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Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

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Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

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Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

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Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

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Il Dittamondo, Libro Primo

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Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
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Messaggi del 02/06/2015

Manco una pe le mille

Manco una pe le mille

La vò rregazza, la vò bbella, ricca,
bbona, donna de casa, de decoro...
Se sa: (1) cchi vva ccercanno sto tesoro,
nun trova mai la forca che l’impicca. (2)

Si nne vede una c’ha le mane d’oro, (3)
subbito la facciata nun je cricca: (4)
la vede bbella, e ssubito se ficca
ner cervellaccio che lo facci toro.

Una che n’incontrò jjeri in un loco,
perch’era un po’ accimata, (5) ebbe pavura
che jje manni la casa a ffiamm’e ffoco. (6)

Sai come ha da finí sta seccatura?
Che, o resta scapolo, o a la fin der gioco
pijja in grazzia de ddio la scopatura.

Giuseppe Gioachino Belli
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo

Note:
1. Si sa.
2. Modo proverbiale, esprimente lo schifo che taluno ha di tutto ciò che potrebbe scegliere al suo scopo.
3. Quella donna ha le mani d’oro, che sa far tutto.
4. Non gli va a garbo l’esteriore.
5. Azzimata.
6. Mandare in rovina per le prodigalità, ecc.

 
 
 

Le elezioni a Roma

Post n°1690 pubblicato il 02 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Le elezioni a Roma

 ...Tutto il popolo eleggeva i consoli; più tardi è ancora tutto il popolo che elegge il vescovo. Quando le istituzioni si guastano e si corrompono è la guardia pretoriana ad eleggere l’imperatore; ora sono i cardinali ad eleggere il papa.

...Da principio i capi spirituali di Roma erano eletti dall’assemblea dei cristiani riunita in fondo alle catacombe. Quando l’impero viene trasportato in Oriente e le calate dei barbari dànno forza alla Cristianità, il popolo fa le elezioni pubblicamente. Più tardi, quando il vescovo ha acquistato una potenza ancora maggiore, quando si è già formato un clero regolare, il popolo perde di nuovo la sua funzione e il vescovo viene eletto dal clero Ben presto Carlo Magno e i suoi successori pensano di risuscitare l’impero d’Occidente..., e, per dare a questo impero l’appoggio della religione, pensano che solo a Roma potranno incoronarsi imperatori... Il titolo di vescovo, ormai troppo diffuso in Europa, viene cambiato con quello di papa; si è così formata una gerarchia ecclesiastica; il papa disdegna di ripetere la sua autorità dai semplici preti; d’ora in poi solo i cardinali concorreranno alla sua elezione..,

...Un giorno il popolo si stanca della lunghezza delle discussioni fra i grandi elettori e pensa di murare le porte del palazzo in cui sono riuniti, in modo da tenerli rinchiusi finché non sia stata proclamata la loro scelta. Questo precedente fa legge: il conclave viene murato ad ogni elezione.

...Infine, da parte di parecchie potenze cattoliche, viene introdotto l’uso e il diritto di opporsi, nel seno stesso del conclave e per mezzo di un cardinale, alle scelte che possano dar fastidio.

Questo era lo stato delle cose quando un nuovo imperatore d’Occidente annesse Roma al suo impero e proclamò che “ogni sovranità straniera è incompatibile con l’esercizio dell’attività spirituale all’interno dell’impero che, inoltre, al momento della loro esaltazione, i papi avrebbero dovuto giurare di non far mai niente contro le quattro proposizioni della Chiesa gallicana, decretate nell’assemblea del clero del 1682 “. (Senato-consulto del 17 febbraio 1810.)

...Le due potenze che oggi esercitano nel conclave maggiore influenza sono la Francia e l’Austria. I loro interessi sono contrastanti; ma tutto si può sempre sistemare. Se la prima vince nell’elezione del papa, l’altra si rifà con l’elezione del Segretario di Stato.

...In Francia il clero è serio e pio, impone a tutti il rispetto; a Roma gli abati sono i tipi più fortunati del secolo: sono gai, comici e a volte buffoni... Non hanno nulla in comune con i nostri piccoli abati del vecchio regime, profumati di ambra e muschio; gli italiani non hanno queste delicate cure per le loro persone... non hanno le tasche piene di strofette per qualche Cloe...

Ma quasi sempre sanno qualche bellissima storia a proposito di un cappuccino o di un certosino; essi scoprono che la nuova cantante ha una gamba più corta dell’altra; essi hanno il felice, inestinguibile riso degli dei.

...Le due estremità di via Pia sono chiuse da un cancello di legno, ricoperto da vecchie tappezzerie. La debole barriera è sorvegliata da una guardia svizzera, vestita come nel quartordicesimo secolo e armata di una lunga alabarda.

Il portone di Montecavallo è aperto, ma sorvegliato da un numeroso corpo di guardia. Al primo piano le finestre della facciata sono chiuse con le persiane. È stato murato il finestrone centrale, quello che si apre sul balcone sopra l’ingresso principale.

Stendhal
Tratto da "Passeggiate romane", Ed. LATERZA 1973

 
 
 

Caster Zant’Angelo

Caster Zant’Angelo

Quer buggero llí sotto ar piedestallo
dell’angelo, in ner mezzo de Castello
che ppare un cuppolone de cappello
o un zetaccio o una forma de timballo,

c’è cchì ddisce ch’è mmaschio, bbuggiarallo!,
come li sassi avessino l’uscello!
Eppoi, l’antro ch’è ffemmina indov’ello
pe ppoté ffà la razza e mmaritallo?

Quer che cce cricca, se fa ppresto a ddillo,
ma pprima de poté mettesce er bollo,
’ggna dàjje tempo e staggionà er ziggillo.

Una spesce llaggiú dde ponte-mollo!
È mollo un cazzo, e cchi llo vò ccapillo
se lo vadi a ffà ddà tra ccap’e collo.

Giuseppe Gioachino Belli

 
 
 

Caster-Zant’-Angelo

Caster-Zant’-Angelo

Quer dottor de Saspirito in zottana
c’a Ttuta, aggratis, je guarì la tiggna,
che ll’anpassato la portò a la viggna
e st’agosto j’ha ffatto da mammana,

disce che, a la Repubbrica Romana,
lassù, ppe vvia de ’na frebbe maliggna
c’era invesce dell’angelo una piggna
e Ccastello era la gran mola driana.

Accidenti! che buggera de mola!
Averanno impicciato tutt’er fiume
co li rotoni de sta mola sola!

Oh vvarda, cristo!, come va er custume!
Mascinà pprima er grano pe la gola,
eppoi pell’occhi fà ggirelli e ffume!

Giuseppe Gioachino Belli

 
 
 

Canzoniere petrarchesco 4

Post n°1687 pubblicato il 02 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

21

Mille fïate, o dolce mia guerrera,
per aver co' begli occhi vostri pace
v'aggio proferto il cor; mâ voi non piace
mirar sí basso colla mente altera.

Et se di lui fors'altra donna spera,
vive in speranza debile et fallace:
mio, perché sdegno ciò ch'a voi dispiace,
esser non può già mai cosí com'era.

Or s'io lo scaccio, et e' non trova in voi
ne l'exilio infelice alcun soccorso,
né sa star sol, né gire ov'altri il chiama,

poria smarrire il suo natural corso:
che grave colpa fia d'ambeduo noi,
et tanto piú de voi, quanto piú v'ama.


22

A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch'ànno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno;
ma poi che 'l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa et qual s'anida in selva
per aver posa almeno infin a l'alba.


Et io, da che comincia la bella alba
a scuoter l'ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ò mai triegua di sospir' col sole;
pur quand'io veggio fiammeggiar le stelle
vo lagrimando, et disïando il giorno.


Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
et le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m'ànno facto di sensibil terra;
et maledico il dí ch'i' vidi 'l sole,
e che mi fa in vista un huom nudrito in selva.

Non credo che pascesse mai per selva
sí aspra fera, o di nocte o di giorno,
come costei ch'i 'piango a l'ombra e al sole;
et non mi stancha primo sonno od alba:
ché, bench'i' sia mortal corpo di terra,
lo mi fermo desir vien da le stelle.


Prima ch'i' torni a voi, lucenti stelle,
o torni giú ne l'amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess'io in lei pietà, che 'n un sol giorno
può ristorar molt'anni, e 'nanzi l'alba
puommi arichir dal tramontar del sole.


Con lei foss'io da che si parte il sole,
et non ci vedess'altri che le stelle,
sol una nocte, et mai non fosse l'alba;
et non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch'Apollo la seguia qua giú per terra.


Ma io sarò sotterra in secca selva
e 'l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch'a sí dolce alba arrivi il sole.


23

Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et anchor quasi in herba
la fera voglia che per mio mal crebbe,
perché cantando il duol si disacerba,
canterò com'io vissi in libertade,
mentre Amor nel mio albergo a sdegno s'ebbe.
Poi seguirò sí come a lui ne 'ncrebbe
troppo altamente, e che di ciò m'avvenne,
di ch'io son facto a molta gente exempio:
benché 'l mio duro scempio
sia scripto altrove, sí che mille penne
ne son già stanche, et quasi in ogni valle
rimbombi il suon de' miei gravi sospiri,
ch'aquistan fede a la penosa vita.
E se qui la memoria non m'aita
come suol fare, iscúsilla i martiri,
et un penser che solo angoscia dàlle,
tal ch'ad ogni altro fa voltar le spalle,
e mi face oblïar me stesso a forza:
ché tèn di me quel d'entro, et io la scorza.

I' dico che dal dí che 'l primo assalto
mi diede Amor, molt'anni eran passati,
sí ch'io cangiava il giovenil aspetto;
e d'intorno al mio cor pensier' gelati
facto avean quasi adamantino smalto
ch'allentar non lassava il duro affetto.
Lagrima anchor non mi bagnava il petto
né rompea il sonno, et quel che in me non era,
mi pareva un miracolo in altrui.
Lasso, che son! che fui!
La vita el fin, e 'l dí loda la sera.
Ché sentendo il crudel di ch'io ragiono
infin allor percossa di suo strale
non essermi passato oltra la gonna,
prese in sua scorta una possente donna,
ver' cui poco già mai mi valse o vale
ingegno, o forza, o dimandar perdono;
e i duo mi trasformaro in quel ch'i' sono,
facendomi d'uom vivo un lauro verde,
che per fredda stagion foglia non perde.

Qual mi fec'io quando primier m'accorsi
de la trasfigurata mia persona,
e i capei vidi far di quella fronde
di che sperato avea già lor corona,
e i piedi in ch'io mi stetti, et mossi, et corsi,
com'ogni membro a l'anima risponde,
diventar due radici sovra l'onde
non di Peneo, ma d'un piú altero fiume,
e n' duo rami mutarsi ambe le braccia!
Né meno anchor m' agghiaccia
l'esser coverto poi di bianche piume
allor che folminato et morto giacque
il mio sperar che tropp'alto montava:
ché perch'io non sapea dove né quando
me 'l ritrovasse, solo lagrimando
là 've tolto mi fu, dí e nocte andava,
ricercando dallato, et dentro a l'acque;
et già mai poi la mia lingua non tacque
mentre poteo del suo cader maligno:
ond'io presi col suon color d'un cigno.

Cosí lungo l'amate rive andai,
che volendo parlar, cantava sempre
mercé chiamando con estrania voce;
né mai in sí dolci o in sí soavi tempre
risonar seppi gli amorosi guai,
che 'l cor s'umilïasse aspro et feroce.
Qual fu a sentir? ché 'l ricordar mi coce:
ma molto piú di quel, che per inanzi
de la dolce et acerba mia nemica
è bisogno ch'io dica,
benché sia tal ch'ogni parlare avanzi.
Questa che col mirar gli animi fura,
m'aperse il petto, e 'l cor prese con mano,
dicendo a me: Di ciò non far parola.
Poi la rividi in altro habito sola,
tal ch'i' non la conobbi, oh senso humano,
anzi le dissi 'l ver pien di paura;
ed ella ne l'usata sua figura
tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
d'un quasi vivo et sbigottito sasso.

Ella parlava sí turbata in vista,
che tremar mi fea dentro a quella petra,
udendo: I' non son forse chi tu credi.
E dicea meco: Se costei mi spetra,
nulla vita mi fia noiosa o trista;
a farmi lagrimar, signor mio, riedi.
Come non so: pur io mossi indi i piedi,
non altrui incolpando che me stesso,
mezzo tutto quel dí tra vivo et morto.
Ma perché 'l tempo è corto,
la penna al buon voler non pò gir presso:
onde piú cose ne la mente scritte
vo trapassando, et sol d'alcune parlo
che meraviglia fanno a chi l'ascolta.
Morte mi s'era intorno al cor avolta,
né tacendo potea di sua man trarlo,
o dar soccorso a le vertuti afflitte;
le vive voci m'erano interditte;
ond'io gridai con carta et con incostro:
Non son mio, no. S'io moro, il danno è vostro.

Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi
d'indegno far cosí di mercé degno,
et questa spene m'avea fatto ardito:
ma talora humiltà spegne disdegno,
talor l'enfiamma; et ciò sepp'io da poi,
lunga stagion di tenebre vestito:
ch'a quei preghi il mio lume era sparito.
Ed io non ritrovando intorno intorno
ombra di lei, né pur de' suoi piedi orma,
come huom che tra via dorma,
gittaimi stancho sovra l'erba un giorno.
Ivi accusando il fugitivo raggio,
a le lagrime triste allargai 'l freno,
et lasciaile cader come a lor parve;
né già mai neve sotto al sol disparve
com'io sentí' me tutto venir meno,
et farmi una fontana a pie' d'un faggio.
Gran tempo humido tenni quel vïaggio.
Chi udí mai d'uom vero nascer fonte?
E parlo cose manifeste et conte.

L'alma ch'è sol da Dio facta gentile,
ché già d'altrui non pò venir tal gratia,
simile al suo factor stato ritene:
però di perdonar mai non è sacia
a chi col core et col sembiante humile
dopo quantunque offese a mercé vène.
Et se contra suo stile essa sostene
d'esser molto pregata, in Lui si specchia,
et fal perché 'l peccar piú si pavente:
ché non ben si ripente
de l'un mal chi de l'altro s'apparecchia.
Poi che madonna da pietà commossa
degnò mirarme, et ricognovve et vide
gir di pari la pena col peccato,
benigna mi redusse al primo stato.
Ma nulla à 'l mondo in ch'uom saggio si fide:
ch'ancor poi ripregando, i nervi et l'ossa
mi volse in dura selce; et così scossa
voce rimasi de l'antiche some,
chiamando Morte, et lei sola per nome.

Spirto doglioso errante (mi rimembra)
per spelunche deserte et pellegrine,
piansi molt'anni il mio sfrenato ardire:
et anchor poi trovai di quel mal fine,
et ritornai ne le terrene membra,
credo per piú dolore ivi sentire.
I' seguí' tanto avanti il mio desire
ch'un dí cacciando sí com'io solea
mi mossi; e quella fera bella et cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando 'l sol piú forte ardea.
Io, perché d'altra vista non m'appago,
stetti a mirarla: ond'ella ebbe vergogna;
et per farne vendetta, o per celarse,
l'acqua nel viso co le man' mi sparse.
Vero dirò (forse e' parrà menzogna)
ch'i' sentí' trarmi de la propria imago,
et in un cervo solitario et vago
di selva in selva ratto mi trasformo:
et anchor de' miei can' fuggo lo stormo.

Canzon, i' non fu' mai quel nuvol d'oro
che poi discese in pretïosa pioggia,
sí che 'l foco di Giove in parte spense;
ma fui ben fiamma ch'un bel guardo accense,
et fui l'uccel che piú per l'aere poggia,
alzando lei che ne' miei detti honoro:
né per nova figura il primo alloro
seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra
ogni men bel piacer del cor mi sgombra.


24

Se l'onorata fronde che prescrive
l'ira del ciel, quando 'l gran Giove tona,
non m'avesse disdetta la corona
che suole ornar chi poetando scrive,

i'era amico a queste vostre dive
le qua' vilmente il secolo abandona;
ma quella ingiuria già lunge mi sprona
da l'inventrice de le prime olive:

ché non bolle la polver d'Ethïopia
sotto 'l più ardente sol, com'io sfavillo,
perdendo tanto amata cosa propia.

Cercate dunque fonte piú tranquillo,
ché 'l mio d'ogni liquor sostene inopia,
salvo di quel che lagrimando stillo.


25

Amor piangeva, et io con lui talvolta,
dal qual miei passi non fur mai lontani,
mirando per gli effecti acerbi et strani
l'anima vostra dei suoi nodi sciolta.

Or ch'al dritto camin l'à Dio rivolta,
col cor levando al cielo ambe le mani
ringratio lui che' giusti preghi humani
benignamente, sua mercede, ascolta.

Et se tornando a l'amorosa vita,
per farvi al bel desio volger le spalle,
trovaste per la via fossati o poggi,

fu per mostrar quanto è spinoso calle,
et quanto alpestra et dura la salita,
onde al vero valor conven ch'uom poggi.

Francesco Petrarca

 
 
 

Lo sgrinfiarello affamato

Lo sgrinfiarello affamato

Nun me ne fo ggnisuna maravijja
si ll’ha ttanto co mmé cquer zor fischietto.
Tutt’è pperch’io nun vojjo sto traghetto
che llui facci er cazzaccio co mmi’ fijja.

Figurete, sò ddiesci de famijja,
nun cianno manco le lenzola ar letto!...
e vvò Nnèna? Pò dasse un Crist’in petto,
ma inzin che ccampo io, lui nu la pijja.

Sò inutile co mmé tutte ste sscene.
Stia zzitto, stia: vadi a imparà cquarc’arte,
in cammio de fà er vappo e ’r Galimene.

Lui?! quer grilletto?! a mmé?! le guance rosse?!
È aritornat’ar monno Bbonaparte?
Oh cqui ssí cche le purce hanno la tosse!

Giuseppe Gioachino Belli
30 gennaio 1847

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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