifica quando il datore di lavoro dimostri l’esistenza di specifiche esigenze tecnico-produttive od organizzative, le quali impediscono una soluzione diversa dal mutamento geografico del posto di lavoro. Per cui il datore di lavoro dovrà dimostrare che tali ragioni possono essere soddisfatte solo con il trasferimento del lavoratore in questione. Il trasferimento infine potrà avvenire in caso comprovato di incompatibilità ambientale del dipendente o per la definitiva soppressione del posto di lavoro.
Per la Cassazione, diviene fondamentale valorizzare al massimo le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore nel momento in cui si effettua il necessario bilanciamento di interessi e di diritti del lavoratore e del datore di lavoro “occorrendo salvaguardare condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”.
La Corte d’appello dovrà quindi tornare a pronunciarsi sulla vicenda, tenendo conto dei principi di diritto enunciati dalla Cassazione con la sentenza in commento, che possono così sintetizzarsi: “Il trasferimento del lavoratore legittima il rifiuto del dipendente che ha diritto alla tutela di cui all’art. 33 c. 5 della L. n. 104 del 1992 di assumere servizio nella sede diversa cui sia stato destinato ove il trasferimento sia idoneo a pregiudicare gli interessi di assistenza familiare del dipendente e ove il datore di lavoro non provi che il trasferimento è stato disposto per effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive insuscettibili di essere diversamente soddisfatte” .
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GIUDIZIO DI REVISIONE

GIUDIZIO DI REVISIONE

NESSUNA REVISIONE AL SOGGETTO CONDANNATO CIVILMENTE CHE SI SIA AVVALSO DELLA PRESCRIZIONE DEL REATO

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La questione su cui si è pronunciata lo scorso 28 novembre la Suprema Corte con la Sentenza n. 53678/2017, al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale creatosi ormai da tempo sul punto, può essere così sintetizzata: “se, in caso di sentenza passata in giudicato con la quale l’imputato sia stato prosciolto per prescrizione del reato ascrittogli, ma condannato al risarcimento dei danni a favore della parte civile costituita, sia o no ammissibile il giudizio di revisione”.

Il caso in esame vede protagonisti tre ricorrenti, cui inizialmente veniva ascritto il reato di circonvenzione di incapaci, dichiarato, poi, estinto per prescrizione, con la sola condanna al risarcimento dei danni in favore delle vittime costituitesi parti civili. La difesa dei ricorrenti proponeva, quindi, istanza di revisione, sulla base di nuove prove emerse successivamente a detta pronuncia. L’istanza, ritenuta inammissibile, veniva rigettata. E così la difesa dei tre istanti ha proposto ricorso, richiamando il precedente giurisprudenziale di legittimità n. 46707/2016, favorevole alla revisione.

L’intervento della Suprema Corte, sopraggiunto in questi ultimi giorni, tenderebbe a porsi come definitivo chiarimento di quello che rappresenta il punto nodale della presente questione, ossia quale significato debba attribuirsi al sinallagma “sentenza di condanna” e al lemma “condannato” (il soggetto legittimato, ex art. 632 c.p.p., a proporre l’istanza di revisione, di cui il legislatore non ha fornito una precisa definizione).

Sul punto si sono delineati due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Il primo, maggioritario, prende le mosse dalle numerose sentenze, sia datate che recenti (Cass. 4231/1992; Cass. 1672/1992; Cass. 15973/2004; Cass. 2393/2011 Rv. 249781; Cass. 24155/2011 Rv. 250631; Cass. 2656/2017 Rv. 269528), le quali stabiliscono l’inammissibilità della revisione, intesa come un mezzo di impugnazione straordinario, preordinato al “proscioglimento” della persona già condannata in via definitiva, laddove difetti l’esistenza di una sentenza di condanna o di un decreto penale di condanna, ovvero di una sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 c.p.p..

La revisione, infatti, essendo finalizzata a “prosciogliere” il soggetto condannato, non può ritenersi ammissibile rispetto ad una sentenza di proscioglimento, quale quella in forza della quale sia stata dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione (art. 531 cit.), sia pure accompagnata da una statuizione di condanna a carico dell’imputato ai soli fini civilistici.

L’orientamento minoritario, sostenuto unicamente dalla sentenza n. 46707/2016, ha ritenuto, invece, ammissibile la revisione in quanto nella locuzione “condannato” dovrebbe rientrare anche colui il quale si sia visto dichiarare il reato estinto per prescrizione, ma, al tempo stesso, sia stato condannato al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.

Dopo un breve cenno alla giurisprudenza, sia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che della Corte Costituzionale, la pronuncia in commento dichiara di aderire alla tesi maggioritaria, negando, quindi, che nel caso de quo possa farsi luogo all’ammissibilità della revisione.

In particolare, riporta la Corte, “il Giudice delle Leggi, in specie nella sentenza n. 49/2015 (…) ribadì che nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità» e che il sintagma “sentenza di condanna” va inteso, al di là del dato formale, in senso sostanziale e cioè come una pronuncia a seguito della quale sia inflitta all’imputato una sanzione, dovendosi valutare non la forma della pronuncia, ma la sostanza dell’accertamento”

Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte conduce ad un’inequivoca soluzione: va considerata sentenza di condanna non solo quel provvedimento con il quale sia inflitta una sanzione strettamente penale ma, anche quel provvedimento che, al di là del dato meramente formale con il quale è denominato, nella sostanza, contenga una sanzione latamente penale e cioè una sanzione punitiva e deterrente, ma non quando da esso conseguano effetti meramente riparatori o preventivi, proprio perché tali conseguenze, non rientrando nell’ambito delle sanzioni punitive, si pongono al di fuori del perimetro latamente penale.

Pertanto, la sentenza di prescrizione, laddove si concluda solo con la conferma delle statuizioni civili che presuppone un accertamento sulla responsabilità penale, va ritenuta, pur sempre, non solo formalmente, ma anche sostanzialmente, una sentenza di proscioglimento perché da essa non consegue alcun effetto di natura sanzionatoria o latamente penalistica. Infatti, la condanna al risarcimento del danno a favore della costituita parte civile va ritenuta una semplice conseguenza di natura riparatoria che, quindi, nulla ha a che vedere con gli effetti sanzionatori di natura latamente penalistici.

Se, quindi, la sentenza di proscioglimento per prescrizione non può essere considerata una sentenza di condanna, ne consegue che, neppure l’imputato – prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione – può essere ritenuto un “condannato”, legittimato ex art. 632 c.p.p. a proporre istanza di revisione.

Il sistema, ha, quindi, una sua intrinseca coerenza nel non consentire la revisione di una sentenza penale a chi sia stato prosciolto per prescrizione del reato e da questa sentenza – che avrebbe potuto evitare rinunciando alla causa estintiva della prescrizione – non abbia subito alcuna conseguenza di natura sanzionatoria o latamente penalistica, tale non potendosi considerare, per le ragioni esposte, la condanna al risarcimento dei danni a favore della parte civile che continuerà a dispiegare i suoi effetti solo in ambito civilistico e non penale.

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AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

 

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Con la sentenza n. 28369/2017 dello scorso 28 novembre a Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha statuito sulla questione del riparto di giurisdizione per le controversie in materia di pubblico impiego intervenendo nella vicenda occorsa ad un dipendente dell’Anas il quale aveva fatto ricorso onde ottenere l’accertamento del proprio diritto ad essere inquadrato nella mansione di “quadro di primo livello con posizione organizzativa ed economica A” ,superiore a quella ricoperta presso l’azienda, oltreché al risarcimento del danno biologico per aver patito un infarto al miocardio causato dal sovraccarico di mansioni e di incarichi.

Tale vicenda era decisa in primo grado dal Tribunale di Campobasso, il quale ritenne accertato che il ricorrente avesse svolto mansioni superiori al proprio inquadramento dal 1975 all’aprile 2002 e per l’effetto condannò l’Anas al pagamento delle differenze retributive ed al risarcimento del danno non patrimoniale da dequalificazione.

Tale decisione fu successivamente impugnata presso la Corte d’Appello di Campobasso la quale, riformò la sentenza del giudice di prime cure, dovendo ritenere il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per il periodo anteriore al 26.07.1995, epoca di trasformazione in Ente nazionale per le strade ai sensi del d.lgs. n. 143/94, e di conseguenza, per il resto, rigettare la domanda del lavoratore.

Al fine di meglio comprendere la questione occorre rammentare che in materia di pubblico impiego, successivamente all’assoggettamento di quest’ultimo alle norme di diritto privato e alla contrattazione collettiva, avviata con il D.Lgs. 29/1993, si sono poste notevoli questioni in merito al riparto di competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Norma spartiacque in materia è il cosiddetto T.U. in materia di pubblico impiego emanato con il D.Lgs. n. 80/1998, successivamente modificato dal D.Lgs. n. 165 del 2001 il cui art. 63 devolve alla cognizione del Giudice Ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La successione tra la precedente e la nuova disciplina è regolata, a sua volta, dall’art. 69, comma 7, D.Lgs. 165/2001, ai sensi del quale le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla data del 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Ed è qui che si snoda la questione del nostro lavoratore, che vista la decisione della Corte d’appello di Campobasso ricorreva in Cassazione articolando le proprie ragioni in tre motivi a loro volta suddivisi in più punti.

Ed invero il ricorrente contestava, per quanto è qui di interesse, le affermazioni dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta sussistenza del difetto di giurisdizione affermato sulla base del riferimento al dato storico dello svolgimento delle mansioni superiori fino al 26.07.1995, oltre che a quello del danno biologico sofferto per l’infarto occorso nel 1992.

La difesa di parte ricorrente osservava, infatti, che per stabilire la giurisdizione occorre tener conto del principio di legittimità, secondo cui, laddove la pretesa abbia origine da un fatto permanente del datore di lavoro, si deve aver riguardo al momento della realizzazione del fatto dannoso e quindi, a quello della cessazione della permanenza. Ciò posto applicando tale principio alla fattispecie in esame, ne deriverebbe, secondo il ricorrente, che dal momento della cessazione dell’illecito datoriale, avvenuta dopo il 30.06.1998, non poteva non sussistere la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria atteso che a partire da tale data le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione sono attribuite ex art. 69 comma / del D.lgs m. 165/2001 al giudice ordinario.

Allo stesso modo, secondo il ricorrente si determinerebbe la giurisdizione per quel che concerne il risarcimento del danno biologico da infarto dovendo datare la lesione al momento (3.04.1996) in cui gli venne comunicato il rigetto della richiesta di equo indennizzo.

Da qui discenderebbe – secondo la difesa del ricorrente –  la giurisdizione del giudice ordinario in quanto provvedimento successivo al 26.07.1995 data in cui l’azienda presso cui lavorava fu trasformata in ANAS con la conseguente sottoposizione dei rapporti di lavoro del personale dipendente alla disciplina delle norme di diritto privato e della contrattazione collettiva.

In ordine alle suesposte questioni la Corte ha ritenuto fondato il motivo inerente al difetto di giurisdizione del giudice ordinario in quanto “dando seguito a quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 20726/2012, si rileva che in tale decisione è stato posto in risalto il concetto di infrazionabilità della giurisdizione nei casi, come il presente, contraddistinti dalla unitarietà della questione di merito dedotta in giudizio, benché ricompresa nel periodo al cui interno si colloca il discrimine temporale del 30.06.1998 tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario”.

Ed invero già allora la Suprema Corte aveva espresso, come regola, la giurisdizione del giudice ordinario per ogni questione che riguardi il periodo del rapporto successivo al 30.06.1998 o che parzialmente investa anche il periodo precedente, ove risulti essere sostanzialmente unitaria la fattispecie dedotta in giudizio; lasciando residuare la giurisdizione del giudice amministrativo per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo del rapporto compreso entro la data suddetta.

Pertanto, ha osservato la Corte, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, atteso che nel caso in esame “ non vi è alcun dubbio sul fatto che la questione posta all’attenzione dei giudice di merito […] era sempre la stessa, trattandosi di verificare per tutto il periodo di causa la fondatezza o meno delle questioni connesse alla richiesta di riconoscimento del diritto all’inquadramento nelle superiori mansioni […] ed alla conseguente richiesta di condanna della datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive ed al preteso risarcimento del danno”.

Diverso discorso va invece fatto per quanto attiene la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione al reclamato risarcimento del danno biologico subito in seguito all’evento patologico subito del 1992. Sul punto la Corte richiama nuovamente una Sezione Unite pregressa (n. 5468/2009) la quale aveva già statuito che nel caso di controversia relativa al rapporto di pubblico impiego per il quale non trova applicazione il d. lgs. 31.03.1998 n. 80, la soluzione della questione del riparto di giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della propria integrità psico-fisica è strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta, in quanto, se è fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente datore di lavoro, la cognizione rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se è stata dedotta la responsabilità extracontrattuale la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Tuttavia, prosegue la Corte, l’accertamento circa la natura del titolo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall’attore, mentre assume valore decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito, e quindi l’accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di “neminem laedere” e riguardi, quindi, condotte la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino la ragion d’essere nel rapporto di lavoro.

Su tali basi le Sezioni Unite hanno dunque ritenuto di dover confermare, per tale voce di danno, la giurisdizione del giudice amministrativo.

In definitiva, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento alle rivendicate mansioni superiori e alla relativa richiesta di pagamento delle differenze retributive e di risarcimento danni per la lamentata dequalificazione, mentre va confermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla verifica della sussistenza del danno biologico per l’infarto al miocardio occorso nel 1992.

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INCIDENTE AUTO MOTO

INCIDENTE AUTO MOTO

MOTOCICLISTA CORRESPONSABILE SE SORPASSA LE AUTO INCOLONNATE

 

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La pronuncia in commento – emessa dalla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione con ordinanza n. 26805 del 14/11/2017 – chiarisce una questione da sempre dibattuta nel settore del contenzioso dell’infortunistica stradale, oltre a rappresentare, nel non certo secondario ambito relativo alla figura del danno non patrimoniale, un’ulteriore e significativa tappa volta a riaffermarne l’unitarietà.

Il caso concreto portato all’attenzione della Suprema Corte è incentrato sulla richiesta di accertamento della responsabilità nella causazione dei danni subiti da parte di un motociclista coinvolto in un sinistro stradale, il quale, sebbene non avesse oltrepassato la linea divisoria di mezzeria, aveva superato a sinistra le auto incolonnate nel traffico e veniva travolto da un’autovettura che nel medesimo senso di marcia azzardava un’improvvisa, quanto mai repentina, manovra di inversione.

La Cassazione, dunque, con l’intento di porre un freno alla malsana e più che frequente abitudine posta in essere dai motociclisti di superare le auto incolonnate nel traffico dei centri urbani, è giunta a stabilire il concorso di colpa tra i due utenti della strada.

Infatti, anche se si tratta di una norma desueta nelle nostre città, il codice della strada (artt. 143 e 148, comma 11) vieta il sorpasso di veicoli fermi o in lento movimento ai passaggi a livello, ai semafori o per altre cause di congestione della circolazione, quando a tal fine sia necessario spostarsi nella parte della carreggiata destinata al senso opposto di marcia.

Per gli Ermellini, dunque, se da una parte è stata ritenuta indubbia e non contestata la violazione di regole della circolazione stradale da parte dell’automobilista che ha fatto un’inversione di marcia senza porre la dovuta attenzione; dall’altra, tuttavia, è stato riconosciuta altrettanto incontestabile la violazione del codice della strada da parte dello scooterista che transitava sul lato sinistro della corsia di pertinenza nel tentativo di superare le auto incolonnate.

In buona sostanza, i conducenti, siano essi automobilisti o motociclisti, sono tenuti a procedere sul margine destro della strada anche quando la carreggiata è libera e nel caso di incidente stradale potrà essere applicato un concorso di colpa.

Il senso della prima parte della pronuncia in esame è chiaro: poiché è proprio la velocità con cui sfrecciano i motorini che rende spesso difficile accorgersi della loro presenza e, quindi, evitarli, il conducente che non si sia accorto per tempo dello scooter, anche nell’ipotesi come quella del caso di specie di violazione delle norme del codice della strada, ha una responsabilità ridotta.

La Suprema Corte, inoltre, è stata chiamata a pronunciarsi sulla censura mossa dal ricorrente che si doleva del fatto che, nell’operazione di liquidazione, il Giudice del gravame non aveva considerato il danno esistenziale patito dal motociclista.

Nell’accogliere parzialmente la censura, la Suprema Corte ha avuto modo di riconfermare l’unitarietà del danno non patrimoniale, inteso come categoria onnicomprensiva e composta dalle sottocategorie del danno biologico, morale ed esistenziale e, con particolare riguardo a quest’ultima sottocategoria, ha stigmatizzato il tentativo di attribuirle un’autonomia propria.

Ebbene, ripercorrendo il granitico orientamento formatosi sul punto nella giurisprudenza di legittimità, la Corte ha individuato nelle indicazioni dettate dalle note sentenze di S. Martino (SSUU 26972/2008) il perno su cui fondare la propria decisione – la natura unitaria del danno non patrimoniale – che deve essere intesa come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica. Laddove per natura unitaria deve intendersi che non v’è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, piuttosto che di quella al rapporto parentale.

Ciò detto si specifica ulteriormente che l’unitarietà della figura importa la sua onnicomprensività; il che significa che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti c.d. bagattellari (e così anche: Cass. n. 4379/2016).

Quello che qui emerge chiaramente – e che la Suprema Corte ancora una volta si affretta a precisare – è che non va attribuita alcun tipo di autonomia alle singole voci del danno non patrimoniale (esistenziale, morale o biologica), dovendo queste essere considerate come componenti meramente descrittive di un’unica categoria, quella del danno non patrimoniale, appunto. Sarà poi il giudice, all’atto della liquidazione, a considerare ogni tipo di pregiudizio subito dalla vittima, c.d. personalizzazione del danno, andando a considerare anche gli aspetti dinamico-relazionali che si sono modificati in conseguenza del fatto illecito.

La Corte affronta, quindi, la questione relativa alle lesioni micro-permanenti, in presenza delle quali non deve escludersi che possano esserci conseguenze rilevanti sulla vita relazionale della vittima, poiché “resta ferma la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto”.

Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla carta costituzionale – precisa la Corte – si caratterizza per la sua doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell’essere e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.

Il riferimento è all’art. 138 Cod. ass. (D.lgs. 206/2005), modificato dall’art. 1, co. 17, L. 04.08.2017, n. 124, dedicato al danno non patrimoniale per lesioni di non lieve entità. Per queste ultime è ammessa una personalizzazione del danno che sfugge da liquidazioni standard, cioè fissate dal legislatore, al fine evidente di contenere i costi sociali derivanti anche dai premi assicurativi, dato che la materia della circolazione stradale (il caso di specie della sentenza in commento) vede la copertura assicurativa non già facoltativa ma obbligatoria.

Tuttavia, si deve tenere fermo il principio secondo il quale, sia per le lesioni di lieve entità che per quelle gravi, il danno non patrimoniale deve comprendere anche gli aspetti esistenziali della vittima.

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GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
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Il “25 novembre” del 1981 un gruppo di donne attiviste, riunitesi nell’Incontro Femminista Latino americano e dei Caraibi tenutosi a Bogotà, sceglieva questa data in ricordo del brutale assassinio avvenuto nel lontano 1960 delle tre sorelle Mirabal, considerate esempio di donne rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell’arretratezza e nel caos per oltre 30 anni.
Questa data è stata poi ufficializzata nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e divenuta da quel momento in poi una ricorrenza volta a sensibilizzare i Governi di tutto il mondo, le Organizzazioni Internazionali e l’opinione pubblica sulla complicata e tragica questione relativa alla violenza perpetrata in danno delle donne.

La violenza contro le donne consiste in tutti quei comportamenti o abusi di potere che producono danni e sofferenza fisica, sessuale o psicologica.

In numerosissimi casi si spinge fino all’omicidio che per la prima volta è stato definito in Italia «femminicidio» da una nota sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 2009 (Cass. Penale, Sez. III, n. 26345/2009).
Nel mondo, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 1 donna su 3 ha subìto nel corso della propria vita una forma di violenza da parte di un uomo. Un femminicidio su 4 è compiuto dal partner. E i dati non sono più confortanti se si pensa al nostro Paese, dove quasi 7 milioni di donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale e nel 62,7% dei casi lo stupro è stato commesso dal partner o dall’ex di turno. Ciò che più colpisce è che in questo scenario solo il 7% dei casi viene denunciato.
Molto spesso, dietro ciascuno di questi reati c’è il medesimo percorso: una serie di minacce e provocazioni che culminano poi nell’aggressione sia fisica che psicologica. In poche parole quello della violenza è un ciclo che si presenta quasi sempre nella stessa sequenza di avvenimenti. Si comincia dalla denigrazione, poi arrivano le prime violenze.
Aggressioni calate in un contesto di sudditanza psicologica. Cominciano piano, durano a lungo e diventano sempre più pericolose, senza contare il fatto che spesso detta violenza si riverbera nell’ambito domestico, dove viene subita dagli uomini di casa, a volte anche padri o fratelli, divenendo sempre più spesso la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 14 e i 67 anni, più degli incidenti stradali, più delle malattie.
Nonostante anni di impegno e di crescente attenzione, il fenomeno, purtroppo, non appare affatto in diminuzione ed è per questo che si rivela fondamentale acquisire conoscenze e competenze per riconoscere il paradigma della differenza di genere e la violenza contro le donne come un fenomeno socio-culturale ed una violazione dei diritti umani.
Magari non sarà un appello, una nuova Carta dei Diritti, un documentario, uno spettacolo, o l’ennesima inchiesta o un libro a fermare la strage delle donne e nemmeno le migliori leggi – pur necessarie -basteranno. Eppure parlarne, scriverne, raccontare le storie di chi ha subito è un passo importante, quasi doveroso, per capire che occorre superare quel senso di turbato distacco che ci provocano i fatti di cronaca ed aiutare le vittime a scuotersi e a salvarsi in tempo.
Ci piace pensare, inoltre, che per fortuna sono tanti i mariti, i padri e i fidanzati dalla parte delle donne. L’universo femminile non è l’unico protagonista del problema, a volte ci concentriamo troppo sulle vittime per finire di dimenticare che dall’altra parte molti uomini e non tutti, per fortuna, sono aguzzini. Ecco perché in uno scenario come quello sopra descritto, bisogna pensare che uno dei passi più importanti da compiere è coinvolgere sempre di più mariti, colleghi e fratelli che invece sono al nostro fianco e risvegliare il loro orgoglio.
Non possono essere le donne, da sole, a guarire una piaga che non hanno creato, già, perché gli abusi non sono soltanto un problema di Hollywood – come i telegiornali e i talk-show ci hanno costretto ad assistere negli ultimi tempi, e che, trattandosi del solito caso del momento, è destinato a scomparire non appena ci sarà il prossimo scandalo – ma avvengono, oltreché in camera da letto, anche in strada e in ufficio e non si riducono ad uno schiaffo, ma nascono come un insulto o una limitazione alla libertà.
Quello che ci si può augurare in questo giorno è che da un’epoca di cambiamenti, troppo lenti e spesso contradditori per le donne, si approdi ad un vero cambiamento d’epoca.
Molte donne commettono l’errore di cercare un uomo con cui sviluppare una relazione senza prima avere sviluppato una relazione con se stesse; corrono da un uomo all’altro, alla ricerca di ciò che manca dentro di loro…
La ricerca deve cominciare a casa, all’interno di sè…
Nessuno può amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo davvero noi stesse, perchè quando nel nostro vuoto andiamo cercando l’amore, possiamo trovare solo altro vuoto.
(Robin Norwood, Donne che amano troppo)
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#AVVOCATO #STUDIO LEGALE #RESPONSABILITA’ MEDICA

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Responsabilità medica – Diagnosi errata – Male inguaribile

Il sanitario è responsabile per il tempo che la vittima avrebbe potuto ancora vivere.

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Con la recentissima sentenza, pronunciata dalla IV^ Sezione Penale, la Suprema Corte è tornata sull’annosa e spinosa questione della omessa diagnosi della patologia oncologica da parte del sanitario, nonché sull’importanza della sua tempestività al fine di escluderne la responsabilità.

Il caso di specie – definito con la sentenza n. 50975 dello scorso 08 novembre – ha visto coinvolta una paziente, ricorsa alla prestazione professionale dello specialista per la cura di quella che solo in apparenza si era profilata come “ernia iatale” e, nonostante gli esami clinici cui veniva sottoposta, perdeva la vita nel giro di pochi mesi.

In particolare, a fronte del quadro sintomatico lamentato, la diagnosi elaborata dallo specialista si rivelava completamente errata, poiché non venivano opportunamente disposti idonei accertamenti cito-istologici, che, qualora eseguiti tempestivamente, avrebbero rilevato con sensibile anticipo la natura della patologia da cui la paziente era affetta (poi scoperta a seguito di accertamenti clinici a cui la stessa si era sottoposta di sua autonoma iniziativa), consentendole di ricorrere a protocolli terapeutici, come la resezione del pancreas, in grado di procurare la guarigione o di incrementare consistentemente le sue speranze di vita.

Lo specialista, quindi, è finito sotto processo per omicidio colposo per aver scambiato un tumore al pancreas per un’ernia iatale.

La Corte di Appello di Bari, aveva confermato la sentenza del Giudice di primo grado, il quale aveva assolto l’imputato, perché il fatto non sussiste, dall’imputazione del reato penale di cui all’articolo 589 c.p. “poiché per colpa consistita in negligenza e violazione delle leges artis, cagionava la morte della sua paziente, la quale aveva richiesto la sua prestazione professionale per la cura di una patologia che si manifestava tramite astenia, forti dolori addominali e calo ponderale, e che poi si sarebbe rivelata per adenocarcinoma mucocosecernente ad origine pancreatica”.

Avverso tale provvedimento proponevano ricorso per Cassazione sia il Procuratore Generale della Repubblica di Bari, che le parti civili.

La Cassazione, con la sentenza in parola, pur ritenendo pienamente fondati i motivi di ricorso, ha annullato, con rinvio ai soli effetti civili, vista la sopravvenuta prescrizione del reato, la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di appello di Bari.

LA POSIZIONE DELLA CASSAZIONE SUL PUNTO.

Tuttavia, anche ai soli limitati effetti civilistici, la Cassazione ha affrontato il tema, ribadendo il principio di diritto secondo cui: “in tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi” (cfr. ex plurimis Sez. 4, Sentenza n. 46412 del 28/10/2008, Calo’, Rv. 242250; Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014 dep. il 2015, Pulcini, Rv. 263492).

La Corte, inoltre, rilevando che il thema decidendum della questione sottoposta alla sua attenzione è riassumibile nei seguenti termini: “ha un’influenza causale rispetto all’evento una ritardata diagnosi di tumore pur in presenza di quella che è comunemente e scientificamente ritenuta una delle patologie oncologiche più aggressive e ad evento nefasto quel è il carcinoma al pancreas”, ha evidenziato la contraddittorietà e lacunosità della motivazione della sentenza di merito.

La pronuncia in parola sembrerebbe, dunque, voler porre un punto fermo – assurgendo quasi a monito – sulla necessità di ancorare l’ambito della responsabilità penale medica a parametri il più possibile delineati, al fine di evitare stati si assoluta incertezza circa le conseguenze dei comportamenti attuati dai sanitari, richiamando, a tal uopo, il diffuso orientamento giurisprudenziale in relazione all’intempestiva diagnosi tumorale che trova il suo fondamento nelle note sentenze n. 36603/2011 e n. 3380/2005 e sottolineando che, nel caso di specie, se lo specialista avesse tempestivamente messo in atto tutti i protocolli diagnostici necessari e doverosi in presenza anche del solo sospetto di un tumore pancreatico, “trattandosi di una massa tumorale di dimensioni inferiori ai 2 cm. e senza metastasi in alcuno degli organi controllati, sarebbe stato possibile effettuare la c.d. stadiazione del tumore e procedere alla resezione chirurgica del pancreas o di parte di esso, con indubbi benefici per la paziente, derivandone, quanto meno, un rallentamento del decorso aggressivo della patologia con possibilità di sopravvivenza fino a cinque anni.”

Non va dimenticato, infatti, che in tutti i casi di morte dovuta ad errore diagnostico, va valutato “se vi sia stata una colpevole omissione nel disporre gli opportuni accertamenti diagnostici”. In particolare, nell’ambito delle malattie oncologiche la diagnosi precoce è fattore di assoluto rilievo ed assurge ad una funzione estremamente essenziale, proprio perché serve ad approntare quelle terapie che in numerosi casi si rivelano salvifiche oppure, in casi come quelli del tumore al pancreas, idonee ad allungare, anche se di pochi mesi soltanto, la prospettiva di vita del paziente o, quanto meno, a rendere significativamente meno doloroso il decorso stesso della malattia.

La sentenza in commento rappresenta, inoltre, un ulteriore punto di riflessione ed un prezioso strumento attraverso cui poter ancora una volta affermare che l’errore diagnostico, dovuto alla intempestiva diagnosi (con particolare attenzione alle vicende tumorali), non può escludersi per il semplice fatto che il sanitario si sia basato su precedenti “referti e pareri… di altri sanitari” (ancorché rivelatisi non risolutivi), in tal modo ritenendosi esentato dal dovere di approfondimento delle indagini diagnostiche e, nei casi più gravi, di malattie inguaribili destinate (prima o poi) ad un esito infausto.

L’essere affetti da una malattia incurabile non è sufficiente, dunque, a scriminare la condotta del medico che ritardi di molti mesi la corretta diagnosi, poiché anche il prolungamento della vita, di settimane o anni, è un elemento che va preso in considerazione ai fini della valutazione della responsabilità sia civile che penale del sanitario.

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Studio Legale Gelsomina Cimino

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GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

“Se la Pubblica Amministrazione non adempie all’ordine del Giudice, provvede il Prefetto. Lo stabilisce il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio con Sentenza su ricorso proposto dall’Avvocato Gelsomina Cimino del Foro di Roma”.

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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 74 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 11551 del proposto da:

rappresentata e difesa dall’avv. Gelsomina Cimino, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Vittorio Veneto 116;

contro

Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di non costituito in giudizio;

per ottemperanza dell’ordinanza di assegnazione del Tribunale Civile di Roma del sezione civile iv bis nel procedimento esecutivo RGE 39719/

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio il dott. Ugo De Carlo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

La ricorrente è la moglie separata di xxxxx sottufficiale della Marina Militare. Nel decreto di omologa della separazione consensuale il Tribunale di Tivoli disponeva che il militare versasse mensilmente a favore del coniuge un assegno di € 350.

Avendo il xxxxx cessato dal maggio 2012 di adempiere al suo obbligo, la ricorrente procedeva ad effettuare un pignoramento presso terzi per ottenere il pagamento del suo assegno di mantenimento direttamente dall’ente pagatore del marito.

Dopo alcuni rinvìi per mancata presentazione del terzo debitore che doveva rendere la dichiarazione ex art. 547 c.p.c., il giudice dell’esecuzione assegnava le somme maturate per un importo pari a € 6.168./00

La ricorrente con il presente ricorso chiede che il giudice dia un termine perentorio per procedere al pagamento di quanto maturato ed in caso di ulteriore inottemperanza nomini un commissario ad acta.

Il Ministero della Difesa si costituiva in giudizio facendo presente che era stato comunicato con posta elettronica certificata al difensore della ricorrente in data xxx che il xxxxx era stato posto in congedo e che quanto alla gestione amministrativa passava all’IN PS a decorrere dalla camera di consiglio del xxx il ricorso passava in decisione.

Il ricorso può essere accolto solo parzialmente.

Come argomentato correttamente dalla difesa erariale, il Ministero della Difesa può essere considerato onerato come terzo pignorato solo a partire dalla notifica del pignoramento e fino alla cessazione del rapporto di impiego con il xxxxx

Si tratta di complessivi nove mesi nel corso dei quali è maturato un debito di € 3.150 che l’Amministrazione dovrà versare senza ulteriore indugio alla ricorrente.

Pertanto va ordinato al Ministero della Difesa di ottemperare all’ordinanza di assegnazione del Tribunale Civile di Roma provvedendo al pagamento di quanto ivi previsto, entro centoventi giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente decisione.

Nell’ipotesi di ulteriore inadempimento, provvederà — su richiesta di parte — nei sessanta giorni successivi, in veste di Commissario ad acta, il Prefetto di Roma o un funzionario da lui delegato, anche con le modalità di cui all’art. 14, comma 2, del decreto-legge n. 669 del 1996 (conv. dalla legge n. 30/1997), con spese a carico dell’Amministrazione inadempiente, che vengono quantificate sin da ora in €. 300 oltre le spese documentate.

In tal caso il Ministero sarà condannato, ai sensi dell’art. 114, comma 4 lett. E), c.p.a. al pagamento di ulteriori interessi legali, decorrenti dalla scadenza del termine assegnato alla P.A. per provvedere.

Le spese di lite vanno poste a carico dell’Amministrazione, e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima Bis, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in accoglimento dello stesso, ordina al Ministero della Difesa di dare esecuzione all’ordinanza di assegnazione del Tribunale Civile di Roma del xxxx   nel procedimento 39719/ secondo le modalità e nei termini indicati in motivazione.

Nomina, per il caso di ulteriore inottemperanza, quale Commissario ad acta il Prefetto di Roma (con facoltà di delega ad un funzionario), il quale provvederà, nei termini di cui in motivazione, al compimento degli atti necessari all’esecuzione del giudicato.

Condanna il Ministero della Difesa al pagamento delle spese di lite, nella misura complessiva di € 1.000,00 (mille/00), oltre agli accessori di legge, con restituzione del contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno xxxx con l’intervento dei magistrati:

Concetta Anastasi, Presidente

Ugo De Carlo, Consigliere,

Estensore Paola Patatini, Referendario

L’ESTENSORE Ugo De Carlo

IL PRESIDENTE Concetta Anastasi

IL SEGRETARIO

USURA: LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

USURA

LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

Con la recente pronuncia n. 24675 a Sezioni Unite depositata lo scorso 19 ottobre la  Suprema Corte ha posto fine all’ annoso dibattito sviluppatosi  a seguito della entrata in vigore della L. 108/1996 sui tassi usurai.

http://studiolegalecimino.eu/usura-le-sezioni-unite-bocciano/

Invero la legge 7 marzo 1996, n. 108 è intervenuta, sul piano civilistico, a modificare l’art. 1815, comma 2, c.c. il quale prevede, nella sua attuale versione che “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”; il che determina una nullità parziale della clausola relativa agli interessi, mantenendo valido ed efficace il contratto.

La disposizione testè citata,  sia in dottrina che in giurisprudenza, ha sollevato molteplici dubbi interpretativi relativi, in primis, al diritto transitorio concernente la disciplina applicabile ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della Legge ed ancora in corso a tale data, ed in secondo luogo, si poneva un problema interpretativo circa i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore della nuova normativa antiusura, il cui tasso di interesse, seppure originariamente lecito, divenisse, in seguito ad una successiva diminuzione del tasso-soglia, eccedente tale misura.

Il problema concerneva, in sostanza, fissare il momento in cui, a fronte di oscillazioni dei tassi, usurarietà potesse dirsi conclamata. Se all’atto della convenzione o all’atto del pagamento ad opera del debitore.

Secondo un primo orientamento, doveva ritenersi decisivo il momento genetico della stipulazione del contratto, essendo irrilevante il tempo successivo dell’effettiva corresponsione degli interessi. Secondo il divergente orientamento, invece, la valutazione in ordine alall’ usurarietà degli interessi doveva essere posta in essere al momento del   pagamento, ossia, nel momento funzionale ed esecutivo del contratto.

Tale ultima impostazione è quella che ha introdotto nel nostro sistema, la c.d. usurarietà sopravvenuta.

A fronte delle incertezze interpretative e dei conseguenti risvolti sul piano applicativo, è stato successivamente emanato il D. L. 29 dicembre 2000, n. 394, poi convertito, con modifiche, nella L. 28 febbraio 2001, n. 24, che introduce all’art. 1 la norma secondo la quale “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Nonostante la legge n. 24 del 2001 sembri negare alla radice la configurabilità di una sopravvenuta usurarietà degli interessi, valorizzando esclusivamente il momento della pattuizione degli stessi, sia in dottrina che in giurisprudenza si è affermato che, anche alla luce dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore, sarebbe irragionevole e incongruo sostenere la debenza dell’interesse pattuito, esorbitante rispetto al sopravvenuto tasso-soglia.

Sul tema, si sono fronteggiati due orientamenti principali: un primo indirizzo, contrario all’usura sopravvenuta, e una seconda impostazione, invece favorevole a quest’ultima.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, sono intervenute a dirimere tale contrasto, escludendo “in toto” il rilievo della usura sopravvenuta.

Gli Ermellini, infatti, hanno osservato che  “è privo di fondamento la tesi della illiceità della pretesa di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione, alla soglia dell’usura, superi tuttavia tale soglia al momento della sua maturazione o del pagamento degli interessi stessi

A tale conclusione, la Corte perviene, facendo applicazione dei principi sottesi alle norme applicabili in materia: il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 c.p. mentre le altre disposizioni contenute nella Legge 108/96 non formulano tale divieto ma si limitano a prevedere un meccanismo di determinazione del tasso, oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurai, a mente appunto dell’art. 644 c.p. cui fa implicitamente riferimento l’art. 2 della legge citata che recita: “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurai”, limite che è appunto fissato dall’art. 644 c.p.

Sarebbe pertanto impossibile – conclude la Cassazione – operare la qualificazione di un tasso come usuraio senza fare applicazione dell’art. 644 c.p. considerando, ai fini della sua applicazione – così come impone la norma di interpretazione autentica (D.L. 394/2000) – il momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento.

Morale: per un contratto stipulato con la Banca prima della entrata in vigore della legge sui tassi usurai, l’Istituto bancario “è autorizzato” ad applicare tassi maggiori – finanche superando il tasso usura – rispetto a quelli convenuti all’atto della stipula, senza che per ciò si possa invocare la speciale tutela prevista solo per coloro che i tassi usurai se li vedono applicare dopo l’entrata in vigore della legge.

Così è se vi piace….

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BES: BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI

BES: BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI

Alunni disabili: il diritto allo studio è sacro

La Costituzione impone agli Istituti Scolastici di adottare ogni misura atta ad assicurare l’effettività del diritto allo studio: non può essere respinto l’alunno che per difficoltà psico-attitudinali non riesce a tenere il passo degli altri compagni.

Lo stabilisce il T.A.R del Lazio con Ordinanza su ricorso proposto dall’Avvocato Gelsomina Cimino del Foro di Roma.

 

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R E P U B B L IC A I T A L I A N A

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero Reg.generale OMISSIS, proposto da – OMISSIS , in qualità di esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gelsomina  Cimino

con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Vittorio Veneto, 116;

contro

Il Ministero dell’Istruzione  e dell’Università e della Ricerca, il Liceo OMISSIS-, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati in Roma via dei Portoghesi,

per l’annullamento previa sospensione dell’efficacia,

della scheda di valutazione del OMISSIS relativa al risultato finale, contenente la dichiarazione di non ammissione alla classe successiva dell’alunna, nonché del connesso verbale dcl Consiglio di Classe, recante giudizio di non ammissione, in data OMISSIS

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e del Liceo OMISSIS;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatrice nella camera di consiglio del giorno OMISSIS la dott.ssa Emanuela Loria e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto che il vizio della notifica dell’atto introduttivo, rilevato nell’ordinanza cautelare collegiale del Omissis risulta essere sanato dalla costituzione in giudizio dell’amministrazione;

Ritenuto altresì che l’istanza cautelare, allo stato degli atti e delle deduzioni delle parti, sia da accogliere essendo presenti sia l’elemento del danno grave e irreparabile sia quello del fumus boni iuris in relazione  alla situazione della minore, che deve pertanto essere ammessa alla classe successiva;

PQM

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis) accoglie l’istanza cautelare e, per l’effetto, ordina all’Istituto scolastico resistente di ammettere la minore alla classe successiva.

Fissa per la trattazione di merito del ricorso l’udienza pubblica del OMISSIS alle ore di rito

Compensa le spese della presente fase cautelare.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’amministrazione ed è depositata presso la segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1, 2 e 5 D.Lgs.30 giugno 2003 n. 196, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, per fìnalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, all’oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la patria potestà o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare il medesimo interessato riportato sulla sentenza o provvedimento.

Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del giorno Omissis con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Savoia, Presidente

Ines Simona Immacolata Pisano, Consigliere

Emanuela Loria, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE

Emanuela Loria

IL PRESIDENTE

Riccardo Savoia

 

lL SEGRETARI0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FONDO PATRIMONIALE: OPPONIBILITA’ AI CREDITORI

FONDO PATRIMONIALE:  OPPONIBILITA’ AI CREDITORI

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23955/17 è intervenuta nel giudizio di opposizione all’esecuzione avanzato da due coniugi, i quali affermavano, a sostegno delle proprie deduzioni, l’esistenza, su alcuni dei beni immobili pignorati dal creditore procedente, della costituzione di un fondo patrimoniale.

L’opposizione era stata rigettata sia in primo che in secondo grado, in quanto, secondo i giudici di merito non era stata raggiunta la prova circa l’opponibilità dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale che, infatti, avrebbe potuto dirsi opponibile al creditore solo laddove i coniugi avessero prodotto l’atto di matrimonio con accanto l’annotazione circa la costituzione del fondo.

Invero, in tali casi, l’opponibilità o meno della costituzione del fondo al creditore procedente dipende dall’anteriorità di tale annotazione rispetto alla data di trascrizione del pignoramento.

Nel caso in esame, tuttavia, l’atto di matrimonio non è stato prodotto né in primo grado né in sede di gravame e pertanto i giudici della Suprema Corte hanno dovuto ritenere che i giudici di merito abbiano correttamente rigettato l’opposizione perché destituita di prova.

Dall’applicazione di tale principio ne deriva necessariamente che, benché l’esibizione in giudizio dell’atto di matrimonio recante l’annotazione non sia condizione sostanziale di opponibilità dell’atto ai terzi ex art. 162 c.c, essa, tuttavia, costituisce necessario adempimento dell’onere della prova in giudizio.

Ma vi è più da considerare che gli opponenti avevano ritirato il proprio fascicolo di parte all’udienza di precisazione delle conclusioni senza ridepositarlo; sul punto la Corte ribadisce che, in virtù del principio dispositivo delle prove, il giudice è tenuto a decidere sulla base delle prove e dei documenti sottoposti al suo esame al momento della decisione.

Dacchè il mancato reperimento nel fascicolo di alcuni documenti deve presumersi espressione, in assenza della denuncia di altri eventi che sollevino l’involontarietà della mancanza, di un atto volontario della parte stessa che è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di alcuni dei documenti ivi contenuti, cosicchè, il Giudice si pronunci solo sulla base dei documenti posti alla sua cognizione all’atto della decisione.

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