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Messaggi del 12/06/2015

Canzoniere petrarchesco 11

Post n°1740 pubblicato il 12 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

71

Perché la vita è breve,
et l'ingegno paventa a l'alta impresa,
né di lui né di lei molto mi fido;
ma spero che sia intesa
là dov'io bramo, et là dove esser deve,
la doglia mia la qual tacendo i' grido.
Occhi leggiadri dove Amor fa nido,
a voi rivolgo il mio debile stile,
pigro da sé, ma 'l gran piacer lo sprona;
et chi di voi ragiona
tien dal soggetto un habito gentile,
che con l'ale amorose
levando il parte d'ogni pensier vile.
Con queste alzato vengo a dir or cose
ch'ò portate nel cor gran tempo ascose.

Non perch'io non m'aveggia
quanto mia laude è 'ngiurïosa a voi:
ma contrastar non posso al gran desio,
lo quale è 'n me da poi
ch'i' vidi quel che pensier non pareggia,
non che l'avagli altrui parlar o mio.
Principio del mio dolce stato rio,
altri che voi so ben che non m'intende.
Quando agli ardenti rai neve divegno,
vostro gentile sdegno
forse ch'allor mia indignitate offende.
Oh, se questa temenza
non temprasse l'arsura che m'incende,
beato venir men! ché 'n lor presenza
m'è più caro il morir che 'l viver senza.

Dunque ch'i' non mi sfaccia,
sí frale obgetto a sí possente foco,
non è proprio valor che me ne scampi;
ma la paura un poco,
che 'l sangue vago per le vene agghiaccia,
risalda 'l cor, perché piú tempo avampi.
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi,
o testimon' de la mia grave vita,
quante volte m'udiste chiamar morte!
Ahi dolorosa sorte
lo star mi strugge, e 'l fuggir non m'aita.
Ma se maggior paura
non m'affrenasse, via corta et spedita
trarrebbe a fin questa apra pena et dura;
et la colpa è di tal che non à cura.

Dolor perché mi meni
fuor di camin a dir quel ch'i' non voglio?
Sostien ch'io vada ove 'l piacer mi spigne.
Già di voi non mi doglio,
occhi sopra 'l mortal corso sereni,
né di lui ch'a tal nodo mi distrigne.
Vedete ben quanti color' depigne
Amor sovente in mezzo del mio volto,
et potrete pensar qual dentro fammi,
là 've dí et notte stammi
adosso, col poder ch'a in voi raccolto,
luci beate et liete
se non che 'l veder voi stesse v'è tolto;
ma quante volte a me vi rivolgete,
conoscete in altrui quel che voi siete.

S'a voi fosse sí nota
la divina incredibile bellezza
di ch'io ragiono, come a chi la mira,
misurata allegrezza
non avria 'l cor: però forse è remota
dal vigor natural che v'apre et gira.
Felice l'alma che per voi sospira,
lumi del ciel, per li quali io ringratio
la vita che per altro non m'è a grado!
Oimè, perché sí rado
mi date quel dond'io mai non son satio?
Perché non piú sovente
mirate qual Amor di me fa stracio?
E perché mi spogliate immantanente
del ben ch'ad ora ad or l'anima sente?

Dico ch'ad ora ad ora,
vostra mercede, i' sento in mezzo l'alma
una dolcezza inusitata et nova,
la qual ogni altra salma
di noiosi pensier' disgombra allora,
sí che di mille un sol vi si ritrova:
quel tanto a me, non piú, del viver giova.
Et se questo mio ben durasse alquanto,
nullo stato aguagliarse al mio porrebbe;
ma forse altrui farrebbe
invido, et me superbo l'onor tanto:
però, lasso, convensi
che l'extremo del riso assaglia il pianto,
e 'nterrompendo quelli spirti accensi
a me ritorni, et di me stesso pensi.

L'amoroso pensero
ch'alberga dentro, in voi mi si discopre
tal che mi trâ del cor ogni altra gioia;
onde parole et opre
escon di me sí fatte allor ch'i' spero
farmi immortal, perché la carne moia.
Fugge al vostro apparire angoscia et noia,
et nel vostro partir tornano insieme.
Ma perché la memoria innamorata
chiude lor poi l'entrata,
di là non vanno da le parti extreme;
onde s'alcun bel frutto
nasce di me, da voi vien prima il seme:
io per me son quasi un terreno asciutto,
cólto da voi, e 'l pregio è vostro in tutto.

Canzon, tu non m'acqueti, anzi m'infiammi
a dir di quel ch'a me stesso m'invola:
però sia certa de non esser sola.


72

Gentil mia donna, i' veggio
nel mover de' vostr'occhi un dolce lume
che mi mostra la via ch'al ciel conduce;
et per lungo costume,
dentro là dove sol con Amor seggio,
quasi visibilmente il cor traluce.
Questa è la vista ch'a ben far m'induce,
et che mi scorge al glorïoso fine;
questa sola dal vulgo m'allontana:
né già mai lingua humana
contar poria quel che le due divine
luci sentir mi fanno,
e quando 'l verno sparge le pruine,
et quando poi ringiovenisce l'anno
qual era al tempo del mio primo affanno.

Io penso: se là suso,
onde 'l motor eterno de le stelle
degnò mostrar del suo lavoro in terra,
son l'altr'opre sí belle,
aprasi la pregione, ov'io son chiuso,
et che 'l camino a tal vita mi serra.
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra,
ringratiando Natura e 'l dí ch'io nacqui
che reservato m'ànno a tanto bene,
et lei ch'a tanta spene
alzò il mio cor: ché 'nsin allor io giacqui
a me noioso et grave,
da quel dí inanzi a me medesmo piacqui,
empiendo d'un pensier alto et soave
quel core ond'ànno i begli occhi la chiave.

Né mai stato gioioso
Amor o la volubile Fortuna
dieder a chi piú fur nel mondo amici,
ch'i' nol cangiassi ad una
rivolta d'occhi, ond'ogni mio riposo
vien come ogni arbor vien da sue radici.
Vaghe faville, angeliche, beatrici
de la mia vita, ove 'l piacer s'accende
che dolcemente mi consuma et strugge:
come sparisce et fugge
ogni altro lume dove'l vostro splende,
cosí de lo mio core,
quando tanta dolcezza in lui discende,
ogni altra cosa, ogni penser va fore,
et solo ivi con voi rimanse Amore.

Quanta dolcezza unquancho
fu in cor d'aventurosi amanti, accolta
tutta in un loco, a quel ch'i' sento è nulla,
quando voi alcuna volta
soavemente tra 'l bel nero e 'l biancho
volgete il lume in cui Amor si trastulla;
et credo da le fasce et da la culla
al mio imperfecto, a la Fortuna adversa
questo rimedio provedesse il cielo.
Torto mi face il velo
et la man che sí spesso s'atraversa
fra 'l mio sommo dilecto
et gli occhi, onde dí et notte si rinversa
il gran desio per isfogare il petto,
che forma tien dal varïato aspetto.

Perch'io veggio, et mi spiace,
che natural mia dote a me non vale
né mi fa degno d'un sí caro sguardo,
sforzomi d'esser tale
qual a l'alta speranza si conface,
et al foco gentil ond'io tutt'ardo.
S'al ben veloce, et al contrario tardo,
dispregiator di quanto 'l mondo brama
per solicito studio posso farme,
porrebbe forse aitarme
nel benigno iudicio una tal fama:
Certo il fin de' miei pianti,
che non altronde il cor doglioso chiama,
vèn da' begli occhi alfin dolce tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.

Canzon, l'una sorella è poco inanzi,
et l'altra sento in quel medesmo albergo
apparechiarsi; ond'io piú carta vergo.


73

Poi che per mio destino
a dir mi sforza quell'accesa voglia
che m'à sforzato a sospirar mai sempre,
Amor, ch'a ciò m'invoglia,
sia la mia scorta, e 'nsignimi 'l camino,
et col desio le mie rime contempre:
ma non in guisa che lo cor si stempre
di soverchia dolcezza, com'io temo,
per quel ch'i' sento ov'occhio altrui non giugne;
ché 'l dir m'infiamma et pugne,
né per mi' 'ngegno, ond'io pavento et tremo,
sí come talor sòle,
trovo 'l gran foco de la mente scemo,
anzi mi struggo al suon de le parole,
pur com'io fusse un huom di ghiaccio al sole.

Nel cominciar credia
trovar parlando al mio ardente desire
qualche breve riposo et qualche triegua.
Questa speranza ardire
mi porse a ragionar quel ch'i'sentia:
or m'abbandona al tempo, et si dilegua.
Ma pur conven che l'alta impresa segua
continüando l'amorose note,
sí possente è 'l voler che mi trasporta;
et la ragione è morta,
che tenea 'l freno, et contrastar nol pote.
Mostrimi almen ch'io dica
Amor in guisa che, se mai percote
gli orecchi de la dolce mia nemica,
non mia, ma di pietà la faccia amica.

Dico: se 'n quella etate
ch'al vero honor fur gli animi sí accesi,
l'industria d'alquanti huomini s'avolse
per diversi paesi,
poggi et onde passando, et l'onorate
cose cercando, e 'l più bel fior ne colse,
poi che Dio et Natura et Amor volse
locar compitamente ogni virtute
in quei be' lumi, ond'io gioioso vivo,
questo et quell'altro rivo
non conven ch'i' trapasse, et terra mute.
A llor sempre ricorro
come a fontana d'ogni mia salute,
et quando a morte disïando corro,
sol di lor vista al mio stato soccorro.

Come a forza di vènti
stanco nocchier di notte alza la testa
a' duo lumi ch'a sempre il nostro polo,
cosí ne la tempesta
ch'i' sostengo d'Amor, gli occhi lucenti
sono il mio segno e 'l mio conforto solo.
Lasso, ma troppo è piú quel ch'io ne 'nvolo
or quinci or quindi, come Amor m'informa,
che quel che vèn da gratïoso dono;
et quel poco ch'i' sono
mi fa di lor una perpetua norma.
Poi ch'io li vidi in prima,
senza lor a ben far non mossi un'orma:
cosí gli ò di me posti in su la cima,
che 'l mio valor per sé falso s'estima.

I' non poria già mai
imaginar, nonché narrar gli effecti,
che nel mio cor gli occhi soavi fanno:
tutti gli altri diletti
di questa vita ò per minori assai,
et tutte altre bellezze indietro vanno.
Pace tranquilla senza alcuno affanno:
simile a quella ch'è nel ciel eterna,
move da lor inamorato riso.
Cosí vedess'io fiso
come Amor dolcemente gli governa,
sol un giorno da presso
senza volger già mai rota superna,
né pensasse d'altrui né di me stesso,
e 'l batter gli occhi miei non fosse spesso.

Lasso, che disïando
vo quel ch'esser non puote in alcun modo,
et vivo del desir fuor di speranza:
solamente quel nodo
ch'Amor cerconda a la mia lingua quando
l'umana vista il troppo lume avanza,
fosse disciolto, i' prenderei baldanza
di dir parole in quel punto sí nove
che farian lagrimar chi le 'ntendesse;
ma le ferite impresse
volgon per forza il cor piagato altrove,
ond'io divento smorto,
e 'l sangue si nasconde, i' non so dove,
né rimango qual era; et sonmi accorto
che questo è 'l colpo di che Amor m'à morto.

Canzone, i' sento già stancar la penna
del lungo et del dolce ragionar co llei,
ma non di parlar meco i pensier' mei.

Francesco Petrarca

 
 
 

Marco Cavallo

VIII
Di M. Marco Cavallo

1

Non voler, Signor mio, più d’una stella
Che in oriente folgorando intorno
Al sol precorra e faccia il ciel più adorno,
Che la eterna tua patria è troppo bella.

Lascia a noi questa luce, tienti quella,
Che fa sì vago l’alto tuo soggiorno,
Che se là su la chiami farà scorno
Co’ suoi bei raggi al sole e sua sorella.

Ch’essendo qui fra noi veggio smarrita
Spesso la luce lor: pensa che fia
S’avvien che poi si trovi in ciel gradita.

E chi sarà che lieto al mondo stia,
Essendo priva questa mortal vita
D’onestà, di valor, di leggiadria ?

2

Sì come l’amorosa e vaga stella,
Ch’a l’alba inanzi sempre apparir suole,
Con suoi folgenti rai fa scorta al sole
Fugando l’ombre in questa parte e in quella,

Poi nel partir non men gradita e bella
Lascia l’alme contrade oscure e sole,
E la notte ne porta, onde si dole
Il mondo e gli animai privati d’ella,

Tal la mia donna, che da quella luce
Prese il bel nome e i bei celesti rai,
Col suo venir di notte il dì m’adduce;

Ed or nel dipartir tenebre e guai
A Roma lascia, a me sì oscura luce,
Ch’io non vedrò più sol né giorno mai.

3

Altero, sacro e ben gradito fiume,
Che a le fiamme del ciel già fusti eguale,
In te cadendo spense il suo fatale
Foco Fetonte, e al fin restò tuo nume:

Come perduto hai l’antico costume
D’estinguer l’alte fiamme? Or foss’io tale
Ch’in me spengessi l’alto ardor mortale
Acceso pur d’un bel celeste lume.

Ma veggio or ben che per girar del cielo
E per lunga stagione insino l’acque
Si mutan di natura e cangian stato;

Ardon quest’onde il verno in mezzo il gielo,
Poi che sul lito tuo tal luce nacque
Che sol adombra, e ’l gran Po n’è beato.

4

Chiara donna, che i chiari ardenti rai
Spargendo intorno illustri il bel paese
In cui prima dal ciel per voi discese
La beltà ch’ogni bel vince d’assai,

Duolmi che pria tant’alto non mirai
E che la cieca mente non comprese
Lo splendor che dal ciel in voi s’accese,
Che d’altra fiamma i’ non ardea giamai.

Benché in ciò non io no, ma la natura
Errò, che nascer femmi in parte donde
Sol potea udir di voi la fama e ’l grido;

La qual con voce chiara oltre misura
Di voi cantando per l’estreme sponde
Del mar già batte l’ale in ogni lido.

Marco Cavallo
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Vita Nova 25-30

Post n°1738 pubblicato il 12 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

XXV

Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle onne dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò che io dico d'Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente ma sì come fosse sustanzia corporale: la quale cosa, secondo la veritate, è falsa; ché Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora sì come se fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui. Dico che lo vidi venire; onde, con ciò sia cosa che venire dica moto locale, e localmente mobile per sé, secondo lo Filosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che ridea, e anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie de l'uomo, e spezialmente essere risibile; e però appare ch'io ponga lui essere uomo. A cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi, dico (avvegna forse che tra altra gente addivenisse e addivegna ancora, sì come in Grecia), non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero d'anni passati, che appariro prima questi poete volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo tempo, è che, se volemo cercare in lingua d'oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rìmano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore. Onde, con ciò sia cosa che a li poete sia conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per rima non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è che a loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a li altri parlatori volgari; onde, se alcuna figura o colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li rimatori. Dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose inanimate sì come se avessero senso e ragione, e fàttele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie ed uomini; degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione, la quale poi sia possibile d'aprire per prosa. Che li poete abbiano così parlato come detto è, appare per Virgilio; lo quale dice che Juno, cioè una dea nemica de li Troiani, parlòe ad Eolo, segnore de li venti, quivi nel primo de lo Eneida: Eole, namque tibi, e che questo segnore le rispuose, quivi: Tuus, o regina, quid optes explorare labor; mihi jussa capessere fas est. Per questo medesimo poeta parla la cosa che non è animata a le cose animate, nel terzo de lo Eneida, quivi: Dardanide duri. Per Lucano parla la cosa animata a la cosa inanimata, quivi: Multum, Roma, tamen, debes civilibus, armis. Per Orazio parla l'uomo a la sua scienzia medesima, sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d'Orazio, ma dìcele quasi recitando lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poètria: Dic mihi, Musa, virum. Per Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, ne lo principio de lo libro c'ha nome Libro di Remedio d'Amore, quivi: Bella mihi, video, bella parantur, ait. E per questo puote essere manifesto a chi dubita in alcuna parte di questo mio libello. E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rìmano dèono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rìmano stoltamente.

XXVI

Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d'alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d'umilitade s'andava, nulla gloria mostrando di ciò ch'ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare!». Io dico ch'ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridìcere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilmente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mòstrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi non la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: «Sospira!»

Questo sonetto è sì piano ad intendere, per quello che narrato è dinanzi, che non abbisogna d'alcuna divisione; e però lassando lui, [XXVII] dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. Ond'io, veggendo ciò e volendo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole ne le quali ciò fosse significato: e dissi allora questo altro sonetto, che comincia: Vede perfettamente ogne salute, lo quale narra di lei come la sua vertude adoperava ne l'altre, sì come appare ne la sua divisione.

Vede perfettamente ogne salute
chi la mia donna tra le donne vede;
quelle che vanno con lei son tenute
di bella grazia a Dio render merzede.
E sua bieltate è di tanta vertute,
che nulla invidia a l'altre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza d'amore e di fede.
La vista sua fa ogne cosa umile;
e non fa sola sé parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore.
Ed è ne li atti suoi tanto gentile,
che nessun la si può recare a mente,
che non sospiri in dolcezza d'amore.

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima dico tra che gente questa donna più mirabile parea; ne la seconda dico sì come era graziosa la sua compagnia; ne la terza dico di quelle cose che vertuosamente operava in altrui. La seconda parte comincia quivi: quelle che vanno; la terza quivi: E sua bieltate. Questa ultima parte si divide in tre: ne la prima dico quello che operava ne le donne, cio è per loro medesime; ne la seconda dico quello che operava in loro per altrui; ne la terza dico come non solamente ne le donne, ma in tutte le persone, e non solamente ne la sua presenzia, ma ricordandosi di lei, mirabilmente operava. La seconda comincia quivi: La vista sua; e la terza quivi: Ed è ne li atti.

XXVII

[XXVIII] Appresso ciò, cominciai a pensare uno giorno sopra quello che detto avea de la mia donna, cio è in questi due sonetti precedenti; e veggendo nel mio pensero che io non avea detto di quello che al presente tempo adoperava in me, pareami defettivamente avere parlato. E però propuosi di dire parole ne le quali io dicesse come me parea essere disposto a la sua operazione, e come operava in me la sua vertude; e non credendo potere ciò narrare in brevitade di sonetto, cominciai allora una canzone, la quale comincia: Sì lungiamente.

Sì lungiamente m'ha tenuto Amore
e costumato a la sua segnoria,
che sì com'elli m'era forte in pria,
così mi sta soave ora nel core.
Però quando mi tolle sì 'l valore
che li spiriti par che fuggan via,
allor sente la frale anima mia
tanta dolcezza, che 'l viso ne smore,
poi prende Amore in me tanta vertute,
che fa li miei sospiri gir parlando,
ed escon for chiamando
la donna mia, per darmi più salute.
Questo m'avene ovunque ella mi vede,
e sì è cosa umìl, che nol si crede.

XXVIII

[XXIX] Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium. Io era nel proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n'avea questa soprascritta stanzia, quando lo signore de la giustizia chiamòe questa gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata. E avvegna che forse piacerebbe a presente trattare alquanto de la sua partita da noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni: la prima è che ciò non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello; la seconda si è che, posto che fosse del presente proposito, ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare, come si converrebbe, di ciò; la terza si è che, posto che fosse l'uno e l'altro, non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae: e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore. Tuttavia, però che molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non sanza ragione, e ne la sua partita cotale numero pare che avesse molto luogo, convènesi di dire quindi alcuna cosa, acciò che pare al proposito convenirsi. Onde prima dicerò come ebbe luogo ne la sua partita, e poi n'assegnerò alcuna ragione, per che questo numero fue a lei cotanto amico.

XXIX

[XXX] Io dico che, secondo l'usanza d'Arabia, l'anima sua nobilissima si partìo ne la prima ora del nono giorno del mese; e secondo l'usanza di Siria, ella si partìo nel nono mese de l'anno, però che lo primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre; e secondo l'usanza nostra, ella si partìo in quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in cui lo perfetto numero nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue de li cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e secondo comune opinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme, questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s'aveano insieme. Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per sè medesimo del nove, e lo fattore per sè medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch'ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade. Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch'io ne veggio, e che più mi piace.

XXX

[XXXI] Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade; onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a li prìncipi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo sedet sola civitas. E questo dico, acciò che altri non si maravigli perché io l'abbia allegato di sopra, quasi come entrata de la nuova materia che appresso vene. E se alcuno volesse me riprendere di ciò, ch'io non scrivo qui le parole che sèguitano a quelle allegate, escùsomene, però che lo intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare: onde, con ciò sia cosa che le parole che sèguitano a quelle che sono allegate siano tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se le scrivessi. E simile intenzione so ch'ebbe questo mio primo amico, a cui io ciò scrivo, cioè ch'io li scrivessi solamente volgare.

Dante Alighieri
(segue)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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