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Messaggi del 13/06/2015

Allegramente eo canto

Post n°1746 pubblicato il 13 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Allegramente eo canto

Allegramente eo canto
certo ed a gran ragione
com’amador c’ha gioia a suo volire;
ma non ch’eo già per tanto
dimostri la cagione
de la mia gioi’, ché ciò seria fallire;
ma io farò parire
ch’io sia meno gioioso
c’ha mia gioi’ non s’avene,
ch’omo senza temire
non par che sia amoroso:
ch’amor senza temire -  non si convene.

E se la mia temenza
nasce di bene amare,
ben degio più cantare innamorato.
E sì farò, ma senza
vano dismisurare, 
sì ch’a la mia donna ne serva a grato;
ch’omo dismisurato
non pò gran gioi’ aquistare
che duri lungiamente:
però è più laudato
quello che sa guardare
lo suo acquistato - amisuratamente.

Però, bella, temendo
voi laudo in mio cantare;
ché certo credo che poco seria
ciò ch’io di ben dicendo
potessevi avanzare:
vostro gran pregio v’avanza ed invia.
E io, che far poria ?
Gire per lunga parte,
laudar vostro valore;
e così cresceria
vostro pregio per arte
come lo mare per lo scorridore.

Jacopo Mostacci
Da: La poesia lirica del Duecento, a cura di Carlo Salinari, UTET, Torino 1968 - Rimatori della scuola siciliana a c. di Panvini Olschki, Firenze 1962 e 1964

 
 
 

Indice de Il Malmantile racquistato

Post n°1745 pubblicato il 13 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

Vita di Lorenzo Lippi
Avvertenza
Cantare primo 01  02  03  04
Cantare secondo 01  02  03  04
Cantare terzo 01  02  03
Cantare quarto 01  02  03
Cantare quinto 01  02  03
Cantare sesto 01  02  03
Cantare settimo 01  02  03
Cantare ottavo  01  02  03
Cantare nono  01  02
Cantare decimo  01  02
Cantare undicesimo  01  02
Cantare dodicesimo  01  02
Indice dei nomi

 
 
 

Il Malmantile racquistato 04-1

Post n°1744 pubblicato il 13 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

QUARTO CANTARE

Argomento

I guerrier di Baldon son mal disposti,
Perchè la fame in campo gli travaglia.
Il Fendesi, e Perlon lasciano i posti,
Non vedendo arrivar la vettovaglia.
Psiche non tiene i suoi pensieri ascosti
A Calagrillo, cavalier di vaglia,
Che promette aiutar la damigella,
E poscia ascolta una gentil novella.


1
Omnia vincit Amor, dice un testo;
E un altro disse, e diede più nel segno:
Fames Amorem superat; e questo
È certo, e approva ognun c'ha un po' d'ingegno;
Perchè, quantunque Amor sia sì molesto,
Che tutt'i martorelli (429) del suo regno
Dicano ognora: ahi lasso! io moro, io pèro;
E' non si trova mai che ciò sia vero.

2
Non ha che far nïente colla Fame,
Che fa da vero, purch'ella ci arrivi;
Posson gli amanti star senza le dame
I mesi e gli anni, e mantenersi vivi;
Ma se due dì del consueto strame
I poveracci mai rimangon privi,
E' basta; chè de fatto andar gli vedi
A porre il capo dove il nonno ha i piedi.

3
Talchè si vien da questi effetti in chiaro,
Che d'Amore la Fame è più potente;
Ond'è che ognun di lui più questa ha caro,
E quando alle sue ore ei non la sente,
Lamentasi, e gli pare ostico e amaro.
Perciò riceve torto dalla gente,
Mentre ciascun la cerca e la desia,
E s'ella viene, vuol mandarla via.

4
Anzi la scaccia, come un animale (430)
Sul buon del desinare e della cena:
Per questo ella talor, che l'ha per male,
Più non gli torna; ovver per maggior pena
In corpo gli entra in modo e nel canale,
Che non l'empierebb'Arno colla piena;
Come vedremo che a Perlone (431) ha fatto,
Che a questo conto (432) grida come un matto.

5
Desta l'Aurora omai dal letto scappa,
E cava fuor le pezze di bucato;
Poi batte il fuoco, e cuocer fa la pappa
Pel suo giorno bambin ch'allora è nato.
E Febo, ch'è il compar, già colla cappa
E con un bel vestito di broccato,
Che a nolo (433) egli ha pigliato dall'Ebreo,
Tutto splendente viensene al corteo.

6
Nè per ancora le Ugnanesi genti
Hanno veduto comparire in scena
La materia che dà il portante (434) a' denti,
E rende al corpo nutrimento e lena;
Perciò molti ne stanno malcontenti,
Che son usi a tener la pancia piena:
E ben si scorge a una mestizia tale,
Che la mastican tutti più che male.

7
È tra costoro un certo girellaio (435),
Che per l'asciutto (436) va su i fuscellini (437),
Male in arnese, e indosso porta un saio
Che fu sin del Romito de' Pulcini (438).
Ci è chi vuol dir ch'ei dorma in un granaio,
Perc'ha il mazzocchio (439) pien di farfallini:
È matto in somma; pur potrebbe ancora
Un dì guarirne, perchè il mal dà in fuora (440).

8
E perch'ei non avea tutt'i suoi mesi (441),
Fu il primo ad esclamare e far marina (442),
Forte gridando: oimè! ch'io vado a Scesi (443)
Pel mal che viene in bocca alla gallina (444).
Onde Eravano e don Andrea Fendesi,
Che abbruciavano insieme una fascina,
E per cibare i lor ventri di struzzoli (445)
Cercavan per le tasche de' minuzzoli,

9
Mentre di gagnolar giammai non resta
Costui ch'è senza numero ne' rulli (446),
Anzi rinforza col gridare a testa (447),
Lasciano il fuoco e i vani lor trastulli:
E per vedere il fin di questa festa,
Se ne van discorrendo grulli grulli
Del bisogno ch'essi han che 'l vitto giunga,
Perchè sentono omai sonar la lunga (448).

10
Così domandan chi sia quei ch'esclama,
E mette grida ed urli sì bestiali.
Gli è detto: questo è un tale che si chiama
Perlone, dipintor de' miei stivali;
Un uom, che al mondo acquistasi gran fama
Nel far de' ceffautti (449) pe' boccali:
E con gl'industri e dotti suoi pennelli
Suo nome eterno fa negli sgabelli (450).

11
Si trova in basso stato, anzi meschino;
Ma benchè il furbo ne maneggi pochi,
Giuocherebbe in su' pettini da lino,
Chè un'ora non può viver ch'ei non giuochi.
Ma s'ei vincesse un dì pur un quattrino,
In vero si potrebbon fare i fuochi;
Perchè, giuocando sempre giorno e notte,
Farebbe a perder colle tasche rotte.

12
Giuocossi un suo fratel già la sua parte,
Suo padre fu del giuco anch'egli amico;
Però natura qui n'incaca (451) l'arte,
Avendo ereditato il genio antico.
Costui teneva in man prima le carte,
Che legato gli fosse anche il bellico;
E pria che mamma, babbo, pappa e poppe,
Chiamò spade, baston, danari e coppe (452).

13
Ma perchè voi sappiate il personaggio
Che ciò (453) racconta, è il Franco Vicerosa (454),
Cavaliero, del qual non è il più saggio,
Scrittor sublime in verso quanto in prosa;
Dipinge, nè può farsi da vantaggio,
Generalmente in qualsivoglia cosa;
Vince nel canto i musici più rari,
E nel portare occhiali non ha pari.

14
È suo amico, ed è pur seco adesso,
Salvo Rosata (455), un uom della sua tacca;
Perocchè anch'ei si abbevera in Permesso,
E pittor, passa chiunque tele imbiacca;
Tratta d'ogni scienza ut ex professo,
E in palco fa sì ben Coviel Patacca (456),
Che, sempre ch'ei si muove o ch'ei favella,
Fa proprio sgangherarti le mascella.

15
Or perchè Franco ed egli ogni maniera
Proccuran sempre di piacere altrui,
Di Perlone dan conto, e dove egli era
Di conserva n'andâr con gli altri due;
Là dove minchionando un po' la fiera (457),
Il Franco disse lor: questo è colui
Che in zucca non ha punto (458); anzi ragionasi
D'appiccargli alla testa un appigionasi (459).

16
Spiacque il suo male ad ambi tanto tanto:
E mentre ei piange ch'e' si getta via (460),
Il pietoso Eravan pianse al suo pianto,
Verbigrazia, per fargli compagnia.
Poi tutto lieto postosegli accanto,
Per cavarlo di quella frenesia,
Di quelle strida e pianto sì dirotto,
Che fa per nulla il bietolon mal cotto (461),

17
Se forse, dice, tu sei stato offeso,
Che fai tu della spada, il mio piloto (462)?
A che tenere al fianco questo peso,
Per startene a man giunte come un boto (463)?
Se al corpo alcun dolor t'avesse preso,
Gli è qua chi vende l'olio dello Scoto:
Se t'hai bisogno d'oro, io ti fo fede
Che qualsivoglia banca te lo crede.

18
Dopo Eravano poi nessun fu muto;
Chè ognun gli volle fare il suo discorso,
Offerendo di dargli ancora aiuto,
Mentre dicesse quanto gli era occorso;
Ond'ei, che avrebbe caro esser tenuto
D'aver piuttosto col cervello scorso (464),
Alzando il viso, in loro gli occhi affisa,
E sospirando parla in questa guisa:

19
Non v'è rimedio, amici, alla mia sorte:
Il tutto è vano, giacchè la sentenza
È stabilita in ciel della mia morte,
Che vuol ch'io muoia, e muoia in mia presenza.
Già l'alma stivalata (465) in sulle porte
Omai dimostra d'esser di partenza;
E già col corpo tutt'i sentimenti
Le cirimonie fanno e i complimenti.

20
Mutar devo mestier, se avvien ch'io muoia,
Di soldato cioè nel ciabattino;
Perocchè mi convien tirar le cuoia (466),
Per gir con esse a rincalzare il pino.
Un'altra cosa ancor mi dà gran noia:
Ed è, che sotto son come un cammino;
E che innanzi a Minòs e agli altri giudici
Rappresentar mi debba co' piè sudici.

21
Ma ecco omai l'ora fatale è giunta,
Ch'io lasci il mio terrestre cordovano (467);
Già già la Morte corre, che par unta,
Verso di me colla gran falce in mano;
Spinge ella il ferro nel bel sen di punta (468),
Ond'io mancar mi sento a mano a mano;
Però lo spirto e il corpo in un fardello
Tiro fuor della vita e vo all'avello.

22
Ormai di vita son uscito, e pure
Non trovo al mio penar quiete e conforto.
O cielo, o mondo, o Giove, o creature,
Dite, se udiste mai così gran torto?
Se Morte è fin di tutte le sciagure,
Come allupar(469) mi sento, ancorchè morto?
E come, dove ognuno esce di guai,
Mi s'aguzza il mulino piucchè mai (470)?

23
Va' a dir(471) che qua si trovi pane o vino
O altro da insegnar ballare al mento:
Se non si fa la cena di Salvino (472),
Quanto a mangiare, e' non c'è assegnamento.
O ser Isac(473), o Abramo, o Iacodino,
Quando v'avete a ire al monumento,
Voi l'intendete, che nel cataletto
Con voi portate il pane ed il fiaschetto.

24
Orbè, compagni (474), olà dal cimitero,
Se 'l ciel(475) danari e sanità vi dia,
Empiete il buzzo (476) a un morto forestiero,
O insegnategli almeno un'osteria.
Sebben voi fate qui sempre di nero (477),
Perchè di carne avete carestia,
È tale l'appetito che mi scanna,
Che un diavol cotto ancor mi parrà manna.

25
Sebben non c'è da far cantare un cieco,
Di questa spada all'oste fo un presente,
Che ad ogni mo', da poi ch'ella sta meco,
Mai battè colpo o volle far nïente.
Per una zuppa (478) dolla ancor di greco.
Ma che gracch'io? qui nessun mi sente.
Che fo? se i morti son di pietà privi,
Meglio sarà ch'io torni a star tra' vivi.

26
Qui tacque, e per fuggir la via si prese,
Facendo sempre il Nanni (479) ed il corrivo;
Perch'egli è un di que' matti alla sanese,
C'han sempre mescolato del cattivo.
Per aver campo a scorrere il paese,
Ne fece poi di quelle coll'ulivo (480),
Mostrando ognor più dar nelle girelle;
E tutto fece per salvar la pelle.

27
Perch'uno, che il soldato a far s'è messo,
Mentre dal campo fugge e si travia,
Sendo trovato, vien senza processo
Caldo caldo mandato in Piccardia.
Però s'ei parte, non vuol far lo stesso,
Ma che lo scusi e salvi la pazzia;
Onde minchion minchion, facendo il matto,
Se ne scantona che non par suo fatto.

Note:
(429) MARTORELLO. Dimin. di martire.
(430) ANZI ecc. Anzi come bestia ch'egIi è, la scaccia.
(431) PERLONE è l'autore.
(432) A QUESTO CONTO. Per questa cagione.
(433) A NOLO, perchè la sera Febo se ne spoglia ed è costretto di renderlo.
(434) PORTANTE è un certo andare dei cavalli. Qui, moto.
(435) GIRELLAIO. Stravagante, a cui gira molto il cervello.
(436) ASCIUTTO. Magrezza.
(437) FUSCELLINI. Sottilissime gambe.
(438) ROMITO DE' PULCINI. Un romito così detto dai molti pulcini che allevava. Essendo egli morto da un pezzo, quel saio che gli era appartenuto, doveva essere assai logoro.
(439) MAZZOCCHIO. Parte del cappuccio; qui, capo. Il senso ascoso di questi due versi è spiegato dal seguente emistichio.
(440) DÀ 'N FUORA Viene alla cute; si fa
(441) I SUOI MESI. Le sue lune, i suoi venerdì: frasi usate per dire che uno ha poco giudizio. con pazzie di nuovo genere.
(442) FAR MARINA. Brontolare, strepitare.
(443) SCESI. Assisi (Scendere, morire).
(444) MAL DELLA GALLINA. Pipita (appitito, appetito).
(445) STRUZZOLI. È nota la voracità i questi animali.
(446) RULLI. Nel giuoco dei rulli, ciascun rullo o rocchetto ha un numero, eccetto uno, che dicesi il Matto.
(447) A TESTA Con quanto n'ha in gola.
(448) LA LUNGA È un certo suono prolungato di campana. Qui forse si vuol fare il bisticcio con  l'altro modo: Far allungare il collo, che dicesi di chi ci fa aspettare per andare a pranzo all'ora stabilita.
(449) CEFFAUTTI, Brutti ceffi.
(450) SGABELLI. Di pittore dappoco sogliamo dire: Pittore da boccali, Pittore da sgabelli.
(451) INCACA. Disgrada, ha in tasca.
(452) SPADE, BASTON ecc. Semi di carte da, giuoco, corrispondenti a Fiori, Picche, Cuori, e Quadri.
(453) CIÒ. Queste notizie intorno a Perlone.
(454) FRANCO VICEROSA. Francesco Rovai ebbe veramente le virtù che qui gli si danno.
(455) SALVO ROSATA. Salvator Rosa, amicissimo del Lippi, è pittore e poeta più celebre del Rovai.
(456) COVIEL PATACCA. Con questo nome il Rosa recitava da Napoletano.
(457) MINCHIONAN LA FIERA o la Mattea,vale semplicemente minchionare, canzonare.
(458) PUNTO di sale.
(459) L'APPIGIONASI, come a casa vuota di abitatori.
(460) SI GETTA VIA. Si dispera.
(461) BIETOLON MAL COTTO. Uomo Sciocco.
(462) PILOTO. Poltrone.
(463) BOTO. Voti. Immaginette che si mettono intorno ad altre immagini di Santi e Madonne, per grazie ricevute.
(464) AVER SCORSO ecc. Aver data la volta al cervello.
(465) STIVALATA. In procinto, pronta alla partenza.
(466) TIRAR LE CUOIA ecc. Morire, ed esser sotterrato sotto a un pino; per un albero qualunque.
(467) CORDOVANO è una sorta di pelle.
(468) SPINGE ecc. Questo e il primo verso della Stanza sono del Tasso, là dove ci descrive la pietosa morte di Clorinda.
(469) ALLUPARE. Avere una fame da lupi.
(470) MI S'AGUZZA ecc. Mi cresce la fame, quasi mi si aguzzassero le macini del cibo, i denti.
(471) VA' A DIR. Ben s'inganna chi crede che ecc.
(472) SALVINO andava a letto senza cenare.
(473) OH SER ISAC ecc. Era opinione volgare che gli Ebrei nel seppellire ì morti mettesser loro accanto del cibo.
(474) COMPAGNI. Parla a' morti.
(475) SE IL CIEL. Così il ciel vi dia ecc.
(476) BUZZO. Ventre.
(477) FAR DI NERO. Mangiar di magro.
(478) ZUPPA o suppa. Pane intriso nel vino.
(479) IL NANNI ecc. Il buffone e il semplice, il goffo.
(480) CON L' ULIVO. Pazzie solenni. Rami d'ulivo si portano nelle grandi solennità.

Lorenzo Lippi
Da: "Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

(segue)

 
 
 

La lista dei desideri

Post n°1743 pubblicato il 13 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Bando all'egoismo, i nostri pensieri, i nostri desideri devono sempre tener conto degli altri ed essere a loro rivolti!

 
 
 

Anton Maria Salvini

Post n°1742 pubblicato il 13 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Anton Maria Salvini

Nacque in Firenze l'anno 1654 il dì 12 di Gennaio dopo una lunga sterilità di sua madre; sino da' primi anni prese grande affetto alla lingua Greca, e coll' indirizzo di Benedetto Averani suo condiscepolo si profondò assaissimo in questo studio. Pope, soleva dire, che due persone al Mondo solamente sapessero la lingua Greca, Salvini in Firenze, ed egli in Londra. D'anni 16 passò all' Università di Pisa, dove ebbe per maestri il celebre legale Bartolomeo Cheti, e l'insigne Vincenzo Viviani. All' età di anni 19 ricevè la laurea Dottorale in ambedue le leggi nell' anno 1672.
Tornato in Firenze, suo Padre volle forzarlo allo studio legale, ma poiché la sua forte inclinazione altrove il portava si afflisse talmente, che ridotto in pessimo stato di salute cadde in una specie di demenza, e di furore. Rivenne ben presto da questa sua malattia, ed il Padre lasciollo in braccio ai suoi studj. Nell' età di soli anni 23 fu dal Gran Duca Cosimo III eletto alla lettura delle lettere Greche per morte del celebre Carlo Dati.
Molto scrisse nelle due Accademie Fiorentina, e della Crusca; in quella fu Consolo, e in questa Arciconsolo. Nel 1693 passata all' altra vita la gran Duchessa Vittoria della Rovere, ei ne ordinò un' Accademia in sua lode, e vi fece egli stesso l'Orazione funebre.
Fralle sue Traduzioni stampate si conta quella di Omero dedicatala Giorgio I. Re d' Inghilterra. Fu caro a molti altri Principi, e specialmente alla Corte di Toscana. Fu adoperato da questa in occorrenza di pubbliche funzioni, essendo egli singolare in comporre Epitaffi, o elogi. Mori ai 16 di Maggio del 1729, in età d'anni 75.

Opere del medesimo.
Orazioni, e discorsi Accademici recitati nell' Accademia degli Apatisti. Tom. 3.
Orazioni, e Prose Toscane, recitate nell' Accademia della
Crusca. Tom. 2.
Orazioni Sacre Italiane. Tom. 1.
Sonetti Italiani. Tom. 1.
Vocabolario della Crusca corretto, e ristampato.
Note al Marmantile di Lorenzo Lippi.
Note al Commento del Boccaccio sopra Dante.
Note sopra il libro di Lud. A. Muratori della Perfetta Poesia
Italiana, &c. &c. &C.

Traduzioni.
Omero, Teocrito, Appiano con Note, Anacreonte, Epitteto,
Ciclope d'Euripide, Senofonte Efesio.
Laerzio in parte: Persio, Esiodo, Proclo, Orfeo, &C.

Tratto da: Il Fiore della Poesia Italiana del Secolo XVIII. preceduto da alcune notizie storiche de' Poeti che lo compongono. Il tutto scelto e compilato da G.B. Cassano, Professore di Lingue, e Letteratura Italiana. Tomo II. Londra: Presso l'Autore, no. 51, Albermarle Street, Piccadilly. MDCCCII

 
 
 

Giulio Camillo

IX
Di M. Giulio Camillo

1
La fosca notte già con l’ali tese
L’aere abbracciava e ’l mio partire amaro,
Quando de la mia LIDIA il viso chiaro
Levato al ciel tutte le stelle accese.

Parea dicesse loro: "O luci apprese,
Imparate arder da splendor più raro,
Che i dei la terra d’altro lume ornaro
Mentre la mia beltà qua giù discese".

Poi volta a me con folgori cocenti,
Senza temprar de la lor gran virtute
Con lagrima pietosa pur un poco:

"Vattene", disse, "in pace"; e mille ardenti
Fiamme mi mandò al cor, mille ferute.
Dunque andrò in pace così sangue e foco ?

2

Fermi Giove nel cielo i patti nostri
E la santa onestà gli accolga in seno,
E d’intorno di fiori un nembo pieno
Piova scherzando ed erba in lui non mostri,

Gemma onorata, d’onorati inchiostri
Degna, e di lingua che potesse a pieno
Pregar candida conca e ’l ciel sereno
E la rugiada pura agli onor vostri,

O bella de le belle Margherite,
Di cui ricca è di Senna or l’alta riva,
Eterno e chiaro onor d’ambi duo noi:

Ch’ambe spero le nostre fragil vite
Vivran sempre, se morte non mi priva
Tosto di me, o voi stessa di voi.

3

Lucida perla in quella conca nata
Dove già la gran madre Citerea
Co’ pargoletti Amor premer solea
Il mar tranquillo a la stagion più grata;

Mentre il celeste umor, l’acqua beata
Con le man sante insieme raccogliea,
Il più caro figliuol dentro mettea
E pregio e luce da me tanto amata.

Ridea l’aere d’intorno, e ’l ciel diè segno
Dal manco lato con un tuon soave
Di tanto bene, acciò sentisse il mondo.

Perla da ornar ogni corona e regno,
Perché ’l mio stil per voi non è più grave?
E perché non ho ingegno più profondo?

4

Né mai voce sì dolce o sì gentile
Venne da canto d’amorosi augelli,
Mentre ne’ cari e piccioli arbuscelli
Salutano il fiorito e verde aprile;

Né sì soave suon o sì sottile
Fece mai ninfa in lucidi ruscelli,
Qualor sen van più graziosi e belli
Bagnando l’erba in valle ombrosa e umile,

Come quel de la semplice Angeletta,
Quando ne le mie braccia i versi legge
Che ci faranno ancor forse immortali.

Né posso far allora altra vendetta,
Che ’l casto Amor ogni mio ardir corregge,
Né chiede altro conforto a’ miei gran mali.

5

Occeano, gran padre de le cose,
Regno maggior de i salsi umidi dei,
Che da i vicin superbi Pirenei
Or veggio pien di cure aspre e noiose,

L’onde tue non fur mai sì tempestose,
Né al numero de’ tristi pensier miei
Crescer potrian, qualor più i venti rei
T’arman contra le sponde alte e spumose.

Pur se ’l liquido tuo favilla serba
Di pietade amorosa, apri le strade
Ne i larghi campi tuoi a’ miei sospiri;

Che qual solea sfogar la pena acerba
Per le dolci adriatiche contrade,
Vorrei per te quetar i miei martiri.

6

Padre, che turbi il cielo e rassereni
Com’a te piace, il torbido che mostri
Sparger sopra i real gallici chiostri
Sgombri quella pietà che teco tieni.

I gran spazii del ciel del tutto pieni
Son di grandine accolta a’ danni nostri,
E l’aquile han temprato i duri rostri
Per tingerli nel cor de’ nostri seni.

Crudei, rapaci ed affamati augelli,
Lungi sia dal bel regno il vostro volo
E in Africa deserta i vostri onori.

Angeli forti in ben forniti ostelli,
Che la Francia guardate a stuolo a stuolo,
A voi crescan le palme, a voi gli allori.

7

Rugiadose dolcezze in matutini
Celesti umor, che i boschi inargentate,
Dolci canne da noi tanto pregiate,
E voi doni de l’api alti e divini,

Or, tra gli oscuri e i lucidi confini
De la notte e del dì (cose beate),
In due labra dolcissime rosate
Gustato ho i vostri alberghi pellegrini.

Deh chi mi ruppe il sonno al gran bisogno,
E da le braccia mie, da i nuovi ardori
Trasse il mio bene e fece il dolce vano?

Il sogno mio, diva LUCREZIA, il sogno,
Ne’ suoi più dolci e graziosi errori,
Vi fa pietosa, e ’l ver fors’è lontano.

8

Re de gli altri superbo altero Augello
E tu, Nunzio del giorno, poi che ’l cielo
Levato v’ha da gli occhi il fosco velo,
Che tanto piacque al serpe empio e rubello,

Temprate i duri rostri, e questo e quello,
Quasi fragroso folgorante telo
Spinto da un puro ed onorato zelo,
Gli franga il dorso suo squamoso e fello;

Ch’or mel par riveder nel lito moro
Vibrar la lingua ed arrotar i denti,
Per darci d’ogni error debite salme.

Sì vedrem poi statue d’argento e d’oro
Drizzarvi a l’aura, e con leggiadri accenti
Cantar le glorie altiere, invitte ed alme.

9

Ossa di maraviglia e d’onor piene,
Che sosteneste già carne e figura
Del maggior cavalier che mai natura
Fe’ contra Spagna e l’africane arene,

Anzi il gran dì de i premi e de le pene
Uscite ignude de la tomba oscura
Sol per opporvi a quelle di misura
Che ’l più nobile spirto in vita tiene.

Il gran Re, che ’l francesco almo paese
Regge benigno, e ’l nome da lui prende,
Dal sommo è par a voi fino a le piante;

Ma se ’l valor, se l’animo cortese
Di duo principi invitti ancor contende,
Men chiaro fia il buon sir vostro d’Anglante.

10

Fiamme ardenti di Dio, Angeli santi,
Che la guardia di Francia in sorte avete
E con gli alati spirti uniti sete
Ch’al gran Re portan la corona avanti,

Gli invisibili vostri aiuti tanti
Han teso la sottile ed ampia rete
Onde presa al trionfo omai traete
La Fortuna di CARLO e i suoi gran vanti.

Nimica di virtù, cieca sfacciata,
Quanti languon per te, quanti son morti?
Quante impudiche e ’n dolorosi lutti?

Te dea diremo a CARLO maritata
Cagion di tante ingiurie e tanti torti,
Te gridan dietro gli elementi tutti.

Giulio Camillo (Delminio)
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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