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Un paese senz'anima

Post n°331 pubblicato il 23 Novembre 2008 da falco58dgl
 

Voglio andare via. Allontanarmi da questo paese che sembra ignaro di se stesso, che perde i suoi figli per strada, impaurito e incattivito, logoro e reso feroce dalla crisi incombente.

Un paese dove si propongono  classi ghetto per minori  stranieri che non parlano bene l’italiano (quattro rumeni, tre marocchini, tre albanesi,  due cinesi, due ucraini, un peruviano, un egiziano, un senegalese, una babele di provenienze e di lingue accomunate dal marchio della discriminazione), dove si vogliono prendere le impronte digitali ai bambini rom (con il pretesto miserabile di renderli identificabili, avviando la prima schedatura etnica di massa dopo quella prevista dalle leggi razziali del ’38), dove si progetta di sospendere i flussi migratori per due anni, con l’effetto di aumentare a dismisura l’immigrazione clandestina, dove s’invitano i medici e il personale sanitario a segnalare alla polizia gli immigrati clandestini  che si rivolgono loro per farsi curare, trasformandoli in informatori delle forze dell’ordine, dove la scuola viene concepita come una fonte di sprechi, un settore da tagliare per fare cassa e non come un investimento fondamentale verso il futuro.

Un paese dove il primo ministro può dire che la crisi finanziaria non avrà ripercussioni sull’economia reale, che si lamenta di essere maltrattato dai conduttori della televisione di “sinistra”, che invita a non pagare il canone televisivo e che definisce “eroe” un mafioso che prestava servizio nelle proprie scuderie mentre esterna il proprio orrore per un ex magistrato che ha avviato “Mani pulite” e rifiutò, a suo tempo, l’offerta di diventare Ministro dell’Interno di un suo governo.

Quest’Italia che assomiglia sempre di più alla federazione Russa, con una caricatura di democrazia, l’informazione asservita, la magistratura umiliata da leggi “ad personam”, la designazione di membri  del parlamento graditi alla maggioranza in commissioni di garanzia che spettano all’opposizione, il revisionismo storico che vuol mettere sullo stesso piano la resistenza e i fascisti della repubblica sociale di Salò, che vuole elargire tessere sociali da poche decine di euro per gli indigenti invece di combattere i meccanismi che hanno condotto sette milioni di italiani nell’area della povertà,  che taglia i finanziamenti all’Università senza intaccare le baronie che hanno trasformato i nostri istituti di insegnamento in feudi per parenti, figli, mogli, nipoti dei professori ordinari, che fomenta atteggiamenti xenofobi  e razzisti da parte di gruppi organizzati, salvo poi considerarli come espressione di tensioni sociali alimentate dall’immigrazione clandestina.

 

Un paese impaurito, che teme di perdere i propri risparmi e le posizioni raggiunte, che si affida a un governo composto da un partito padronale gestito da un pluriinquisito e da un movimento pesantemente inquinato  da tendenze separatiste e xenofobe, che vota a maggioranza per Berlusconi sperando di non dover fare i conti con la crisi mondiale, con la scarsa competitività delle imprese, con l’assenza di prospettive di lavoro e di vita per le giovani generazioni,  con la precarietà che erode garanzie e prospettive di futuro.

Un paese che baratta la propria libertà per un pugno di illusioni, in nome di un decisionismo che svuota la democrazia e considera il Parlamento un organismo di ratifica delle decisioni dell’esecutivo e gli altri poteri dello Stato come avversari da rendere marginali. Un paese che sopporta che le organizzazioni criminali controllino un terzo del suo territorio, in cui Saviano viene considerato uno “che non si è fatto i fatti propri”, che onora i magistrati antimafia dopo che sono stati ammazzati, prigioniero della pratica delle raccomandazioni, dell’appartenenza famigliare, dei concorsi truccati.

Un paese in cui il qualunquismo, l’anticomunismo ideologico, l’affidarsi a un capo e a un salvatore costituiscono disvalori largamente rappresentati in chi governa e che tende a considerare i conflitti di interessi, il controllo di legalità,  il merito come invenzioni di giornalisti faziosi o  noiosi ostacoli burocratici.

 

No, in un paese che ha perso la propria anima, non ho voglia di passare la seconda parte della mia vita.  

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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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