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Messaggi del 08/06/2015

Canzoniere inedito 3

XI.

Ciò che di perle, di profumi, e d'oro
Sotto la plaga oriental s'aduna:
Quanto la Persa e la Ottomana Luna
Han d'armi, e gemme, e di destrier tesoro;

Tutti gl'Imperi che in possanza foro
Donde il Sol nasce infin dove s'inbruna;
Ogni splendor d'ingegno, e di fortuna;
E fin la fronda dello eterno alloro.

Vili obbietti parrianmi incontro al volto
Di Lei, che per miracolo d'Amore
Me della Terra, e di me stesso ha tolto.

Ma se tanto io darei sol pel valore
Nel dolce viso di Costei raccolto,
Che non darei per meritarne il cuore?

XII.

Vedi colà presso la fonte appese
Star quelle canne al ramuscel di un orno.
Onde già Elpino a questi colli intorno.
L'arte del canto, e i bei carmi m'apprese?

Or, come a noi con men torrido mese
Più benigna stagion faccia ritorno,
Quando Febo nel Ciel la notte e il giorno
Sopra bilancia egual moderi e pese:

Torrolle io quindi; e con le gonfie gote
Dolci trarronne, modulando, fuore
I suon dimessi, e le obliate note.

Assisa intanto presso al tuo pastore,
Con auri attente, e con pupille immote,
Tu l'udrai ricantar Cintia ed Amore.

XIII.

Quella, che i colpi de' tuoi primi sguardi
Mi fecero nel cor, larga ferita,
Sento che aperta trarrò meco in vita,
Perchè a saldarla o farle cura è tardi.

Ma così cari mi son, Donna, i dardi,
Onde col cuor fu l'anima assalita,
Che dal tempo io non vuo' chiedere ajta.
Chè me ne sani, o incontro a lor mi guardi.

Nè a te pur son per dimandarla mai.
Dappoi che la pietà di tue parole
M'è gran mercede, e agli occhi tuoi fa scusa.

Così, infin che i miei dì numeri il Sole,
Vivrò per benedir gli accenti e i rai,
Con che a ferire ed a sanar sei usa.

XIV.

Allor che di mia vita era il mattino.
Vago di tòr la libertà agli uccelli,
M'era ritratto a un arboscel vicino
Con gabbia, con laccioli e con zimbelli.

Quando il carde! più vago infra i cardelli
Fuggì fra certi rovi il malandrino;
Ond'io, che trar volevalo da quelli,
Mi trafissi la man con uno spino.

E veggendomi allor così ferito
A piangere mi posi immantinente,
Dall'aspetto del sangue intimorito.

Or ve' quant'era semplice e innocente;
Che gridai tanto allora per un dito,
Mentre adesso pel cor non dico niente.

XV.

Canta, e dell'amor suo disfoga il duolo
Entro romita e placida foresta,
Non fra i giardini, dove il Mondo è in festa.
Cùpido di quiete il rossignuolo.

Il bel cigno real, cui già funesta
Ambascia strinse pel febeo figliuolo,
Allor si lagna eh'è tranquillo e solo.
Non mai se turba d'importun lo infesta.

Io pur così, come a que' tristi piace,
Modular soglio solitario il canto,
Amico de' silenzj e della pace.

Ma s'or qui taccio, ove romore è tanto.
Il dì verrà che tornerò loquace
Alla delizia del mio cuore accanto.

Di Napoli 1823, acrostico.

Giuseppe Gioachino Belli
Da: "Canzoniere inedito del Belli" in La età dell'oro - Versi di Giuseppe Gioachino Belli - Roma, Dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Pietro Barignano (Note bio)

Post n°1723 pubblicato il 08 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Pietro Barignano (Note bio)

Nato a Pesaro negli ultimi decenni del Quattrocento, Barignano fu soprattutto un poeta cortigiano, impegnato sempre a garantirsi, per la verità con fortune alterne, i favori di personaggi potenti e a coltivare relazioni in grado di agevolare la sua non brillante carriera ecclesiastica. Frequenti i suoi rapporti con le corti di Pesaro e Urbino, ma anche i contatti con la Curia romana, grazie alla mediazione di personalità di spicco come il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena. Ad Urbino conobbe Pietro Bembo, che lo presentò a Trifone Gabriele. Fra i letterati che lo stimarono si possono ricordare Ludovico Ariosto, Francesco Berni, Ercole Bentivoglio. Ignota è la data di morte, da collocare probabilmente tra il 1540 e il 1550.
La sua celebrità è spesso associata ad una fama di indefesso corteggiatore, caratteristica che contraddistingue anche la sua produzione lirica, i cui risultati migliori sono indicati dalla critica proprio nei numerosi testi che cantano la gioia dell’amore corrisposto. Le sue rime non furono raccolte in volume, ma sono fra le più rappresentate nelle antologie cinquecentesche: il gruppo più consistente di testi (86) fu incluso da Dionigi Atanagi nella raccolta da lui curata apparsa a Venezia nel 1565. Le poesie accolte in G1 e nelle successive ristampe presentano numerosi problemi attributivi, che gli errata corrige consentono solo in parte di risolvere (cfr. Introduzione, pp. XXXVIII-XXXIX), non segnalando che la ballata Se mi concede Amor sì lunga vita (10) è in realtà di Andrea Navagero.
[Paolo Zaja, nelle note a "Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori" (a cura di Lodovico Domenichi, Giolito 1545), © Edizioni Res, Prima edizione Ottobre 2001, ISBN 88-85323-37-5]

Tre sono le edizioni del Libro primo:
Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLV;
Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo, con nuova additione ristampato. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLVI;
Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo con nuova additione ristampato. Con gratia & privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLIX.
Le tre edizioni sono introdotte da una lettera dedicatoria di Lodovico Domenichi Allo Illustriss. S. Don Diego Hurtado di Mendozza, datata "Alli VIII di Novembre MDXLIV Di Vinegia". Nella terza edizione la data risulta modificata nell’anno (MDXLVI), ma non va escluso che si tratti di una semplice inversione delle ultime due cifre e non di una scelta del curatore o dell’editore. Rilevante invece è l’assenza nella terza edizione, che è riproduzione piuttosto fedele della seconda edizione, degli errata corrige, per cui passano sotto silenzio alcuni errori attributivi causati da incidenti tipografici. Anche nella prima edizione, del resto, agli errata sono affidate precisazioni circa la paternità di qualche lirica, oltre ad indicazioni su errori di lezione o su integrazioni testuali.
Il passaggio dalla prima edizione alla seconda è caratterizzato da un buon numero di innovazioni, la cui segnalazione è affidata nella seconda edizione alla laconica formula del frontespizio "con nuova additione ristampato". In realtà non solo di addizione si tratta, ma anche di consistente sottrazione, dato che non sono pochi gli autori e i testi espunti nella seconda edizione.

 
 
 

Canzoniere petrarchesco 8

Post n°1722 pubblicato il 08 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

50

Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina
verso occidente, et che 'l dí nostro vola
a gente che di là forse l'aspetta,
veggendosi in lontan paese sola,
la stancha vecchiarella pellegrina
raddoppia i passi, et piú et piú s'affretta;
et poi cosí soletta
al fin di sua giornata
talora è consolata
d'alcun breve riposo, ov'ella oblia
la noia e 'l mal de la passata via.
Ma, lasso, ogni dolor che 'l dí m'adduce
cresce qualor s'invia
per partirsi da noi l'eterna luce.

Come 'l sol volge le 'nfiammate rote
per dar luogo a la notte, onde discende
dagli altissimi monti maggior l'ombra,
l'avaro zappador l'arme riprende,
et con parole et con alpestri note
ogni gravezza del suo petto sgombra;
et poi la mensa ingombra
di povere vivande,
simili a quelle ghiande,
le qua' fuggendo tutto 'l mondo honora.
Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora,
ch'i' pur non ebbi anchor, non dirò lieta,
ma riposata un'hora,
né per volger di ciel né di pianeta.

Quando vede 'l pastor calare i raggi
del gran pianeta al nido ov'egli alberga,
e 'nbrunir le contrade d'orïente,
drizzasi in piedi, et co l'usata verga,
lassando l'erba et le fontane e i faggi,
move la schiera sua soavemente;
poi lontan da la gente
o casetta o spelunca
di verdi frondi ingiuncha:
ivi senza pensier' s'adagia et dorme.
Ahi crudo Amor, ma tu allor piú mi 'nforme
a seguir d'una fera che mi strugge,
la voce e i passi et l'orme,
et lei non stringi che s'appiatta et fugge.

E i naviganti in qualche chiusa valle
gettan le menbra, poi che 'l sol s'asconde,
sul duro legno, et sotto a l'aspre gonne.
Ma io, perché s'attuffi in mezzo l'onde,
et lasci Hispagna dietro a le sue spalle,
et Granata et Marroccho et le Colonne,
et gli uomini et le donne
e 'l mondo et gli animali
aquetino i lor mali,
fine non pongo al mio obstinato affanno;
et duolmi ch'ogni giorno arroge al danno,
ch'i' son già pur crescendo in questa voglia
ben presso al decim'anno,
né poss'indovinar chi me ne scioglia.

Et perché un poco nel parlar mi sfogo,
veggio la sera i buoi tornare sciolti
da le campagne et da' solcati colli:
i miei sospiri a me perché non tolti
quando che sia? perché no 'l grave giogo?
perché dí et notte gli occhi miei son molli?
Misero me, che volli
quando primier sí fiso
gli tenni nel bel viso
per iscolpirlo imaginando in parte
onde mai né per forza né per arte
mosso sarà, fin ch'i' sia dato in preda
a chi tutto diparte!
Né so ben ancho che di lei mi creda.

Canzon, se l'esser meco
dal matino a la sera
t'à fatto di mia schiera,
tu non vorrai mostrarti in ciascun loco;
et d'altrui loda curerai sí poco,
ch'assai ti fia pensar di poggio in poggio
come m'à concio 'l foco
di questa viva petra, ov'io m'appoggio.


51

Poco era ad appressarsi agli occhi miei
la luce che da lunge gli abbarbaglia,
che, come vide lei cangiar Thesaglia,
cosí cangiato ogni mia forma avrei.

Et s'io non posso transformarmi in lei
piú ch'i' mi sia (non ch'a mercé mi vaglia),
di qual petra piú rigida si 'ntaglia
pensoso ne la vista oggi sarei,

o di diamante, o d'un bel marmo biancho,
per la paura forse, o d'un dïaspro,
pregiato poi dal vulgo avaro et scioccho;

et sarei fuor del grave giogo et aspro,
per cui i' ò invidia di quel vecchio stancho
che fa con le sue spalle ombra a Marroccho.


52

Non al suo amante piú Dïana piacque,
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,

ch'a me la pastorella alpestra et cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch'a l'aura il vago et biondo capel chiuda,

tal che mi fece, or quand'egli arde 'l cielo,
tutto tremar d'un amoroso gielo.

Francesco Petrarca

 
 
 

Bartolomeo Ferrino

V
Di M. Bartolomeo Ferrino

1

LAURO gentile, il dì che l’aurea cetra
Fra’ vostri rami bei l’aura movea,
Amor, ch’ascoso in voi l’arco tendea,
In me tutta aventò l’empia faretra;

Né perch’io fussi al suon converso in pietra
Poté spuntarsi una saetta rea:
Tutte passaro al cor, cui dentro ardea
Disio d’onor, che sol da voi s’impetra.

Indi a poco i piè miei fersi radici,
Le braccia rami, i capei verdi foglie,
E fui di marmo trasformato in lauro;

Ma i miei casti pensier, l’oneste voglie
Mai non cangiai, né i desir miei felici
Ch’affinan sempre come al fuoco l’auro.

2

Arbor gentil, la cui perpetua chioma
Fe’ già nel maggior caldo ombra ad Apollo,
Quando cinto di voi la fronte e il collo
Portò al cor de’ pensier sì grave soma,

Avess’io del Toscan l’alto idioma
Con che piantò il gran lauro e sì fermollo,
Che mai per tempo non potrà dar crollo
Perch’in tutto ruini Atene e Roma,

Già pien del vostro odor quest’aer tutto
Andrian pascendo i più chiari intelletti,
E per me fora il vostro nome eterno;

Che così, senza fiore e senza frutto,
Veggio i bei vostri rami in sé ristretti
Sempre temer che non li spogli il verno.

3

Tardi nato, DELFIN, veloce cresci,
Cresci gloria ed onor del mar Tirreno,
Già Teti e Galatea t’aprono il seno,
Già ti rendon tributo e l’acque e i pesci;

Che se crescendo al padre ugual riesci,
Veggio per te non pur Rodano e il Reno,
Ma di pace ogni fiume e d’amor pieno,
Se ben forse allo Ibero oggi rincresci.

Veggio dal nome tuo li antichi giuochi
Rinovarsi a Parigi, e mille fronti
Cinte di gigli d’or, non d’altra fronde;

Veggio Apollo obliando i propri luochi,
Cirra, Pindo, Elicona e gli altri monti,
Per te solo abitar sempre nell’onde.

Bartolomeo Ferrino
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Fijji bboni a mmadre tareffe

Fijji bboni a mmadre tareffe

C’hanno da fà de ppiú, pe ddio sagraschio?
La femmina che llei fesce a Ccorneto,
fa la tela d’olanna, e er fijjo maschio
le cannele de sego de Spoleto.

Cià un’antra fijja, sí, mma cquella è un raschio,
si lla vedi, ppiú ffina de sto deto:
duncue me pare che a li fijji, caschio!,
si jje dà vvino nun riccojje asceto.

Ma llei tratanto sta vecchiaccia porca
magna a le spalle loro, e spenne e spanne
pe ttrovà chi jje sbuggeri la sorca.

Pe mmé, la mannerebbe a Rripagranne
(già cche cquì pe le donne nun c’è fforca)
a ccompità er crimìni-vinnicanne.

Giuseppe Gioachino Belli
Sonetto 440

Note:
Titolo: tareffe = «Magagnata»: termine tolto dal popolo agli Ebrei del Ghetto romano.
Verso uno: pe ddio sagraschio? = Viziatura di parole onde materialmente evitare la bestemmia.
Verso 5: cià = Ci ha.
Verso 7: caschio = Consimile osservazione che alla nota 1. Qui per evitar laidezza.
Ultimo verso: er crimìni-vinnicanne è la casa di correzione detta di S. Michele, presso il porto di Ripagrande sul Tevere, il cui prospetto mostra la seguente iscrizione: Cohercendae mulierum licentiae et criminibus vindicandis.

 
 
 

Canzoniere petrarchesco 7

Post n°1719 pubblicato il 08 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

41

Quando dal proprio sito si rimove
l'arbor ch'amò già Phebo in corpo humano,
sospira et suda a l'opera Vulcano,
per rinfrescar l'aspre saette a Giove:

il qual or tona, or nevicha et or piove,
senza honorar piú Cesare che Giano;
la terra piange, e 'l sol ci sta lontano,
che la sua cara amica ved'altrove.

Allor riprende ardir Saturno et Marte,
crudeli stelle, et Orïone armato
spezza a' tristi nocchier' governi et sarte;

Eolo a Neptuno et a Giunon turbato
fa sentire, et a noi, come si parte
il bel viso dagli angeli aspectato.


42

Ma poi che 'l dolce riso humile et piano
piú non asconde sue bellezze nove,
le braccia a la fucina indarno move
l'antiquissimo fabbro ciciliano,

ch'a Giove tolte son l'arme di mano
temprate in Mongibello a tutte prove,
et sua sorella par che si rinove
nel bel guardo d'Apollo a mano a mano.

Del lito occidental si move un fiato,
che fa securo il navigar senza arte,
et desta i fior' tra l'erba in ciascun prato.

Stelle noiose fuggon d'ogni parte,
disperse dal bel viso inamorato,
per cui lagrime molte son già sparte.


43

Il figliuol di Latona avea già nove
volte guardato dal balcon sovrano,
per quella ch'alcun tempo mosse invano
i suoi sospiri, et or gli altrui commove.

Poi che cercando stanco non seppe ove
s'albergasse, da presso o di lontano,
mostrossi a noi qual huom per doglia insano,
che molto amata cosa non ritrove.

Et cosí tristo standosi in disparte,
tornar non vide il viso, che laudato
sarà s'io vivo in piú di mille carte;

et pietà lui medesmo avea cangiato,
sí che' begli occhi lagrimavan parte:
però l'aere ritenne il primo stato.


44

Que'che 'n Tesaglia ebbe le man' sí pronte
a farla del civil sangue vermiglia,
pianse morto il marito di sua figlia,
raffigurato a le fatezze conte;

e 'l pastor ch'a Golia ruppe la fronte,
pianse la ribellante sua famiglia,
et sopra 'l buon Saúl cangiò le ciglia,
ond'assai può dolersi il fiero monte.

Ma voi che mai pietà non discolora,
et ch'avete gli schermi sempre accorti
contra l'arco d'Amor che 'ndarno tira,

mi vedete straziare a mille morti:
né lagrima però discese anchora
da' be' vostr'occhi, ma disdegno et ira.


45

Il mio adversario in cui veder solete
gli occhi vostri ch'Amore e 'l ciel honora,
colle non sue bellezze v'innamora
piú che 'n guisa mortal soavi et liete.

Per consiglio di lui, donna, m'avete
scacciato del mio dolce albergo fora:
misero exilio, avegna ch'i' non fôra
d'abitar degno ove voi sola siete.

Ma s'io v'era con saldi chiovi fisso,
non devea specchio farvi per mio danno,
a voi stessa piacendo, aspra et superba.

Certo, se vi rimembra di Narcisso,
questo et quel corso ad un termino vanno,
benché di sí bel fior sia indegna l'erba.


46

L'oro et le perle e i fior' vermigli e i bianchi,
che 'l verno devria far languidi et secchi,
son per me acerbi et velenosi stecchi,
ch'io provo per lo petto et per li fianchi.

Però i dí miei fien lagrimosi et manchi,
ché gran duol rade volte aven che 'nvecchi:
ma piú ne colpo i micidiali specchi,
che 'n vagheggiar voi stessa avete stanchi.

Questi poser silentio al signor mio,
che per me vi pregava, ond'ei si tacque,
veggendo in voi finir vostro desio;

questi fuor fabbricati sopra l'acque
d'abisso, et tinti ne l'eterno oblio,
onde 'l principio de mia morte nacque.


47

Io sentia dentr'al cor già venir meno
gli spirti che da voi ricevon vita;
et perché natural-mente s'aita
contra la morte ogni animal terreno,

largai 'l desio, ch'i teng'or molto a freno,
et misil per la via quasi smarrita:
però che dí et notte indi m'invita,
et io contra sua voglia altronde 'l meno.

Et mi condusse, vergognoso et tardo,
a riveder gli occhi leggiadri, ond'io
per non esser lor grave assai mi guardo.

Vivrommi un tempo omai, ch'al viver mio
tanta virtute à sol un vostro sguardo;
et poi morrò, s'io non credo al desio.


48

Se mai foco per foco non si spense,
né fiume fu già mai secco per pioggia,
ma sempre l'un per l'altro simil poggia,
et spesso l'un contrario l'altro accense,

Amor, tu che' pensier' nostri dispense,
al qual un'alma in duo corpi s'appoggia,
perché fai in lei con disusata foggia
men per molto voler le voglie intense?

Forse sí come 'l Nil d'alto caggendo
col gran suono i vicin' d'intorno assorda,
e 'l sole abbaglia chi ben fiso 'l guarda,

cosí 'l desio che seco non s'accorda,
ne lo sfrenato obiecto vien perdendo,
et per troppo spronar la fuga è tarda.


49

Perch'io t'abbia guardato di menzogna
a mio podere et honorato assai,
ingrata lingua, già però non m'ài
renduto honor, ma facto ira et vergogna:

ché quando piú 'l tuo aiuto mi bisogna
per dimandar mercede, allor ti stai
sempre piú fredda, et se parole fai,
son imperfecte, et quasi d'uom che sogna.

Lagrime triste, et voi tutte le notti
m'accompagnate, ov'io vorrei star solo,
poi fuggite dinanzi a la mia pace;

et voi sí pronti a darmi angoscia et duolo,
sospiri, allor traete lenti et rotti:
sola la vista mia del cor non tace.

Francesco Petrarca

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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