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La rivoluzione del Mediterraneo

Post n°428 pubblicato il 25 Febbraio 2011 da falco58dgl

 

gheddafi

Come nel 1989 nell'Europa dell'Est, con un movimento rapidissimo che si propaga di paese in paese, da nazione a nazione, la sponda sud del Mediterraneo sta vivendo una transizione epocale, una rivoluzione storica che rovescia i rapporti di forza tra le oligarchie dominanti e le popolazioni della Tunisia, dell'Egitto, dell'Algeria, della Libia.

Nel giro di un mese, è stato deposto Ben Alì, che governava la Tunisia da 23 anni, è stato cacciato Mubarak, al potere ininterrottamente in Egitto da 30 anni, sta crollando il feroce e sanguinario regime di Gheddafi, padrone assoluto da 42 anni della Libia.

Ciò che colpisce nelle sollevazioni popolari è la giovane età di molti dei manifestanti e l'adesione trasversale alle richieste di libertà e di democrazia che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di Tunisini, di Egiziani, di Libici. Una protesta popolare motivata in parte da ragioni economiche (i prezzi di molti generi di prima necessità sono aumentati anche dell'80%), ma soprattutto da esigenze di democrazia e di  libertà da regimi che hanno ingessato quei paesi fin dagli anni '70-80 dentro proposte di governo autoritarie, limitazione dei diritti civili, arricchimento sfrenato dell'entourage dei dittatori e impoverimento complessivo degli strati popolari.

Colpisce in modo particolare il coraggio dei manifestanti che hanno resistito a repressioni feroci in Egitto e in Tunisia e che stanno sfidando i mercenari e l'aviazione di Gheddafi impegnati nel  perpetrare autentiche stragi (si parla di 10.000 morti nella prima settimana di proteste). Come se chi manifesta, avesse capito  che la  posta in gioco è il loro presente e il loro futuro e non ci potessero essere mediazioni rispetto alle richieste di rinnovamento radicale.

Gli scenari devono ancora compiutamente svilupparsi. E' troppo presto per sapere quali sbocchi avrà la rivoluzione del Mediterraneo. Certo, a differenza di altri moti popolari nei paesi musulmani, non sono stati notati  accenti fondamentalisti o derive estremistiche. Nessuna bandiera americana bruciata, nessuna fatwa contro Israele, richieste di libere elezioni e di rinnovamento democratico.

Qui in Italia, invece di cogliere la straordinaria novità rappresentata dalla caduta di regimi trentennali per opera di imponenti manifestazioni popolari, il dibattito è polarizzato su due questioni: il taglio delle forniture di gas e di petrolio e il possibile arrivo  di centinaia di migliaia di immigrati irregolari, in fuga dalla Libia e dalla Tunisia. Sono certamente questioni rilevanti, ma non colgono la dimensione reale, epocale di ciò che succede sull'altra sponda del Mediterraneo. Innanzi tutto, i rifornimenti energetici che provengono dalla Libia incidono non più del 10% del fabbisogno complessivo dell'Italia. In secondo luogo, fino ad ora, chi ha usato i flussi di immigrati come armi è stato proprio Gheddafi, che è riuscito ad ottenere dal governo italiano e dal suo grande amico Berlusconi, 5 miliardi di euro in 20 anni, in cambio della promessa  di contenere i flussi di immigrati verso il territorio italiano.

E' un dibattito povero, provinciale, in cui lo spauracchio dell'arrivo di un gran numero di immigrati viene agitato strumentalmente dal governo per occultare le sue responsabilità nei confronti del regime libico, un atteggiamento che  si può definire con il termine "complicità", più che con quello di "collaborazione". Il nostro governo è stato complice nella violazione dei diritti umani. Sapevano benissimo che gli immigrati respinti sarebbero stati internati in campi di concentramento nel deserto  ad agonizzare in condizioni subumane, ma non gli è importato nulla. L importante era poter dire alla pubblica opinione italiana che gli sbarchi a Lampedusa erano finiti.

Spero che la rivoluzione della sponda sud del Mediterraneo, invece, serva anche a noi.
Serva per comprendere che occorre impegnarsi se si vuole il cambiamento. Anche in una democrazia occidentale, l'impegno condiviso è uno strumento prezioso per riuscire a cambiare.

W.

 

no

 

 

 
 
 
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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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