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Crepuscolo

Post n°168 pubblicato il 06 Agosto 2007 da falco58dgl
 

           

                                     (Elena Murer, "Crepuscolo")

Riattaccò il telefono e si mise a guardare la parete. Le 16 e 45, quasi ora di uscire. “Non ho più intenzione di aspettarti”, la voce di Lucia gli arrivava tranquilla, solo un filo di risentita stanchezza incrinava quel suo timbro calmo e caldo.
Avrebbe voluto rispondere qualcosa, aveva biascicato un “come facciamo ad andare avanti così”? Poi lei aveva dovuto staccare per un impegno di lavoro e lui l’aveva salutata con un “ti richiamo tra un’ora”.

Luigi si mise a pensare, anche se dentro di sé i pensieri non tracciavano frasi compiute, come di solito gli accadeva, ma solo poche parole consunte, logorate da un uso eccessivo. “Troppo debole”, “lei ci riuscirà meglio di me”, “amo poco, soffro poco, non mi distacco”, “rimarrò intrappolato nelle mie abitudini ”.

Si alzò e si recò verso l’uscita, salutò i colleghi a voce alta con un “ciao, buon week end a tutti”, iniziò a camminare verso il corso per prendere l’autobus. Il cielo sembrava diviso in due, una zona di nubi dense e scure ne occupava il centro , mentre, tutt’intorno, un azzurro sfacciato incombeva sull’asfalto molle.
Era quasi arrivato alla fermata, quando iniziarono a cadere goccioloni di pioggia che, nel colpire la strada, rimbalzavano e si frangevano in stille d’acqua più minute. Si nascose sotto un tetto sporgente, mentre l’acqua veniva giù con fragore, portando con sé i primi chicchi di grandine. Eppure c’era il sole, che filtrava obliquo dalle nubi. “Sono stanco, cazzo”, disse a mezza voce. Sentiva pesare i giorni uno per uno, i diciottomila giorni che gli era toccato in sorte di vivere e che ormai avevano lo stesso impatto di pietre che rotolano a valle con forza, trascinate dal pendio, senza formare ancora una valanga. Un gocciolio di pietre, lo scorrere del tempo. Lucia, in fondo, era l’ultimo sasso, l’anello finale di una catena fatta di rinunce, di smarrimenti, di omissioni. Velleità incompiute, un ritirarsi dentro di sé per timore di esporsi, per timore del ridicolo, come se il ridicolo non colpisse con forza proprio coloro che vivono una vita artefatta ed insincera.

Luigi approfittò dell’attenuazione del temporale per proteggersi sotto un albero, a due passi dalla fermata. Guardò il display del cellulare, le 17 e 11. L’orologio l’aveva perso in una lite furiosa con una persona che un tempo gli era cara. Da allora erano passati tre anni, ma non volle ricomprarselo. “Lo riprenderò quando sarò di nuovo padrone del mio tempo”. Trovava sempre una buona occasione per rimandare, forse perché viveva un tempo insensato, violentato dall’inerzia e dalla difficoltà di cambiare stato, come se fosse materia minerale destinata a mutare nel corso di ere geologiche.

Scorse il “2” che s’affacciava dal fondo del corso. Vi salì sopra. Faceva caldo. Molta gente, tre donne peruviane che parlavano uno spagnolo elementare e stereotipato, giovani con la faccia inespressiva o congelata in una risata da paresi, vecchi signori semicalvi con la pancetta. Luigi si fermò vicino ad una porta pensando “undici fermate, poi arrivo”. Una volta arrivato a casa avrebbe potuto chiamare Lucia e dirle che l’amava, che gli era necessaria, che avrebbe corrisposto ai suoi desideri. Si appoggiò contro la parete dell’autobus e fu stupito dal sollievo che provò nel scaricare parte del peso del suo corpo dalle gambe. “Cazzo, mi sento a pezzi”. Chissà perché, gli venne in mente una fotografia, ormai ingiallita, che lo ritraeva mentre sedeva sull’argine di un fiume, lo sguardo strafottente, la sigaretta in mano, i capelli lunghi e lisci, il corpo snello e atletico. Sembrava un’altra vita. “Sì, proprio un’altra vita”. Un’occhiata al telefonino, le 17 e 23. Ormai mancava poco, anche se i semafori sembravano congiurare per rallentare la corsa del mezzo che lo riportava a casa.

Quel viale percorso dall’autobus che divideva in due la sua esistenza quotidiana: a destra la scuola del figlio, il lavoro ed il parco. A sinistra, la casa,i cinema, il bar. Era arrivato, scese i tre gradini sentendo le gambe pesanti ed appoggiandosi al mancorrente come un anziano. Giunse al semaforo, s’accinse ad attraversare il corso, il doppio bip di un sms in arrivo lo distrasse un momento. Lucia. Lucia che scriveva i messaggi in minuscolo, frasi corte che terminavano con faccine sorridenti. Sorrise. S’impose di attraversare con attenzione, gli venne in mente che, se avesse voluto buttarsi sotto una macchina e lo avesse fatto per bene, magari sarebbe rimasto paralitico per sempre. Per i diecimila giorni che ancora mancavano.

Arrivò sotto casa, guardò il cellulare. Non era Lucia, ma il messaggio del gestore che pubblicizzava un’offerta promozionale. Si fermò un attimo indeciso con le chiavi in mano, poi si girò, attraversò la strada che incrociava il viale ed entrò nel bar.

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(in seguito a uno spiacevole episodio
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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