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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Bologna, 1977

Post n°237 pubblicato il 06 Febbraio 2008 da falco58dgl
 

-         Ce l’hai una sigaretta?
-        Ti do un pacchetto, per la tua autonomia. Basta che per un po’ non me ne chiedi più.
-         Mmm, grazie. Hai da accendere?

 

Al Palasport, il tavolo della presidenza pare una barca sballottata da un  maestrale violento.

Persone che si spingono, che emergono, che scompaiono, circondate da un servizio d’ordine pressato da cerchi di folla  che si muove, si contrae, viene respinta indietro, torna a farsi sotto con un  frastuono da stazione ferroviaria, urla e ritma slogan.

“Compagni, diamo la parola al compagno Visco, del collettivo dell’Alfa Romeo”.

Un intero settore del Palasport si alza in piedi, scandendo “via via la nuova polizia”, muovendo la destra  con il pollice levato in alto, il medio e l’indice uniti insieme, a imitare una pistola pronta a sparare.

“Compagni, non è facile per chi, come me, appartiene alle espressioni storiche del movimento, prendere la parola in questa assemblea, e portare il punto di vista della nuova soggettività che si afferma nella fabbriche, nei quartieri, nelle nostre città…”

“Compagni, compagni, COMPAGNI, un po’ di attenzione per favore, fate parlare i delegati del  movimento… compagni,  non trasformiamo questo straordinario incontro in una rissa…COMPAGNI COMPAGNI”.

“Una comunicazione di eccezionale gravità, compagni. Fate silenzio, cazzo. Compagni, un attimo di attenzione.”

Una voce stonata inizia a cantare l’Internazionale “Su lottiam l’ideale, nostro alfine sarà…”. Per qualche secondo si placa il chiasso infernale che avvolge il catino del Palasport, il coro si leva e aumenta d’intensità, ripreso da cento, cinquecento, mille, duemila, tremila bocche. Anche se, alla fine del ritornello la “futura umanità” viene accompagnata dal gesto della P38 dallo spicchio posto dietro al tavolo della presidenza.

Oreste Scalzone gesticola come se volesse prendere a pugni chi gli sta vicino.

“Compagni, l’occasione data dal Convegno è irripetibile. Dobbiamo uscire da qui con una piattaforma comune che chieda la liberazione dei compagni in galera e la ripresa di un’iniziativa forte conto il governo, i revisionisti del P.C.I, i sindacati. Dobbiamo creare un rapporto con quei compagni che hanno scelto di portare avanti con la lotta armata la loro critica radicale allo stato di cose esistenti. Dobbiamo battere la tendenza presente in settori del movimento di andare a rimorchio dei partiti della cosiddetta sinistra storica. Il movimento è un soggetto rivoluzionario che risponde unicamente alle istanze organizzate del nuovo proletariato”.

Un boato copre la voce dell’oratore. “VIA VIA LA FALSA AUTONOMIA”, “AU-TO-NO-MI-A  O-PE-RA-IA, OR-GA-NIZ-ZA-ZIO-NE, LOT-TA AR-MA-TA, RI-VO-LU-ZIO-NE”. “VIA VIA LA NUOVA POLIZIA”.

Mi accendo la quindicesima sigaretta del giorno pensando “che puttanaio!”. Accanto a me, Giorgio sottolinea con urla e applausi i passaggi di oratori che appartengono a settori diversi del movimento. Applaude qualunque cosa si distacchi dall’orgia di frasi fatte, di slogan, di ripetizioni liturgiche che fanno da contrappunto gli interventi. La frase “chi urla contro l’autonomia  non vuole in realtà la liberazione dei compagni arrestati” lo vede scattare in piedi urlando “questo è vero!”. Ma anche la battuta finale di Visco, che ha ripreso la parola  fatica e conclude affermando “gli operai non ci capiscono. Vedono  persone che bruciano le macchine e pensano ‘quelle macchine le abbiamo prodotte noi’ ” lo  vede annuire con forza.

Esco dal  Palasport pensando che l’assemblea è un’altra occasione persa, che le tensioni dovrebbero indirizzarsi  contro il governo, contro quell’accolita di mafiosi e lestofanti che controllano il paese da più di 30 anni e non esplodere al nostro interno, in una lotta sterile per l’egemonia  e per chi urla più forte.

Mi dirigo verso il centro, le vie sono piene di gente  che cammina a gruppi, ride, carica zaini e assiste a spettacoli di strada. Qualcuno si dipinge il volto di bianco e nero, altri si rollano un cannone sotto i portici. Nell’aria c’è un tepore da fine estate, mi accendo l’ultima sigaretta del pacchetto pensando che ho esagerato, un pacchetto in 5 ore,  le quattromila lire che mi restano in tasca  non mi consentono neanche spese necessarie come le gauloises senza filtro che per metà compro e per metà scrocco all’esercito dei convenuti.

Arrivo in Piazza Maggiore,  vedo gruppetti di anziani che parlano animatamente con  persone che potrebbero essere loro nipoti, difendendo Bologna e la sua amministrazione. Mi siedo sui gradini della cattedrale, rimedio due tiri di uno spino che una ragazza vestita da clown mi passa sorridendo.  Per la prima volta mi sento bene, ripenso alla giornata di ieri che mi ha visto arrivare a Bologna in autostop, quattro ore di passaggi veloci sull’autostrada del sole e la ricerca di una Facoltà  occupata dove sistemare il sacco a pelo per passare la notte, l’incontro con una ragazza con cui avevo quasi fatto l’amore anni prima che, prima di addormentarsi, mi ha detto di essere tornata a Cassino, la sua città, lasciando a metà l’università.

Mi alzo e vado alla ricerca di un bar. Telefono a Marco, questa sera dormo in un letto, penso, mentre compongo un numero a sei cifre.   

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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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