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Messaggi del 16/06/2015

Lorenzo Fusconi

Post n°1755 pubblicato il 16 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Giunta del Precursor l'Alma severa

Giunta del Precursor l'Alma severa
Nel sen di Abramo ove la speme è vita,
Tinta di sangue e pallida com' era,
Di mano allor del manigoldo uscita,

Narrò l'orrido incesto e la mogliera
Del Re tiranno al suo fratel rapita,
E le danze e l'inchiesta, onde la nera
Colpa fu poi nel Riprensor punita.

Accigliaron le fronti atre e rugose
Ai fieri modi di sì orribil fallo
Le ascoltanti dei Padri ombre sdegnose;

E s'udian per la cieca aria segreta
Maledir la lasciva arte del ballo
Che valse il capo di sì gran Profeta.

Lorenzo Fusconi
(Nacque in Ravenna nel 1716, morì ivi nel 1814.)

Da: Fiori di Poesie Liriche Italiane del Secolo XVIII. Si aggiunge l'Invito a Lesbia Cidonia di Lorenzo Mascheroni. Milano, Dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, MDCCCXXXIII (1832) - L'opera fa parte della Collana "Raccolta di Poeti Classici Italiani Antichi e Moderni Volume XCIX. Milano, Dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, MDCCCXXXIII"

 
 
 

Canzoniere inedito 8

XXXVI.

Il pellegrino che di notte vada
Per mezzo a bosco pauroso e fiero,
Ove i dumi frequenti e l'aer nero
Tenganlo in forse di smarrir sua strada;

Se mai gli avviene che, mentitegli bada.
Sorga un lume diretto al suo sentiero,
Forte respira, e del timor primiero
Esce che in fallo o in precipizio cada.

Tale in questo mortai pellegrinaggio
Senza guida e conforto io me ne giva.
Dubbio del line, e stanco del viaggio:

Quando una stella in ciel pur m'appariva;
Ma del benigno e grazioso raggio
Improvvisa procella ecco mi priva.

XXXVII.

Quasi il lasciarti, o mio nobile acquisto.
Mi dovesse parer lieve iattura.
Con la fortuna si accontò natura
Per via più farmi sconsolato e tristo.

Ed io, che dianzi le tue stelle visto
Ridermi avea di gioja amica e pura.
Mi vidi circondar di notte oscura
Da fiero nembo di baleni misto.

Giù la pioggia cadea. soffiava il vento,
Stridean gli augelli, e a le guardate stalle
Qua e là fuggia lo sbigottito armento.

Muto io fratanto divorava il calle;
E, pensando al tuo duolo, ogni momento
(Mi occhi mesti volgea dietro le spalle.

XXXVIII.

Il montana!', che dall'avita bruma
Scende d'Elvezia, e va fra strania gente.
Dove sua libertà vender consente
A qual pria meglio di merceria assuma;

S'avvien che, mentre la sua pipa fuma
0 tracanna il bicchier di vin possente.
Cantar le glorie della patria sente.
Cade in tristezza, e piange, e si consuina.

Nè a lui rimane più speme di vita.
Se messi i nuovi alberghi in abbandono.
Presto non torni alla sua bruma avita.

Di quegli esempio in questa terra io sono,
Che provo in petto ogni virtù smarrita
Sempre che del tuo nome ascolti il suono.

XXXIX.

O vigil vecchio, o tu. che di minuti
Tue membra accresci, e le fai dure e forti,
Che trascorrendo la rea falce porti
Sopra la terra, e la sua faccia muti:

Tu che alterni i natali con le morti.
E l'un persegui mentre l'altro aiuti.
Fin clic il dì venga che tua rabbia attuti
Dio fondatore di novelle sorti:

Va, fuggi, vola; e poiché sordo siei
Quando ti prego di passar più lento
Sulle brevi ore de' contenti miei;

Or che in angoscie mi consumo e stento
Odimi almeno, ch'io da te, vorrei
Che ciascun giorno mio fosse un momento.

XL.

Romito augel che dalle alpine vette,
Onde servaggio a noi spesso si muove.
Voli nel Ciel tra i fulmini di Giove,
Fido ministro delle sue vendette:

Dimmi come pupille hai sì perfette,
Che mentre incontro al Sol poggi, là dove
Più la virtute de' suoi raggi piove
Ferme le tieni ed al suo centro strette.

Ch'io ben vorrei saper siccome il lume
Io potessi mirar d'un altro Sole,
Senza temer de' suoi raggi l'offesa,

Temo però che a me non sia difesa
Da che forte Ragion gridami, e vuole
Che questi un astro già non sia, ma un Nume.

Giuseppe Gioachino Belli
Da "Il Canzoniere inedito di G. G. Belli", Estratto dal fascicolo di gennaio 1916 della Rivista d'Italia - Roma Piazza Cavour, Roma - Tipografia dell' Unione Editrice, via Federico Cesi 45
In "La Età dell' Oro", Roma dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Giulio Camillo 3

IX
Di M. Giulio Camillo

19

Sparso d’or l’arenose ambe due corna,
Con la fronte di toro il re de’ fiumi
A la città volgendo i glauchi lumi,
La qual il ferro del suo nome adorna:

"In forbito oro il ferro tuo ritorna",
Parve dicesse, "e ’n buoni i rei costumi,
E gli onor spenti in tanti accesi lumi,
Poi che ’l sol nuovo in te regna e soggiorna.

O domator de’ mostri, o sol qui sole,
L’onde ch’io volgo a’ cenni tuoi benigno
Risguarda, e co i tuoi sguardi ognor rischiara".

Al fin de le sue tacite parole
Ogni riva fiorì, cantò ogni cigno,
D’or sì fe’ ’l secol, l’aria e l’acqua chiara.

20

Poi che l’alta salute d’ogni gente,
Sangue e sudor piovendole dal volto,
Nel vel stampossi che la donna sciolto
Dal crin le porse mesta e riverente,

Quasi semplice agnel puro innocente
Fra mille morsi d’aspri lupi involto,
Come poteo benignamente volto
A lei disse con gli occhi e con la mente:

"Anima sola mossa a’ miei martori,
Dopo volger de’ lustri tornerai
Col ver ne’ primi accenti in ch’io risuono;

Allor in carte scosse d’atri errori
La morte ch’io sostegno stenderai,
Ed io la dettarò dal sommo trono".

21

Se ’l vero, ond’ha principio il nome vostro,
Donna sopra l’illustri altre latine,
Fusse con quelle lodi pellegrine
Che date al mio non ben purgato inchiostro,

Sarei (lasso) d’onor al secol nostro,
E tra le ninfe sederei divine
Che son più care a Febo e più vicine
Nel fiorito, frondoso e sacro bosco.

Ben voi, voi sola, con l’escelsa mente
A le cagion passando in ogni cosa
Levate a la natura i suoi secreti;

E stando Apollo e le sue Muse intente
Al vostro dotto stil, già gloriosa
Avanzate i filosofi e i poeti.


22

"Tu, che secondo l’alta Roma onora,
Sol coglier puoi per quelle rive ombrose
Le più fresche viole e dilettose,
Nate ad un parto con la bella aurora.

A te il bel Tebro le sue sponde infiora,
E per la fronte tua purpuree rose
S’apron, d’ornarla quasi vergognose,
Che ghirlanda maggior t’aspetta ancora.

A te i candidi pomi, a te pendenti,
Metton dolce rossore, e ’l ciel sereno
Più assai si mostra, e i prati assai più molli".

Così cantò da un sasso in dolci accenti
Di furor pieno il gran pastor Sileno:
E GIBERTO sonar, GIBERTO, i colli.

Giulio Camillo (Delminio)
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Giulio Camillo 2

IX
Di M. Giulio Camillo

11

Lega la benda negra
A la tua trista fronte,
Musa, che ’l gran DELFIN morto accompagni.
Sorgi squallida ed egra
Dal conturbato fonte
E vesti il nudo tuo d’opre di ragni,
E i fatti excelsi e magni
Del Garzon sempre invitto
Sian le funebri pompe.
E quella, che interrompe
L’alte glorie col termine prescritto,
Quai stati sarian gli archi
E i trofei mostri, d’ampie spoglie carchi.
Dov’eri, Marte fero,
Quando salì il tuo sole
Dando stupor al ciel del nuovo lume ?

Non t’avea già l’Ibero,
Non CARLO, che si duole
Del vano ardir sul rapido e gran fiume.
Qual aria a le tue piume,
Sconsolato Cupido,
Cedea di nebbia piena?
Certo il pianto e la pena
Non v’affligeva in Pafo, non in Gnido,
Ma in luoghi aspri e selvaggi,
Tra prun, cipressi e folminati faggi.

Anco a Vulcan del petto
In loco arido ed ermo
Lavava il duol le ferruginee lane.
Lo scudo al giovenetto
Fatto tenea, che schermo
Saria sol contra a tutte l’armi ispane.
Ei de le squadre insane,
E di CARLO tra loro,
Porta la fuga impressa;
La vittoria promessa
Si vede tutta nel fabril lavoro,
E ’l gran Re co’ suoi figli
Coronati di lauro e d’aurei gigli.

"Per questo", disse, "il caso
Per questo scudo avenne
Ad Etna dianzi, mentre tutto accese,
Che ’l licor dal gran vaso,
Che ’l peso non sostenne,
Ridondò nel temprar l’infuso arnese,
Onde il vicin paese
Dal liquido torrente
Di metallo è sommerso.
E se Febo perverso
Spense il lume ch’uscia dal suo oriente,
Anco Cesar morio
Quando Etna a i fuochi tante porte aprio.

Mentre gli etnei Ciclopi
Faticavan l’incude,
Tremò la terra e i monti dier mugito,
E gli uni e gli altri Etiopi,
E ciò che ’l ciel rinchiude,
Vider fra i rotti abissi il gran Cocito.
Ma perché già ogni lito
Bramava l’alma luce,
Si tinse il sol d’oscuro,
E come invido duro
Uccise l’alto e glorioso Duce,
Temendo non costui
Il mondo discorresse pria di lui".

Qui, qui, ninfe sorelle
De la mia musa mesta,
Venite or molli dal corrente vetro;
Spegnete le facelle
E con purpurea cesta
Nembi di fior versate sul feretro,
E come per l’adietro
Da le man vostre fiocchi
Neve nel morto viso.
Ecco che ’l paradiso
E tutto ’l bel si chiuse co’ begli occhi;
Ma a te, Esculapio adorno,
Ei sacrò pria l’augel nunzio del giorno.

Sciogli il vel fosco, sconsolata diva,
Che ’l Delfin nuovo ENRICO
Già col sol gira, e girerà suo amico.

12

Occhi, che fulminate fiamme e strali,
Or che volete più dal petto mio?
Vostr’è ’l mio cor e vostro il mio desio,
Cagion del vostro ben e de i miei mali.

Già scorgo in voi con l’arco teso e l’ali
E con l’ardente face il picciol dio,
E par che mi minacci stato rio,
Ma prima (ohimè) non vi mostrate tali.

E se non che l’angeliche parole
Prometton pace a chi l’ascolta ed ode,
Mi rimarrei d’entrar in tanto affanno.

Ma chi le virtù vostre uniche e sole,
Chi la bellezza e l’altre vostre lode
Farebbe conte a i secoi che verranno?

13

Di ben mille mature bionde spiche
Cerere armata, e di sé pien il corno,
Dicea in un sacro a Giove alto soggiorno
Tra le solenni pompe udendo Psiche:

"Sante parole del coltel nemiche,
Che sopra i bianchi altar fate ogni giorno
Quel che sostien il mio candor d’intorno
Passar ne l’uman Dio con forze amiche,

Al secreto onorato vostro suono
Ogni dolce silenzio v’accompagni
Ch’in selve asconda il più riposto orrore.

Taciti i peccator gridin perdono,
Né augel, né ninfa presso a voi si lagni,
E prego a me perpetuo tant’onore".

14

Occhi, che vergognar fate le stelle
Qualor ferite lor co’ maggior lampi,
Serenando del ciel gli aperti campi
E mostrandogli cose assai più belle,

Come d’Adria a l’eterne alte facelle
Giugnete, ohimè, perché co’ chiari vampi
Non così a i luoghi men lontani ed ampi
Ov’è ’l gran mar men rotto da procelle?

Che me vedreste qui del mio languire
Far testimon di Teti il buon consorte
A le radici del gran Pireneo.

Occhi, che ne l’amaro mio partire
Io vidi asciutti e vaghi di mia morte,
Così vedeste or voi me un lieto Orfeo.

15

Il verde Egitto per la negra arena,
Ma più per quei che l’adornar d’ingegno,
Finse già d’amicizia dolce segno
La nostra forma d’ogni fede piena.

Or di fedel amor, di lunga pena,
A la pianta del più felice legno
Finta non io ma vera nota vegno
Legato di firmissima catena.

Così la ninfa tua non tenga spenti
I fuochi suoi con quelli di Fetonte
Nel più superbo frate ch’abbia il Tebro;

Così i latrati miei con grati accenti
Muovan tuoi rami e le durezze conte,
Onorato, gentil, alto Ginebro.

16

Aure leggiadre, ben che mille ardenti
Fiamme d’Amor e mille sue fatiche
Detto abbian voi le gran memorie antiche
Aver sofferto, e mille aspri tormenti,

Vincavi la pietà de i gran lamenti
Che fa Cupido su le rive apriche,
U’ non son fauni, né le ninfe amiche,
Ed egli è senza l’ali e i fochi ha spenti.

Dameta al vostro suon sotto un laureto
Dorme, né sentir può ’l fanciul dal fiume
Gridar, ch’un capro lo sospinge a l’onde.

Aure fermate, o aure, in aer queto
Il mover dolce de le vostre piume,
E ’l suono si rimanga entro le fronde.

17

Facendo specchio a la mia LIDIA un rio,
Che fugge queto senza mover onde
Al favor di novelle e ombrose fronde,
Di quanto mostra a me, benigno e pio,

Parea l’acque corresser con disio
D’esser dipinte alor tutte seconde
Verso il sembiante onor di quelle fronde,
Come il lucido corre al negro mio.

Ma tosto fuor de la beata parte
Lasciavan la figura, triste e sole,
Fatta più bella da un soave riso.

Così a’ ruscelli semplici comparte
Ed a gli occhi miei folli, quando vuole,
Gli schermi suoi e ’l suo fugace riso.

18

Udite rivi, o date al corso freno,
O senza onda ei sen vada piano e lento,
Né ’l faccian tremolar pietra, erba o vento,
Se specchi esser volete, o cari almeno.

LIDIA, il lume del viso almo e sereno
Nel crespo d’un di voi vedendo spento
E senza i bei color, prese spavento:
Non così fusse, ohimè, venuto meno.

Gridava al ciel e ai negri boschi insieme
Incolpando il suo foco e la mia cura
Con voci tal ch’ancor le valli ingombra:

"Ben puoi veder, crudel, s’Amor mi preme,
Che per te m’è caduta ogni figura
E di me non son più che parte ed ombra".

Giulio Camillo (Delminio)
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Canzoniere petrarchesco 12

Post n°1751 pubblicato il 16 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

74

Io son già stanco di pensar sí come
i miei pensier' in voi stanchi non sono,
et come vita anchor non abbandono
per fuggir de' sospir' sí gravi some;

et come a dir del viso et de le chiome
et de' begli occhi, ond'io sempre ragiono,
non è mancata omai la lingua e 'l suono
dí et notte chiamando il vostro nome;

et che' pie' non son fiaccati et lassi
a seguir l'orme vostre in ogni parte
perdendo inutilmente tanti passi;

et onde vien l'enchiostro, onde le carte
ch'i' vo empiendo di voi: se 'n ciò fallassi,
colpa d'Amor, non già defecto d'arte.


75

I begli occhi ond'i' fui percosso in guisa
ch'e' medesmi porian saldar la piaga,
et non già vertú d'erbe, o d'arte maga,
o di pietra dal mar nostro divisa,

m'ànno la via sí d'altro amor precisa,
ch'un sol dolce penser l'anima appaga;
et se la lingua di seguirlo è vaga,
la scorta pò, non ella, esser derisa.

Questi son que' begli occhi che l'imprese
del mio signor victorïose fanno
in ogni parte, et piú sovra 'l mio fianco;

questi son que' begli occhi che mi stanno
sempre nel cor colle faville accese,
per ch'io di lor parlando non mi stanco.


76

Amor con sue promesse lusingando
mi ricondusse a la prigione antica,
et die' le chiavi a quella mia nemica
ch'anchor me di me stesso tene in bando.

Non me n'avidi, lasso, se non quando
fui in lor forza; et or con gran fatica
(chi 'l crederà perché giurando i' 'l dica?)
in libertà ritorno sospirando.

Et come vero pregioniero afflicto
de le catene mie gran parte porto,
e 'l cor ne gli occhi et ne la fronte ò scritto.

Quando sarai del mio colore accorto,
dirai: S'i' guardo et giudico ben dritto,
questi avea poco andare ad esser morto.


77

Per mirar Policleto a prova fiso
con gli altri ch'ebber fama di quell'arte
mill'anni, non vedrian la minor parte
de la beltà che m'ave il cor conquiso.

Ma certo il mio Simon fu in paradiso
(onde questa gentil donna si parte),
ivi la vide, et la ritrasse in carte
per far fede qua giú del suo bel viso.

L'opra fu ben di quelle che nel cielo
si ponno imaginar, non qui tra noi,
ove le membra fanno a l'alma velo.

Cortesia fe'; né la potea far poi
che fu disceso a provar caldo et gielo,
et del mortal sentiron gli occchi suoi.


78

Quando giunse a Simon l'alto concetto
ch'a mio nome gli pose in man lo stile,
s'avesse dato a l'opera gentile
colla figura voce ed intellecto,

di sospir' molti mi sgombrava il petto,
che ciò ch'altri à piú caro, a me fan vile:
però che 'n vista ella si mostra humile
promettendomi pace ne l'aspetto.

Ma poi ch'i' vengo a ragionar co llei,
benignamente assai par che m'ascolte,
se risponder savesse a' detti miei.

Pigmalïon, quanto lodar ti dêi
de l'imagine tua, se mille volte
n'avesti quel ch'i' sol una vorrei.


79

S'al principio risponde il fine e 'l mezzo
del quartodecimo anno ch'io sospiro,
piú non mi pò scampar l'aura né 'l rezzo,
sí crescer sento 'l mio ardente desiro.

Amor, con cui pensier mai non amezzo,
sotto 'l cui giogo già mai non respiro,
tal mi governa, ch'i' non son già mezzo,
per gli occhi ch'al mio mal sí spesso giro.

Cosí mancando vo di giorno in giorno,
sí chiusamente, ch'i' sol me n'accorgo
et quella che guardando il cor mi strugge.

A pena infin a qui l'anima scorgo,
né so quanto fia meco il mio soggiorno,
ché la morte s'appressa, e 'l viver fugge.


80

Chi è fermato di menar sua vita
su per l'onde fallaci et per gli scogli
scevro da morte con un picciol legno,
non pò molto lontan esser dal fine:
però sarrebbe da ritrarsi in porto
mentre al governo anchor crede la vela.

L'aura soave a cui governo et vela
commisi entrando a l'amorosa vita
et sperando venire a miglior porto,
poi mi condusse in piú di mille scogli;
et le cagion' del mio doglioso fine
non pur d'intorno avea, ma dentro al legno.

Chiuso gran tempo in questo cieco legno
errai, senza levar occhio a la vela
ch'anzi al mio dí mi trasportava al fine;
poi piacque a lui che mi produsse in vita
chiamarme tanto indietro da li scogli
ch'almen da lunge m'apparisse il porto.

Come lume di notte in alcun porto
vide mai d'alto mar nave né legno
se non gliel tolse o tempestate o scogli,
cosí di su da la gomfiata vela
vid'io le 'nsegne di quell'altra vita,
et allor sospirai verso 'l mio fine.

Non perch'io sia securo anchor del fine:
ché volendo col giorno esser a porto
è gran vïaggio in cosí poca vita;
poi temo, ché mi veggio in fraile legno,
et piú che non vorrei piena la vela
del vento che mi pinse in questi scogli.

S'io esca vivo de' dubbiosi scogli,
et arrive il mio exilio ad un bel fine,
ch'i' sarei vago di voltar la vela,
et l'anchore gittar in qualche porto!
Se non ch'i' ardo come acceso legno,
sí m'è duro a lassar l'usata vita.

Signor de la mia fine et de la vita,
prima ch'i' fiacchi il legno tra gli scogli
drizza a buon porto l'affannata vela.

Francesco Petrarca

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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