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Messaggi del 01/06/2015

Vita Nova 1-10

Post n°1685 pubblicato il 01 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Vita Nova
Dante Alighieri

I. In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d'assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.

II. [I] Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d'oriente de le dodici parti l'una d'un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi». In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l'alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra». In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!». D'allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l'andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero: «Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo». E avvegna che la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d'Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine para alcuno parlare faboluso, mi partirò da esse; e trapassando molte cose le quali si potrebbero trarre de l'essemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.

III. [II] Poi che furono passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l'apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l'ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov'io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L'ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d'una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima. [III] E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m'apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d'uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus». Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggermente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch'era la donna de la salute, la quale m'avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l'una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole:«Vide cor tuum». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l'ora ne la quale m'era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifestamente ch'ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte. Pensando io a ciò che m'era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l'arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d'Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io aveva nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun'alma presa.

A ciascun'alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne s tella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.

Questo sonetto si divide in due parti; che ne la prima parte saluto e domando risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte comincia quivi:Già eran. A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo principio de l'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.

IV. Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad essere impedito ne la sua operazione, però che l'anima era tutta data nel pensare di questa gentilissima; onde io divenni in picciolo tempo poi di sì fraile e debole condizione, che a molti amici pesava de la mia vista; e molti pieni d'invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto celare ad altrui. Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che mi faceano, per la volontade d'Amore, lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione, rispondea loro che Amore era quelli che così m'avea governato. Dicea d'Amore, però che io portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si potea ricovrire. E quando mi domandavano «Per cui t'ha così distrutto questo Amore?», ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro.

V. Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s'udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse. Onde molti s'accorsero de lo suo mirare; e in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui»; e nominandola, io intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei. Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.

VI. Dico che in questo tempo che questa donna era schermo di tanto amore, quanto da la mia parte, sì mi venne una volontade di volere ricordare lo nome di quella gentilissima ed accompagnarlo di molti nomi di donne, e spezialmente del nome di questa gentile donna. E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l'altissimo sire, e compuosi una pistola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò: e non n'avrei fatto menzione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne.

VII. La donna co la quale io avea tanto tempo celata la mia volontade, convenne che si partisse de la sopradetta cittade e andasse in paese molto lontano; per che io, quasi sbigottito de la bella difesa che m'era venuta meno, assai me ne disconfortai, più che io medesimo non avrei creduto dinanzi. E pensando che se de la sua partita io non parlasse alquanto dolorosamente, le persone sarebbero accorte più tosto de lo mio nascondere, propuosi di farne alcuna lamentanza in uno sonetto; lo quale io scriverò, acciò che la mia donna fue immediata cagione di certe parole che ne lo sonetto sono, sì come appare a chi lo intende. E allora dissi questo sonetto, che comincia:O voi che per la via.

O voi che per la via d'Amor passate,
attendete e guardate
s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave;
e prego sol ch'audir mi sofferiate,
e poi imaginate
s'io son d'ogni tormento ostale e chiave.
Amor, non già per mia poca bontate,
ma per sua nobiltate,
mi pose in vita sì dolce e soave,
ch'io mi sentia dir dietro spesse fiate:
«Deo, per qual dignitate
così leggiadro questi lo core have?»
Or ho perduta tutta mia baldanza,
che si movea d'amoroso tesoro;
ond'io pover dimoro,
in guisa che di dir mi ven dottanza.
Sì che volendo far come coloro
che per vergogna celan lor mancanza,
di fuor mostro allegranza,
e dentro da lo core struggo e ploro.

Questo sonetto ha due parti principali; che ne la prima intendo chiamare li fedeli d'Amore per quelle parole di Geremia profeta che dicono: «O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus», e pregare che mi sofferino d'audire; ne la seconda narro là ove Amore m'avea posto, con altro intendimento che l'estreme parti del sonetto non mostrano, e dico che io hoe ciò perduto. La seconda parte comincia quivi:Amor, non già.

VIII. Appresso lo partire di questa gentile donna fue piacere del segnore de li angeli di chiamare a la sua gloria una donna giovane e di gentile aspetto molto, la quale fue assai graziosa in questa sopradetta cittade; lo cui corpo io vidi giacere sanza l'anima in mezzo di molte donne, le quali piangeano assai pietosamente. Allora, ricordandomi che già l'avea veduta fare compagnia a quella gentilissima, non poteo sostenere alquante lagrime; anzi piangendo mi propuosi di dicere alquante parole de la sua morte, in guiderdone di ciò che alcuna fiata l'avea veduta con la mia donna. E di ciò toccai alcuna cosa ne l'ultima parte de le parole che io ne dissi, sì come appare manifestamente a chi lo intende. E dissi allora questi due sonetti, li quali comincia lo primo: Piangete, amanti, e lo secondo:Morte villana.

Piangete, amanti, poi che piange Amore,
udendo qual cagion lui fa plorare.
Amor sente a Pietà donne chiamare,
mostrando amaro duol per li occhi fore,
perché villana Morte in gentil core
ha miso il suo crudele adoperare,
guastando ciò che al mondo è da laudare
in gentil donna sovra de l'onore.
Audite quanto Amor le fece orranza,
ch'io 'l vidi lamentare in forma vera
sovra la morta imagine avvenente;
e riguardava ver lo ciel sovente,
ove l'alma gentil già locata era,
che donna fu di sì gaia sembianza.

Questo primo sonetto si divide in tre parti: ne la prima chiamo e sollicito li fedeli d'Amore a piangere e dico che lo segnore loro piange, e dico 'udendo la cagione per che piange', acciò che s'acconcino più ad ascoltarmi; ne la seconda narro la cagione; ne la terza parlo d'alcuno onore che Amore fece a questa donna. La seconda parte comincia quivi:Amor sente; la terza quivi:Audite.

Morte villana, di pietà nemica,
di dolor madre antica,
giudicio incontastabile gravoso,
poi che hai data matera al cor doglioso
ond'io vado pensoso,
di te blasmar la lingua s'affatica.
E s'io di grazia ti voi far mendica,
convenesi ch'eo dica
lo tuo fallar d'onni torto tortoso,
non però ch'a la gente sia nascoso,
ma per farne cruccioso
chi d'amor per innanzi si notrica.
Dal secolo hai partita cortesia
e ciò ch'è in donna da pregiar vertute:
in gaia gioventute
distrutta hai l'amorosa leggiadria.
Più non voi discovrir qual donna sia
che per le propietà sue canosciute.
Chi non merta salute
non speri mai d'aver sua compagnia.

Questo sonetto si divide in quattro parti: ne la prima parte chiamo la Morte per certi suoi nomi propri; ne la seconda, parlando a lei, dico la cagione per che io mi muovo a biasimarla; ne la terza la vitupero; ne la quarta mi volgo a parlare a indiffinita persona, avvegna che quanto a lo mio intendimento sia diffinita. La seconda comincia quivi:poi che hai data; la terza quivi:E s'io di grazia; la quarta quivi: Chi non merta salute.

IX. Appresso la morte di questa donna alquanti die avvenne cosa per la quale me convenne partire de la sopradetta cittade e ire verso quelle parti dov'era la gentile donna ch'era stata mia difesa, avvegna che non tanto fosse lontano lo termine de lo mio andare quanto ella era. E tutto ch'io fosse a la compagnia di molti quanto a la vista, l'andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l'angoscia che lo cuore sentia, però ch'io mi dilungava de la mia beatitudine. E però lo dolcissimo segnore, lo quale mi segnoreggiava per la vertù de la gentilissima donna, ne la mia imaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi. Elli mi parea disbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gia lungo questo cammino là ov'io era. A me parve che Amore mi chiamasse, e dicessemi queste parole: «Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo rivenire non sarà a gran tempi; e però quello cuore che io ti facea avere a lei, io l'ho meco, e portolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa era». E nominollami per nome, sì che io la conobbi bene. «Ma tuttavia, di queste parole ch'io t'ho ragionate se alcuna cosa ne dicessi, dille nel modo che per loro non si discernesse lo simulato amore che tu hai mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad altri». E dette queste parole, disparve questa mia imaginazione tutta subitamente per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato ne la vista mia, cavalcai quel giorno pensoso molto e accompagnato da molti sospiri. Appresso lo giorno cominciai di ciò questo sonetto, lo quale comincia: Cavalcando.

Cavalcando l'altr'ier per un cammino,
pensoso de l'andar che mi sgradia,
trovai Amore in mezzo de la via
in abito leggier di peregrino.
Ne la sembianza mi parea meschino,
come avesse perduto segnoria;
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino.
Quando mi vide, mi chiamò per nome,
e disse: «Io vegno di lontana parte,
ov'era lo tuo cor per mio volere;
e recolo a servir novo piacere».
Allora presi di lui sì gran parte,
ch'elli disparve, e non m'accorsi come.

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima parte dico sì com'io trovai Amore, e quale mi parea; ne la seconda dico quello ch'elli mi disse, avvegna che non compiutamente per tema ch'avea di discovrire lo mio secreto; ne la terza dico com'elli mi disparve.La seconda comincia quivi: Quando mi vide; la terza: Allora presi.

X. Appresso la mia ritornata mi misi a cercare di questa donna che lo mio segnore m'avea nominata ne lo cammino de li sospiri; e acciò che lo mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini de la cortesia; onde molte fiate mi pensava duramente. E per questa cagione, cioè di questa soverchievole voce che parea che m'infamasse viziosamente, quella gentilissima, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina de le virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine. E uscendo alquanto del proposito presente, voglio dare a intendere quello che lo suo salutare in me vertuosamente operava.

Dante Alighieri

(segue)

 
 
 

Domenica 11 novembre

Post n°1684 pubblicato il 01 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Domenica 11 novembre

Questa sera ho parlato con monsieur e madame Hébert. Le giovani aristocratiche vengono educate da istitutrici o al Sacro Cuore. (Trinità dei Monti.) Un po' di francese e di ortografia. Aritmetica. Leggere, scrivere. Nelle famiglie si impara forse qualcosa più che in convento. Più o meno studiano dai 12 ai 20 anni, proprio come a Aix. Ma civettano. Giocano con gli occhi. La storia della piccola Bonaparte,2 che ha pescato con gli occhi un giovane ufficiale al Corso.«Lo voglio», e l'ha avuto. Testardaggine. Le altre fanno passare bigliettini dietro la schiena, a messa o altrove. Escono con la madre. In vettura mute e riservate, ma parlano con gli occhi. Anche alla finestra, da cui le governanti trasmettono messaggi per loro. Piccoli scandali. La giovane sposata che conduce una vita ritirata. Non esce mai con il marito. La mattina va a comprare nastri e altre cose, o a provare dalla sarta. Dunque non è il nostro giro di compere del pomeriggio. Di pomeriggio è obbligatorio il giro del Pincio e del Corso. Ci si saluta, si lascia qualche biglietto da visita nelle case degli amici. Niente ricevimenti intimi fra le famiglie. (Sempre come a Aix.) Uno o due grandi balli nei palazzi. Ottocento persone. Stuoli di lacchè. I padroni di casa, sulla soglia, stringono la mano; e si è perduti. Dunque la Lovatelli fa eccezione. Non si parla del mondo, solo piccoli pettegolezzi. Bambinoni. Una tracotanza fatta di timidezza e d'ignoranza. Un mondo chiuso in cui non entra nulla, che si difende con la tracotanza. Forti legami familiari. La moglie e le figlie formano una specie di harem, con qualche occhiata lanciata fuori. Le ragazze scelgono un marito di proprio gusto. Delle donne, tranne qualche eccezione, non si chiacchiera: sono tutte dedite al loro amore, quando ne hanno uno. Eppure l'elemento straniero, inglesi, tedeschi e americani, che si introduce attraverso il matrimonio, muta un po' questo piccolo mondo. Società molto chiusa, ho detto, che non riceve nemmeno in famiglia: solo alle feste. La socievolezza francese è assente. Ne spirito ne affabilità. Il gineceo, con tutti i suoi inconvenienti. Nella borghesia si conduce la stessa vita ritirata, in disparte. Il marito rientra, si mette in maniche di camicia e mangia un'insalata. l lavoro non è stimato. Come ha detto Schnetz a Hébert: «Se volete essere ben visto qui, non lavorate». In effetti i B. si sono molto stupiti davanti a me.

Stasera abbiamo cenato all'ambasciata francese, a palazzo Farnese. La grande sala dei Carracci da sul Tevere. Il gabinetto dell'ambasciatore è sull'angolo e da questa stanza parte la galleria che attraversa via Giulia su un ponte per sbucare su una terrazza che domina il Tevere.
Le splendide tappezzerie dei Gobelins, venute a Roma per una mostra, sono rimaste all'ambasciatore. Comunque visiterò il palazzo e lo descriverò. La sera, per venire qui, abbiamo attraversato le grandi arterie illuminate dai globi elettrici: corso Vittorio Emanuele, via Nazionale, il Corso, San Nicola da Tolentino e altre; poi le stradine trasversali, con i rari lampioni a gas gialli. C'è un grande contrasto quando vi si penetra. Piazza Farnese con le sue due fontane, il palazzo nero, qualche lampione a gas, il selciato deserto. La scalinata di piazza di Spagna nella notte, con i suoi sei lampioni a gas, stelline di una costellazione simmetrica; poi, in alto, la massa scura della chiesa che si staglia nel cielo chiaro.

A palazzo Farnese ho saputo parecchie cose. La chiesa dei Morti, vicino all'arco, è una chiesa di penitenti che ha la missione di andare a cercare i corpi delle persone morte in campagna e rimaste abbandonate. Ci si può dunque immaginare cosa sia la campagna. Pare vi sia stato trovato un morto anche ultimamente. La campagna era molto fertile al tempo dei Romani? Sì, senza dubbio. Sono stati trovati resti di numerose ville e un complicato sistema di drenaggio. Ma se e'era un impianto di drenaggio e'era dunque la necessità di drenare e la campagna non doveva essere boscosa. Insomma, la questione di una campagna boscosa e verdeggiante resta decisamente controversa. La questione dei domestici. All'ambasciata non se ne possono tenere di francesi: mantengono i propri vizi e prendono anche tutti quelli italiani. Gli italiani sono molto pigri e ladri. Bisogna parlar loro con calma. Se li si accusa di rubare si difendono e protestano la propria innocenza. Sono molto deferenti. I poveri di Prati di Castello. Donne che non hanno pane e di conseguenza nemmeno latte. Una miseria spaventosa. Un cadavere dimenticato per cinque giorni in un alloggio ignorato. Una donna si sbaglia, scambia una finestra spalancata per una porta, precipita e muore. Il «demimonde». Una decina di «cocottes».

Abitano i palazzetti dietro la stazione (dove si trova la casa di Bonghi). Mangiano milioni ai principi. Vetture, cavalli, diamanti. Vanno tutti i giorni al Corso e al Pincio. Gli amanti le salutano, ma non si mostrano mai pubblicamente al loro fianco in carrozza. Cenano però insieme al Caffé Roma (Corso) o al Grand H.H.H. teatro stanno in palchi diversi, ma vanno a salutarle durante l'intervallo. Le dame del gran mondo si occupano di loro, le vedono al Corso, ne parlano la sera. Qualcuna è molto bella, come Violetta. Al mattino avevo parlato a lungo, con Darcours, del crac. Ecco il riassunto di tutta la storia. All'inizio le case sono state costruite con prudenza, a seconda delle necessità. Ma poi i lavori edili hanno preso un altro ritmo, nella fretta di realizzare una grande città degna dell'Italia. Così si è perso qualunque progetto generale e ognuno ha costruito come credeva. In un primo momento si trattava di prendere possesso della città, di risanarla, di farne la grande capitale moderna, di costruire per avere finalmente una terza Roma, più grande e magnifica delle altre due. Tutti avevano questa idea. Si era convinti che la popolazione si sarebbe quintuplicata, sarebbe arrivata al milione, più di quanti abitanti avesse contato la Roma dell'antichità, e che si sarebbe dovuto costruire fin fuori le mura. Lo stesso era accaduto a Berlino e a Vienna: soprattutto a Berlino dopo la conquista. Era dunque ragionevole risanare e costruire gli alloggi necessari, in una parola far fronte alle nuove necessità.

Prima del '70 si stendeva ancora la biancheria sul Corso, si buttavano gli escrementi nei cortili dei palazzi, dove ci si limitava a entrare e calarsi le brache. Niente latrine ne fogne. Roma sporca. Dunque all'inizio si costruirono le case necessarie, poi l'orgoglio e la speculazione condussero alla follia. La disgrazia è che i romani non hanno avuto un uomo come Haussmann, ne società solide come, per esempio, la società Péreire. Solo volgari speculatori, soprattutto piemontesi, scesi nel Mezzogiorno con il governo e abbattutisi su Roma carichi d'appetiti. Se ne è comunque occupato anche qualche romano (un semplice fornaio, Moroni, ha fatto fallimento per 45 milioni). Roma, nobile e facile, era una grande preda. Dunque il tutto ha avuto inizio con speculatori che hanno fiutato il tracciato delle nuove vie e che hanno acquistato case e terreni lungo questo tracciato. Come per via Nazionale e corso Vittorio Emanuele. In due anni i terreni, che valevano da 6 a 10 franchi, sono saliti da 100 a 200 franchi. Il tutto si è verificato lentamente, dal '70 al '75. I primi hanno decuplicato i propri investimenti. Trascinati dall'esempio ci si sono messi tutti, principi, piccolo borghesi, piccoli proprietari, droghieri, fornai, ciabattini; si sono tutti improvvisati speculatori e costruttori. Chi non aveva i soldi sufficienti si è rivolto alle banche, alle società di credito, prendendo in prestito per acquistare e rivendere. Si sono formate società: la Fondiaria, la Tiberina (per Torino), la Esquilino, l'Immobiliare, la Società di edilizia e costruzione.

Queste hanno acquistato terreni per conto proprio giocandoci sopra, scegliendo ognuna qualche vecchio quartiere da abbattere: il ghetto, il quartiere in cui passa corso Vittorio Emanuele, quello di porta San Giovanni, di porta San Lorenzo (vicino al cimitero), del Testacelo, soprattutto di Prati di Castello (qui fra l'84 e il 90). Ai Prati hanno acquistato tutte le società: una vera e propria città da far sorgere dal suolo con un colpo di bacchetta magica. Così pure fuori città: l'immenso triangolo, la cui base va da porta Salaria a porta Pia e al cui apice si trova Sant'Agnese. Anche qui erano presenti tutte le società, rivali fra loro. Ma perché tante case, case per una popolazione inesistente? Vorrei che si calcolasse la popolazione che potrebbe vivere nelle nuove abitazioni. Si dice da cinque a seicentomila persone. E questa cifra non doveva sembrare esagerata agli italiani. Berlino era ben quintuplicata. Inoltre devono aver pensato che la prima fatale affluenza sarebbe continuata, non potesse che crescere. Le case avrebbero richiamato gli abitanti. Infine il resto è stato compiuto dalla follia della speculazione. Infiammati dai guadagni, ci si sono buttati tutti. All'inizio le società hanno costruito esse stesse, poi hanno venduto a 200 franchi al metro i terreni acquistati a 10 e li hanno venduti a costruttori improvvisati, senza esperienza. In seguito hanno dovuto anticipare il denaro e prestare somme a questi costruttori, a mano a mano che le case crescevano. Quando i costruttori non hanno più potuto far fronte alla situazione, le società si sono riprese terreni e case, cosa che ha dato loro una potenza formidabile ma che ha finito per distruggerle. Le somme spese per le costruzioni raggiungono il miliardo. Per i lavori pubblici, marciapiedi, 81 milioni (non terminati); il monumento a Vittorio Emanuele, 60 milioni (non sarà finito prima di trent'anni); le fortificazioni intorno alla città, 250 milioni; il ministero delle Finanze, 15 milioni; la Banca Nazionale, 10 milioni (si è finanziata da sola); il ministero della Guerra, 10 milioni.

Infine la crisi è scoppiata per due ragioni. In primo luogo gli abitanti che non sono arrivati. Inoltre non sono state costruite casette medie per chi volesse acquistarle e vivere! facendo un investimento. Solo gran palazzi. (È l'atavismo dell'antico palazzo che ha dovuto guastare tutto.) Le società costruivano case per venderle, ma gli appartamenti erano troppo grandi e non si è trovato capitale privato sufficiente a sostituire quello delle banche. Infine altrove, come a Parigi e Berlino, le case sono state costruite con capitali nazionali, con denaro risparmiato. A Roma si è costruito tutto a credito, con lettere di cambio a tre mesi e, soprattutto, con denaro straniero: in fondo sempre l'orgoglio nazionale, la certezza di riuscire a far le cose in grande uccisa infine dalla speculazione. I due fattori della catastrofe sono dunque stati prima l'orgoglio e poi il lucro. In fondo la spiegazione è molto umana. I soldi inghiottiti sono circa 800 milioni, che per quattro quinti sono soldi francesi. Niente denaro tedesco o inglese. Non si è proceduto a prestiti, ma semplicemente con cambiali a tre mesi. I banchieri francesi prestavano al 3,5 o al 4% ai banchieri italiani (banche: Nazionale, di Napoli, Credito mobiliare, ecc.). Queste banche prestavano a loro volta al 6,7 o 8% ai costruttori romani. Depretis,7 un Crispi stordito e Magliani, il grande ministro delle Finanze italiano. Crispi viola. All'annuncio della Triplice Alleanza, si crea un'enorme emozione in Francia, che ritira i suoi capitali. Si produce un enorme riflusso: i capitalisti francesi hanno ripreso i loro 800 milioni in due anni. Le banche, costrette a rimborsare, hanno cercato di creare obblighi emettendo obbligazioni (sic). Ma non sono riuscite a piazzarle. Allora hanno dovuto rivolgersi alle banche d'emissione, che hanno la facoltà di emettere documenti. Le società di costruzione hanno esercitato pressione sullo Stato, dicendo:
«Siamo minacciate dal fallimento, quindi dovremo bloccare le costruzioni e vi ritroverete quarantamila operai disoccupati e interi quartieri incompiuti». Lo Stato, spaventato dal minacciato fallimento di tutte le società fondiarie, ha costretto le banche di emissione a prestare somme enormi alle società di costruzione. Da qui il considerevole indebitamento delle società di costruzione verso le banche d'emissione, la banca nazionale, ecc.: debito che va dai 5 ai 600 milioni. Le società non hanno potuto rimborsare le banche alla scadenza: nessuno aveva acquistato le case e non erano venuti nemmeno gli abitanti. Da qui il crollo, lo sconvolgimento. I piccoli proprietari sono calati sui costruttori, questi sulle società fondiarie e queste ultime sulle banche. Ecco come la crisi edilizia è divenuta un crac finanziario generale e formidabile.

Anche il governo ha fatto spese folli, lungo un sentiero parallelo: un enorme budget per la guerra, 20 milioni all'anno per la marina; poi considerevoli opere pubbliche in tutte le città; fortificazioni; soprattutto ferrovie. Nuove emissioni ogni anno. E questa la crisi economica italiana. Alla base l'orgoglio, la volontà di essere una grande nazione (il sangue di Augusto). E ovunque la fretta: l'Italia ha voluto fare in un quarto di secolo il cammino percorso dalla Francia in un secolo intero.
Storia di Buoncompagni, principe di Piombino. Ricchissimo, possedeva villa Ludovisi, sopra villa Medici. Una società finanziaria, l'Immobiliare, gliela acquistò a un buon prezzo, sei milioni. Ma, preso dalla febbre della speculazione, il principe riacquistò alla compagnia i suoi antichi terreni, giocò, costruì, infine si trovò preso dall'ingranaggio appena spiegato. Oggi non ha perso solo i sei milioni, ma ha anche inghiottito la fortuna del figlio, duca di Sora. Il palazzo di villa Ludovisi è in vendita.

Le perdite del papa. Monsignor Folchi amministrava la cassa pontifìcia. Il principe di Sora, che in fondo conduceva tutto Far fare di villa Ludovisi, vedendo che in Italia era impossibile trovare soldi per le costruzioni, organizzò con Lazzaroni «le Crédit» a Parigi, in modo di mandare in Francia obbligazioni per la clientela religiosa e aristocratica, che veniva tentata con l'allusione che anche il papa fosse nell'affare. In realtà c'era, perché monsignor Folchi (con o senza papa) aveva preso dal tesoro pontificio tre milioni di rendite francesi, italiane e austriache, realizzate per dare a Sora i soldi necessari a costituire il Crédit parigino (dal capitale di cinque milioni). Il papa possedeva i capitali lasciati da Pio IX e soprattutto un gran tesoro in valori francesi e inglesi, ma le conversioni ne avevano abbassato la rendita, che dal 5 era scesa al 3 e al 4. Avarissimo, si dice, ascoltò i consiglieri e finì per mettere fondi considerevoli nelle operazioni di costruzione a Roma. Anche omnibus e mulini. Società finanziarie che dovevano rendere dal 6 al 7. Ma la grande speranza era di mettere le mani su Roma e riprendersi con la finanza la città che gli era stata strappata con la forza. Ha dunque messo in gioco tutto il tesoro: alcuni dicono che abbia perso 23 milioni, altri 37. Così è stata dissipata una parte del patrimonio di San Pietro.
E ora la storia dei Borghese. Il principe don Paolo aveva appena ereditato un'enorme fortuna, 497 mila franchi di rendita, senza contare palazzo Borghese, la pinacoteca e villa Borghese, per un ammontare dai 25 ai 30 milioni. TI principe Borghese, don Paolo, aveva per amante la marchesa Theodoli (romana). Il marchese, il marito, venne trascinato negli affari di una società di costruzioni senza grande importanza, formata dall'Immobiliare. Questa piccola società faceva costruire case per rivenderle. Quando questa cominciò ad andar male il marchese Theodoli, il marito, fece appello al principe Borghese. Quando don Paolo si rifiutò, anche la marchesa si rifiutò. In due anni, il passivo del principe salì a 36 milioni. Oggi cerca di realizzare vendendo tutto. I creditori si prenderanno dal 60 al 70% del suo patrimonio. È stato fatto un tentativo perché il papa vada in soccorso del principe Borghese. Scottato, il papa ha rifiutato."

Infine la sera c'è stato il banchetto offertomi dalla stampa. Discorsi del presidente Bonghi, del ministro Ferraris e del rappresentante del sindaco di Roma. E decisamente un popolo che dubita di se stesso, che non è sicuro di se stesso. Da qui la pressione che cerca di esercitare su di me: la paura di una donna che trema all'idea che non la si trovi bella. Siccome in questo mondo non c'è bellezza, si preoccupa di quello che si pensa di lui, vorrebbe costringervi ad ammirarlo.

Emile Zola
Tratto da Diario romano
(appunti sul viaggio a Roma dal 31 ottobre al 4 dicembre del 1894 per conoscere l'ambiente dove dovrà muoversi il protagonista di "Rome" un romanzo che fà parte di un ciclo iniziato con "Lourdes" e finito con "Paris")

 
 
 

Belli: 5 sonetti in italiano

Il bibliagoraste

Se mai, ti guardi il ciel, tu fossi attratto
Ne' piedi, o peggio, in amendue le mani,
E il tuo spendendo in archibusi e cani
Spirassi caccia in ogni voce e ogni atto,

Non merteresti tu che da' cristiani
Ti si largisse il titolo di matto?
Ebben, qual nome a te credi più adatto
Sprecando in libri, e libri oltramontani?

Senza sentor di lingua anche vulgare,
Con un cervel da disgradarne un bue,
Libro non v'è che sia per te, compare.

Cangia in quisquilie le ricchezze tue,
O fa pria qualche studio elementare
Per distinguere almen l'uno dal due.

Giuseppe Gioachino Belli
7 novembre 1843

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 21


La disgraziata sincerità a Clotilde ...

Tu comprender non puoi come la sia
Che quel felice mentitor di Piero
Se per caso talor parli sincero
Perda ogn'influsso e niun fede gli dia.

Non ti maravigliar, figliuola mia:
Ti chiarirò ben io questo mistero.
È perché il falso in bocca sua par vero,
E per contrario il ver sembra bugia.

Facil cotanto da' suoi labbri piove
La menzogna per uso e per natura,
Ch'egli stesso la crede e si commove.

Ma piena d'imbarazzo e di paura
La verità per vie sì obblique e nòve
Goffa procede e fa trista figura.

Giuseppe Gioachino Belli
7 novembre 1843

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 22


Il valente ingegnere

Quello ingegner di cui mi chiedi, o Conte,
È un ingegner del più ingegnoso ingegno.
Niiun sa meglio di lui dal marmo il legno
Scernere all'uopo, e da uan valle un monte.

Al sol guardarlo gli si legge in fronte
Come il cervel d'alti concetti ha pregno;
E se un fosso gli dai fra un regno e un regno,
Con pochi travi e' vi getta un ponte.

Tu provati a parlar di mari e fiumi:
Ti dirà quante botti han d'acqua viva,
E in qual si pesca pesce e in qual salumi.

Sui laghi poi, lì te lo dò sovrano.
Il Fùcino io lodai: Ma non arriva,
Ei rispose, a eguagliar quel di Celano.

Giuseppe Gioachino Belli
10 novembre 1843

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 23



La prosopopea de' viaggiatori

Ben vi sapete voi come in vïaggio,
Quando i compagni già sianvi amici,
Agi vi vanti ognun, senno e lignaggio:
Son tutti Carlomagni e federici.

E a me occorse un tedesco personaggio
Con in fronte due larghe cicatrici,
Che spacciarsi in vettura ebbe coraggio
Primo corriere de' ducali ufficî.

Seppi alquanto dipoi ch'egli avea posto
Di corridore in un gabbione a ruota
Per la cottura del ducale arrosto.

Del resto, a gran ragione il poverino
Per prima dignità metteasi in nota;
Chè egli fea da secondo un can mastino.

Giuseppe Gioachino Belli
7 dicembre 1844

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 24


La scelta fra le donne

Buone? Distinguo. Ve n'ha buone e belle,
E queste l'amo e riverisco tutte.
Onoro anche di cuor le buone e brutte
Ma queste le mi van meno di quelle.

Buona era ben la forosetta Rutte;
Ma s'ella avea però grinza la pelle,
Confusa fra lo stuol de le pulzelle
Saria, credo, rimasta al foreutte.

S'altre ne troviam poi belle e cattive,
Altre cattive e brutte, è una quistione
Che a risolver sarei poco proclive.

Brutte e cattive mai; ma in paragone
De e belle che sian di bontà prive
Forse preferirei le brutte e buone.

Giuseppe Gioachino Belli
8 gennaio 1845

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 25

 
 
 

Sabato 10 novembre

Post n°1682 pubblicato il 01 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Sabato 10 novembre

Mattinata a Campo dei Fiori. Una grande piazza, un parallelepipedo allungato, pavimentato con un selciato ordinario. In mezzo la statua di Bruno, bruciato su questa piazza;1 una protesta contro la Chiesa. Le case intorno hanno altezze diversissime: piccole, alte, terrazze verdi. Sono gialle con le persiane verdi. Intorno molte botteghe con appese stoffe dai colori violenti, blu, rossi, gialli. Macellai dalla carne sanguinolenta, nerastra, mal preparata, senza Paria pulita che ha a Parigi; colli che paiono strappati, che sanguinano ancora. Pizzicherie, con file di salsicciotti, ciotole di grasso, salami. Donne sedute sulle pietre intorno all'inferriata che circonda la statua di Bruno. Altre botteghe, quarti di carne nelle pizzicherie e il forte odore dei barili di carne e pesce sotto sale. Le rivendite di fritture emanano un odore violento. Oggi al centro della piazza c'era il mercato della verdura, donne sotto i grandi ombrelloni grigi, aperti. Castagne calde, castagne nei sacchi. Mele, pere, uva, pomodori rossissimi, broccoli, sedano, insalate, tutti i legumi. Pesce freschissimo. Un uomo portava file di rane. Grida acute, un gran baccano, i venditori a vantare la propria mercé. Povere donne che passano, preti, piccoli borghesi che acquistano. Donne con i bambini in braccio. Niente abiti da passeggio, tutte in gonna e casacche sporche, di colore chiaro, con uno scialletto sulle spalle, senza cappello, generalmente brune. Qualche scialle rosso che risalta fra gli altri. Carretti tirati da asinelli. erce molto varia, fiammiferi, limoni verdi, articoli di merceria, vasellame per bambini (brocche a forma d'usignolo). Peperoni verdi, peperoni gialli, melagrane (qualcuna aperta, rossissima). Trecce d'aglio. Le bilance romane, tenute dai mercanti, posano su un piede di ferro. La Cancelleria si trova all'angolo ovest (?) della piazza. Brulichio sotto il sole. Un arrotino. Pigne. Legumi rossi, simili a grosse olive.

Piazza Farnese. Le due fontane, una con il suo getto d'acqua al sole. Il palazzo ha la facciata in ombra (alle undici). E grigio e severo. Due piani, tredici finestre. Stesso stile di palazzo Sacchetti, con il superbo cornicione. Bandiera tricolore sulla porta. Una piazza senza negozi, regolare, un po' severa, deserta e triste. Si penetra da lì in un quartiere calmo e un po' deserto, nella strada che porta a via Giulia. Il palazzo occupa tutto il lato sinistro. Quindici finestre sulla facciata. La via è larga, dritta, in lieve pendio, sempre senza marciapiedi (cosa che la allarga e crea un vuoto). Sobria, fresca, all'ombra dell'immenso palazzo. Sul lato destro vecchie case senza negozi.

Via Giulia. Alle undici il sole illumina già il lato destro. Per vederla tutta illuminata dal sole, bisognerebbe venire verso le nove. Allora il selciato dev'essere bianchissimo e le case gialle sui due lati, con le ombre portate dagli spigoli sporgenti. Un monaco nel sole, il saio che si illumina. Qualche passante frettoloso. Un velocipedista. Un carretto tirato da un mulo. Un micio nero dietro l'inferriata di una finestra, in pieno sole. I cortili interni e pallidi alla luce del sole. Palazzo Ricci ha un balcone pieno di verde. A pianterreno commerci oscuri. Gli alberi chiari in fondo alla via, davanti all'ospedale. Lampioni a gas a destra e a sinistra, a una ventina di metri gli uni dagli altri.

La sensazione di tutte queste vie semivuote, scure e fresche perfino sotto il sole. Un quartiere regolare, che doveva essere il quartiere residenziale della città, P antico corso del XVI secolo, si dice. Il grande muro giallo della prigione non rallegra la via. Piccolo borghesi che passano, con le figlie. Un carro di fieno. Di fianco la chiesa di San Biagio della Pagnotta, una chiesetta vivacemente illuminata dal sole, che entra dai finestroni in alto a sinistra. Molto decorata. Mezze colonne piatte, di marmo, con i capitelli interamente dorati. Marmi, dorature, pitture ovunque. Pennacchi dipinti. Sulla volta pitture fra decorazioni dorate. Tre cappelle su ogni lato, chiuse da balaustre di marmo. Altari di marmo. Un confessore che attende. Due vecchie che pregano, una in piedi, Patirà seduta. E il vuoto. Come si chiamano le portiere mobili che chiudono le chiese? Nella via numerose sante Vergini, con il loro lumino acceso.
In riva al Tevere. Il grande edificio nuovo e bianco che si trova di fianco a palazzo Sacchetti. Un intero bucato sulle corde, piccioni. Il sole non illuminava già più la riva opposta, deve ritirarsi verso le dieci, ma ho potuto ricostruirne grosso modo l'effetto. Il Tevere giallissimo al sole. Di fronte la biancheria stesa brilla candida. Gli alberi sono di un verde intenso e dorato. Tratti di muro violentemente illuminati, altri oscurati dall'ombra. Le finestre sono buchi di nero più intenso nelle facciate illuminate. Tetti rosa. La sporcizia delle facciate si attenua, si illumina, risplende d'oro patinato. Gli spigoli dei muri che scendono fino all'acqua. Il Tevere giallissimo al sole, decisamente lento anche se lo si vede scorrere, con il lieve fremito della corrente marezzata dai raggi. Gli alberi illuminati sul Gianicolo.

Sul lato sinistro, in fondo. Trastevere, che a quest'ora si staglia grigiobluastra in una bruma leggera sullo sfondo chiaro del cielo. A sinistra la cupola dei Fiorentini. Uomini addormentati. Pescatori che ritirano la bilancia. Per il resto il fiume è vuoto, il quartiere deserto. Ampie ombre con le chiazze formate dai raggi del sole sulle piazze e nelle vie. L'ombra si staglia a angoli netti. Pochi passanti. Si paga per passare sul ponte provvisorio (?). L'abside dei Fiorentini a destra, tondo, giallo, importante, e al fianco alberi che scendono fino al Tevere. Di fronte la linea dei pioppi, davanti all'ospedale, al gomito del fiume. A sinistra un resto di verde con delle case, mentre a destra l'alzaia termina levando l'alto muro grigio. Alla volta, in fondo, si scorge la rotondità di Castel Sant'Angelo e più a sinistra le nuove case di Prati di Castello. La parte dell'alzaia non ancora terminata si stende dunque sulla riva destra, dal ponte che si trova di fronte a palazzo Falconieri fino a Castel Sant'Angelo. Il ponte a pedaggio sbuca di fronte al collegio militare (palazzo Salviati), dietro cui si trova Sant'Onofrio e al cui fianco è allestito l'orto botanico. San Pietro in Montorio è molto più lontano, di fronte a via dei Pettinari. Via della Lungara si stende dritta dall'altro ponte a porta Santo Spirito. È larga e pulita. Le case, il cui retro è tanto sporco sul Tevere, hanno la facciata pulita su via della Lungara. Lo spessore degli isolati dev'essere di circa 25 metri.
Sono tornato a via Giulia, dai Fiorentini e palazzo Farnese. Termina davanti alla chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, la cui inferriata rotonda avanza. Oltre proseguiva via delle Mole de' Fiorentini e a destra partiva via Paola, ma oggi passa il nuovo corso Vittorio Emanuele. Il quartiere è dunque sventrato. Un grande abbattimento di case. Qualcuna, tagliata in due, ha le camere all'aria aperta. Il nuovo quartiere non è finito. Tutti i vicoli e i vicoletti scendono al Tevere. L'ampio corso ha le case alte, scolpite, a cinque piani, ornate da balconi, tutte bianche. Vi si è installata un'osteria in un resto di giardino fra le macerie. Vini scelti, ma anche birreria (la Germania avanza). Luci elettriche, globi in mezzo alla via. La sera c'è un gran contrasto fra questa via tutta bianca, i vicoli vicini e la stessa via Giulia, con i suoi lampioni a gas gialli, distanziati. I vicoli vanno verso via Giulia. Io ho preso via dei Banchi Vecchi. Si arriva dritto a palazzo Sacchetti, dal Corso, prendendo vicolo del Pavone poi, dopo aver attraversato via dei Banchi Vecchi, seguendo vicolo Sugarelli che da sull'angolo del palazzo di fronte a via del Cefalo (?).

Sull'angolo di via delle Carceri si trova una chiesa (niente nome, controllare) identica a San Biagio. Tre cappelle laterali e i confessionali tra le cappelle. Poi una nuova strada per andare a via Giulia: vicolo dei Cartari, si attraversa via dei Banchi Vecchi e si prende il vicolo di fronte, vicolo del Malpasso, molto stretto. Ci si trova su un angolo: via dei Banchi Vecchi si interrompe e diventa a sinistra via del Pellegrino e a destra via di Monserrato. Da quest'ultima, andando verso via Giulia, vicolo della Morella, talmente stretto che le carrozze non ci passano, un budello nero. In via Monserrato una certa animazione, negozi di alimentari. Un vecchio palazzo sulla sinistra ospita un'osteria. Un piano suona indiavolato nel silenzio della via. Piazza de' Ricci. Palazzi. All'angolo di vicolo della Barchetta un'altra chiesa, senza dubbio Santa Maria di Monserrato. Sempre uguale, ma più grande e meno dorata. Qualche donna. È mezzogiorno e suona l'Ave Maria. Dev'essere per questo che tutte le chiese sono aperte. All'angolo di piazza della Rota un'altra chiesa (all'altezza di palazzo Falconieri). È uguale alle altre con due tribune, due logge che sostituiscono la cappella laterale centrale. Due angeli di marmo chiudono la prima cappella a destra davanti all'ingresso, tenendo un drappo di marmo colorato. Anche gli angeli hanno abiti di marmo colorati. Ricchissima. L'odore d'incenso era talmente forte che arrivava sulla piazza. Arrivando, il mio Pierre si getta su una carrozza scoperta alle sette del mattino. Il cocchiere, facendogli scendere via Nazionale, gli lancia i nomi dei monumenti. Le Terme. Poi la banca a sinistra, enorme monumento bianco, tutto nuovo.

Il Quirinale a destra, sopra un giardino verde pieno di palme ecc. Palazzo Aldobrandini, dall'aria talmente caratteristica, con il suo pino marittimo. La piazza svolta. La colonna Traiana vista dal basso sotto un raggio di sole, bianca, in fondo alla corta via Magnanapoli. La chiesa con la sua cupola bassa. Palazzo Colonna sulla destra con le tre arcate e i giardini della villa che lo sormonta. Sulla destra il Corso. Sulla sinistra palazzo Venezia, poi il Gesù e gli altri palazzi. Corso Vittorio Emanuele, ma soprattutto il sole chiaro di una bella mattinata e il freddo improvviso passando davanti a palazzo Venezia e al Gesù. La via si restringe, è quella antica, e l'ombra del passato cala sulle spalle, mentre nelle strade larghe si ride alla luce del sole. È già qui un simbolo di tutto il libro. Il raggio di sole sulle piazze, o passando davanti alle vie trasversali. Ombre nette, cielo blu intenso. Più in basso Pierre prenderà un vicolo che lo condurrà a via Giulia. Dopo corso Vittorio Emanuele penetra nella vecchia città calma e deserta. La strada si fa irregolare con i suoi palazzi barocchi. Un'altra cupola, quella di Sant'Andrea della Valle. Tutte le chiese già incontrate. Bisognerebbe che l'arrivo, Roma attraversata da una parte all'altra, gli desse già tutta Roma. Controllare sulla piantina.
Ogni nazione ha i propri seminaristi. I francesi tutti neri, gli americani tutti rossi (piccoli cardinali); bisognerà che scopra il colore degli altri.

Stasera ho rivisto il sole tramontare dietro San Pietro. Non una nube. L'aria limpida. Un cielo assolutamente chiaro. E quando il sole si trova dietro la cupola i raggi che penetrano dalle finestre e l'attraversano da una parte all'altra sono veramente accecanti. Pare che ne escano fiammate. Si direbbe che la cupola posi su un braciere, isolata, come portata dalla violenza delle fiamme.
Ciò che rende affascinante la passeggiata del Pincio è che gli alberi dal fogliame persistente restano sempre verdi. Però è monotono girare in carrozza in uno spazio tanto ristretto.

Emile Zola
Tratto da Diario romano
(appunti sul viaggio a Roma dal 31 ottobre al 4 dicembre del 1894 per conoscere l'ambiente dove dovrà muoversi il protagonista di "Rome" un romanzo che fà parte di un ciclo iniziato con "Lourdes" e finito con "Paris")

 
 
 
 
 

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