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Messaggi del 09/06/2015

Canzoniere inedito 5

XXI.

Mentre il vigore de più fervid'anni
Che ne infuse natura nelle vene
Pieno di vita, o Donna, si mantiene,
Consolatore de' terreni affanni:

Amiamci, o cara, fin che Amor co' vanni
La giovin fiamma lusingando viene;
Che verrà ben l'età poi delle pene
Cinta di gelo e di nojosi danni.

Non che quando l'ardor di gioventute
Temprato e spento sia da senil verno
Debba il presente Amor perder virtute:

Ma s'ora non tenghiam di lui governo,
Come vorrem, che lieto di salute
Giunga a vecchiezza, e poi trapassi eterno?

XXII.

Anzi che lagrimar perchè miei carmi
Fusser dal foco in cenere ridutti;
Dal mezzo stesso, che pur gli ha distrutti,
Surger cagione di allegrezza e' parmi.

Nuovo non è, che sui devoti marmi
Del gregge i parti e della terra i frutti
Arda la fiamma, e li consumi tutti
Quando placato il Ciel l'ira disarmi.

Forse che volle Amor per questo segno
Farne, o Donna, saper come avea loco
Dato alla pace nel suo cuor lo sdegno.

Ond'io pregando il sommo Nume invoco,
Che il nostro affetto ognor mantenga degno
Di aver la pace per compagni e 'l foco.

XXIII.

Del benigno disio, che in cuor ti siede
D'offrirmi indicj d'un Amor sincero,
Non meglio che appagando il mio pensiero.
Dolce speranza mia, puoi farmi fede.

E questo mio pensier chiaro si vede
In ogni detto, onde ammollirti spero;
Coltre da te non bramo, e voglio, e chero
Del conservarmi i dì, che il Ciel ti diede.

Ah! vivi lieta, e allor sana vivrai:
Ah! vivi lieta; e causa di letizia
Siati il saper ch'io t'amo, e t'amo assai.

Anzi, se per me in cuor serbi tristizia,
Se ne traggi per me dogliosi guai
Lo amare un simil cuor credo giustizia.

XXIV.

Tanto mal certi della umana vita
Gli istanti sono e sì fugaci e brevi,
Che al termine d'ognun suspirar devi
Tua carriera mortal quasi fornita.

Sempre pertanto s'è querela udita,
Che i giorni andati troppo corser lievi;
E se il vel del futuro si sollevi,
Dal paragon n'è ogni anima invilita.

Pure altrimenti mi fa Amor pensare;
Cove il tempo a guardar dietro mi voleo,
Da che non veggo tue sembianze care;

Già un anno panni, e gran doglia ne tolgo:
Ma lo avvenire un secolo mi pare
Prima ch'io ti rivegga; e più men dolgo.

22 novembre 1823.

XXV.

Il pensier, che nell'anima si cria,
Suprema facultà dello intelletto,
Esser non può giammai che senza obbietto
Tregua si tolga, ed oziando stia.

Ben la memoria, che si muove pria,
E insiem la volontà gli offron subbietto;
E ne' momenti di total difetto
Gli soccorre talor la fantasia.

Ma Amor di mia ragion siede signore
Amor la volontà mi regge e guida;
E la memoria mia occupa Amore.

E se Amor dal cuor nasce, e in lui s'annida,
Dunque de' miei pensieri arbitro è 'l cuore,
Il cuor, che all'amor tuo, donna, s'affida.

Giuseppe Gioachino Belli
Da: "Canzoniere inedito del Belli" in La età dell'oro - Versi di Giuseppe Gioachino Belli - Roma, Dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Inghilfredi

Post n°1728 pubblicato il 09 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Di Inghilfredi, poeta siciliano, ma secondo alcuni lucchese, del XIII Secolo, si conoscono 7 composizioni. I testi, che sono tratti da "Rimatori della scuola siciliana", a cura di Bruno Panvini, Olschki, Firenze 1962 e 1964 e sono reperibili sul sito Progetto Duecento sono i seguenti:

Audite forte cosa che m'avene
Caunoscenza penosa e angosciosa
Del meo voler dir l'ombra
Dogliosamente e con gran malenanza
Greve puot'om piacere a tutta gente
Poi la noiosa erranza m'à sorpriso
Sì alto intendimento


Audite forte cosa che m’avene:


Audite forte cosa che m’avene:
eo vivo in pene stando in allegranza,
saccio ch’io amo e sono amato bene
da quella che mi tene in disïanza.
Da lei neente vogliomi celare:
lo meo tormentar [cresce],
como pien è, dicresce,
e vivo in foco como salamandra.
Sua caunoscenza e lo dolze parlare
e le belleze e l’amoroso viso,
di ciò pensando fami travagliare.
Iesù Cristo [creolla] in paradiso
e, poi la fece angelo incarnata,
tanto di lei mi ’mbardo,
che mi consumo e ardo,
ch’eo rinovello com’ fenice face.
L’omo selvagio à ’n sè cotal natura,
che piange quando vede il tempo chiaro,
pero che la tempesta lo spaura:
simile a me lo dolce torna amaro.
Ma sono amato da lei senza inganno;
a ciò mia mente mira,
sì mi ’nsolleva d’ira,
come la tigra lo speglio isguardando.
Gioia agio presa di giglio novello,
sì alta che sormonta ogne ricchezza:
donòmi senza noia lo più bello;
pertanto non si bassa sua grandezza.
A la mia vita mai non partiragio;
sua dottrina m’afrena,
così mi trage a lena
come pantera le bestie salvage.
Pogna ben cura chi ama di bon core
per sofferir non perda malamente.
Luntanamente m’à tirato Amore,
per cui [o]maggio [è] [l]o ditto presente.
Lo sofferir m’à condutto a bon porto:
lo meo lavor non smonta,
ma nasce e toll’e monta
[ . . ] e spica e fior’e grana.


Caunoscenza penosa e angosciosa


Caunoscenza penosa e angosciosa
as[s]ai se[i] più che morte naturale,
al mio parire;
fus[s]i gioiosa tanto e amorosa,
cum cui tu gissi, mai sentiria male
senza fallire;
seria gaio e giocondo,
aver[i]a gioi e tutta beninanza,
nulla già mai vedria contar lianza,
[ c'a la sua fosse ] a pare in onne loco.
Li qual deriano honor[e] mantener[e]
e fermi stare in alto paragio
son più sfallenti;
regensi in servitute per avere
auro e argento e non gentil coragio
d’esser piacenti.
Grandeza si consuma;
l’erbe derian granire e non fiorire,
nè arbori foglire, - nè fare frutto,
veder lo male più che ’l ben saglire.
Non pare di barnagio i[n] nulla parte
che si peni gradire, nè avanzare,
però cordoglio;
ciascuno ’n tal mistieri si comparte,
lo meo cor parte vedendo regnare
folli’ ed orgoglio.
Risguardando m’am[m]iro:
donne e donzelle vegio di gran dire
senza sostegno tornare niente,
sì malamente gentileza spare.
Non deveria lucer luna, nè stelle,
de[v]ria lo sol freddare e non calire,
l’aigue turbare,
nè mai auselli posare in ramelle,
giachiti a terra tristar e languire,
più non vernare.
Contasi mal per meglio,
vedesi il pegio tuttora avanzare,
per contra fare - vince malenanza;
è l’onoranza - natural perita.
Cavalier non cognosco da mercieri,
nè gentildonna da altra burgese,
peno sovente,
nè bon donzello da altro lainieri;
non è leanza ver[a], cio è palese
veracemente.
Dico lo meo parvente
per exempli: chiara ven l’aire scura,
lo vil ausel sovrasaglie il falcone,
pres’à leon natura di taupino.


Del meo voler dir l'ombra


Del meo voler dir l’ombra
cominzo scura rima.
Como di dui congiunti Amor mi ’nungla,
sì natural m’adombra
in lavoreo e rima,
essendo due, semo un com’ carne ed ungla.
Ed è rason, poi membra
la Scriptura le membra
che di tal guisa tale Amor congiunge,
sì che, quando l’agiunge,
tal dritto amor v’aiunge,
chi lo manten, null’altra gioi li membra.
Ed eo, c’a provar miro
sono, salvando sperdo,
sì che concriomi ’n amare spunza;
doglio quando più miro
lo guadagno che perdo,
che più mi pura ca l’aigua la spunza.
E ciò mi fa cui sono,
c’al cor m’à miso un sono
di ben voler sì forte, che m’abatto
in tai pene, che batto
le mani e giù m’abatto
e son giocondo [e] di pianger fo sono.
Stringe lo core e gronda
lo viso di condutto
dell’aigua, che tale fonte risurge;
non ò coverta a gronda,
che lo mal che m’è adutto
covrir potesse, se el non risurge.
Tal è ’l disio c’ònde
che sì spesso mi conde
d’un aghiac[c]iato pensier crudo e resto,
und’eo di duol no resto
quand’a pensar m’aresto
là u’ il disio lo mio mal nasconde.
S’eo tegno il dritto a inverso
e di lei il cor mi ’ncembra,
tal la sento non maraviglia parmi
tant’ao nascoso in verso
del meo core la cambra,
chè nullo amante di ciò non è par mi,
d’essere amato a punto
da lei, per cui son punto
da lungi più che quando le son presso;
und’eo a dir m’apresso
qual eo [n]d’agio lo presso,
e non di tutto posso dire un punto.
Del meo disir non novo
chiuso parlare spargo,
ca chiusamente doglio sopra cima;
nullo par di me novo,
che tal porto lo cargo
in dritto amor, per c’ogn’altro dicima.
La mia fede è più casta
e più diritta c’asta,
che ’n segnoria s’è regata a serva
e più lealtà serva
che ’l suo dir non conserva
60lo bon Tristano al cui pregio s’adasta.
Lo mio buon dir s’avasta,
va [a] lei, per cui se vasta
la mia persona, c’a governar nerv’à
la nave di Minerva,
6che sì forte mi ’nerva
a sofrir pena c’ogn’altro divasta.


Dogliosamente e con gran malenanza

Dogliosamente e con gran malenanza
conven chio canti e mostri mia grameza,
ca per servire sono in disperanza:
la mia fede m’à tolta l’allegreza.
Però di canto non posso partire,
poi c’a la morte mi vado ap[p]ressando,
sì come il ciecen, che more in cantando,
la mia vita si parte e vo morire.
Partomi da sollazo e d’ogne gioco
e ciascun altro faccia a mia parvenza,
ca dentro l’aigua m’à abrusciato il foco,
mia sicurtate m’à dato spavenza.
Fui miso in gioco e frastenuto in pianto
sì falsamente mi ’ngannò lo sguardo,
sì come a lo leone lo leupardo,
c’a tradimento li leva l’amanto.
Per tradimento sono dismarruto,
del qual null’omo potesi guardare
e son sì preso e sì forte feruto,
c’agio dottanza di poter campare,
poi che le pia[c]que a quella c’à in podere
la rota di fortuna permutare;
però le piaccia di me rallegrare;
cui à saglito, faccialo cadere.
Faccia in tal guisa che naturalmente
vadan le doglie che ò non pe[r] rasone,
ca non è gioco d’essere servente
a chi è meno di sua condizione.
E rason porta di punir li mali;
però si guardi chi mi tene a dura,
che la pantera à in sè ben tal natura,
c’a la sua lena tragon li animali.
S’eo trago a voi, non vo’ più star tardando,
ched io non saccia in che guisa mi provo;
ardo, consumo e struggo pur pensando
com’ son caduto e unde e com’ mi trovo.
Però ciascun faccia di sè mutanza
ed agia in sè fermanza e novo core;
lo fenix arde e rinova megliore;
non dotti l’om penar per meglioranza.
Però la sesta facc[i]a movimento,
ancor che paia altrui disordinato,
e facc[i]a mostra per avedimento
che ciascun guardi chi siede in mio stato;
chè ciascun d’alto potesi bassare,
se regimento non à chi ’l difenda;
lo leofante null’omo riprenda,
se, quando cade, non si può levare.


Greve puot'om piacere a tutta gente


Greve puot’om piacere a tutta gente,
perch’eo parlo dottoso
e sì come om che vive in grande erranza,
poi veo saglire inganno malamente
di tal guisa odioso,
cui no ’l com[m]ise è data pesanza;
eo veo saglir lo non sagio in montanza
e sovrastar li savi adottrinati,
e li argomenti veduti, apensati
mette[r] paz[z]ia per folle oltracuitanza.
Chi non è sagio non de’ amaestrare
e chi folle comenza
mal po finir ca sagio si’ aprovato;
per che ’l meo cor sovente de’ penare,
poi mala provedenza
vole giachir naturale pensato;
ed è ’n tal guisa corso sormontato,
che veo signori a servi star subietti
e servi a signoria essere eletti.
Non pò finir chi non à cominzato.
Non laudo cominzar senza consiglio,
nè no m’è a piacirnento
dar lodo a chi com[m]ette fallisione.
Chi ciò consente cade in gran ripiglio
e chi tace contento
di no avanzar chi sa mostrar rasone;
ca giusto ae divenir chi nd’à casone:
se bon consiglio crede, va montando,
e chi follia solleva, [va] bassando:
lo frutto lauda ’l flor quand’è stasione.
Non piace fior senza frutto a signore;
a cui falla spcranza
considera lo tempo che à venire.
Vana promessa messo m’à in errore,
e folle sicuranza
mi fa del parpaglion risovenire,
che per clartà di foco va a morire:
così mi ’mpiglio credendo avanzare,
ca molti doglion per troppo affidare;
lo pesce aesca l’amo unde à perire.
Poi che tant’agio contrario veduto,
cangiato m’è ’l disio
e sto com’om ch’è di duol quasi vinto;
ciò che di gioi[a] mi donava aiuto
m’ave miso in oblìo,
in fera vampa di foco m’à stinto;
e son di pene di ’[n]torno sì ac[c]into,
c’ogne sustanza di ben m’abandona
a for del tempo, c’un pensier mi dona,
c’a me medesmo dispiaciomi pinto.
Tant’à lo mal lo ben da sè distinto,
ca chi più falla di lodo à corona
e chi ben opra di lui mal si sona;
ogni bon presio di bon loco e spinto.


Poi la noiosa erranza m'à sorpriso


Poi la noiosa erranza m'à sorpriso
e sagiato di sì crudel conforto,
voglio mostrare qual è 'l mio coragio,
ch'eo sono in parte di tal logo miso
ch'eo son disceso e non son giunto a porto;
in gran bonaccia greve fortun'agio
e son dimiso da la signoria,
da regimento là 'nde son signore,
tant'è l'af[f]anno che porta 'l meo core
ove allegran2a vince tuttavia.
Vinco e ò vinciuto e tuttor[a] perdo,
là u' son riceputo istò cacciato,
in isperanza amarisco mia spene,
di gran gio[i] mi consumo e mi disperdo;
sì mi distringe là u' sono alargato,
in allegreza pianger mi convene.
Adonqua [è] Amor che la vita m'acresce,
poi sono amante di ciò che disamo
e vo negando ciò che voglio e bramo
e vivo in gio[i] come nell'aigua il pesce.
Però, madonna, senza dir parlate,
poi no l'avete datelmi, c'Amore
non vol che donna quel c'à degia dare,
e fate vista di scura cartate.
La caccia è presa là v'è 'l cacciatore;
non trovo d'aigua e vo per essa in mare,
a tal son miso che fugendo caccio
e sono arieto com' più vado anante,
se non m'accore di voi lo sembiante,
che l'om disciolto ten legato a lac[c]io.


Sì alto intendimento

Sì alto intendimento
m’ave donato Amore,
ch’eo non sac[c]io invenire
in che guisa possa merzè trovare.
5Però lo mio talento
m’a[ve] miso in errore,
ca non volse soffrire
di non voler sì altamente amare.
Ma poi che piacere
à l’Arnore, che tant’è poderoso,
ciò è lo mio volere;
m’à miso il core in af[f]anno gravoso,
non saccio loco che n’agia ragione.
Penso se narramento
è fatto [a] alcun signore
per dover diffinire
al qual de’ dui s’ac[c]orda più, ’ver pare.
Non è gran fallimento
d’amar, poi che ’l meo core
è voluto asentire
a tal voler ch’eo no ’l posso abentare.
E però degia avere
l’amore forza in loco dobitoso;
e facci’ a lei sapere
che son le pene del male amoroso:
forza d’amar mi mette a condizione.
Lo meo innamoramento
m’à sì tolto ’l valore
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
Però ’l gran valimento
di lei, cui chiamo fiore,
vorria, s’eo l’auso dire,
umilmente di merzè pregare
di darme alegiamento
di pic[c]iolo sentore
[ . . . . -ire]
la dolce c[i]era sol d’uno isguardare,
perchè lo meo dolere
avesse via di non esser dottoso
contra l’alto parere
di lei, che m’è come l’omo nascoso,
che per aguaito face offensione.

 
 
 

Canzoniere inedito 4

XVI.

Chi in una notte silenziosa e bruna
Gli occhi sollevi a contemplar le stelle,
Vistele scintillar: quanto son belle!
Dicer gli è forza, ed ammirarne ognuna:

Ma come in suo splendor sorge la luna
Quale Regina fra le proprie ancelle,
Porta stupor, che gli sembrasser quelle
Degne di laude e maraviglia alcuna.

Così, mirando delle donne il viso,
A cui il Mondo per beltà s'inchina,
Lor resi omaggio e riverenza anch'io.

Quando però l'idea del paradiso
Mi venisti a mostrar, Donna divina,
Tolsi d'ogn'altra. e della Terra oblìo.

XVII.

Ben quell'uom degno è di pietate, a cui
Ogni consiglio a mal fine risponda;
Cui terra avara i suoi tesori asconda,
Che seco è in guerra, e co' vicini sui:

Dove felice si può dir colui
Cave fortuna a suoi desir seconda
Al cui favor s'inchina e l'aura e l'onda,
E con sè vive in pace e con altrui,

Ma io nel giro d'un sereno volto,
E in un tenero cuor, che mio si dice,
Posseggo il pieno d'ogni bene accolto.

Però di sospirar mai non mi lice;
Sì di laudare il Ciel cagione ho molto,
Che rendermi degnò tanto felice.

XVIII.

La gente ignara, che tranquilla vede
Rivolta al polo suo la calamita;
Dell'arcana virtù, ond'è fornita,
Sin che ferma si sta, priva la crede.

Se però forza dall'Amica sede
L'abbia per un'istante dipartita,
Del mirabil fenomene chiarita,
Attonita rimane, e al ver dà fede.

Così chi misurare il nostro ardore
Quando ci vegga insiem, Donna, ha desio.
Facilmente esser può tratto in errore.

Ma venga allor che ci diciamo: Addio:
Ma torni allor che ci rassembra Amore;
E il don conosca che ci ha fatto Iddio.

XIX.

Poi che offerirti il cuor, chè già te l'hai,
Non posso in pegno del mio sommo affetto;
Cosa ti do, che pur nacquemi in petto,
Dal cuor non lunge, ove tu impressa stai.

E là ti prego, o cara, ove tu sai
Essere il suo dover, darle ricetto;
Ne per tua voglia, o per altrui diletto
Quindi ritorla, o ricambiarla mai.

Così lo albergo stesso, cui natura
Dato le aveva in me per suo destino,
Fia che in te trovi con miglior ventura.

Chè da te messa in compagnia del cuore,
Godrà di palpitar col suo vicino,
Calda pel foco, che v'infuse Amore.

XX.

Scorron l'ore notturne: ed a me accanto
Confusi in un romor discorde e roco
Stridere il riso, e folleggiare il gioco
Ascolto, e a vario suon mescersi il canto.

Solo e pensoso, e di te pieno intanto,
Io della càsa nel più interno loco
Invan la pace ed il silenzio invoco,
Prodigo di sospir, molle di pianto.

Ma le lagrime pure e i sospir miei
Tornanmi dolci più che l'altrui gioja,
Da che tu meco, o mia gioja, non sei.

E sì, lungi da te, tutto m'è noja,
Che se per sempre, o Donna, io ti perdei.
Anzi che viver vai meglio ch'io muoja.

Giuseppe Gioachino Belli
Da: "Canzoniere inedito del Belli" in La età dell'oro - Versi di Giuseppe Gioachino Belli - Roma, Dalla Tipografia Salviucci, 1851

 
 
 

Giovanni Andrea Gesualdo

Giovanni Andrea Gesualdo (Note bio)

Nato a Traetto (l’attuale Minturno) nel 1496, Gesualdo fu legato, anche da vincoli di parentela, ad Antonio Minturno, il cui magistero risulta evidente nel suo importante e ponderoso commento al Canzoniere di Petrarca pubblicato a Venezia nel 1533, ma composto entro il terzo decennio del secolo. A Napoli frequentò l’Accademia Pontaniana, partecipando alle discussioni sulla lirica volgare e seguendo le lezioni di Minturno sulla poetica. Ebbe anche incarichi ufficiali da Isabella d’Aragona, ma in generale le notizie biografiche sono scarse e si collocano quasi esclusivamente intorno agli anni di pubblicazione del commento petrarchesco.
Ignota è la data di morte. La scelta di stampare il commento a Venezia, dovuta probabilmente alla crisi dell’editoria napoletana alla fine degli anni Venti, determinò senza dubbio una sua discreta fama anche nell’ambiente veneto, tanto più che a visionare il manoscritto per la concessione della licenza di stampa fu lo stesso Pietro Bembo, insieme a Federico Vallaresso. Si spiega forse così la sua presenza nell’antologia con un gruppo non troppo esiguo di rime, dalla cui lettura si ricava comunque l’impressione di una pratica di scrittura del tutto passiva e appiattita su soluzioni stilistiche di matrice petrarchesca (in particolare le figure di ripetizione) su cui Gesualdo insiste fino all’eccesso.
[Paolo Zaja, nelle note a "Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori" (a cura di Lodovico Domenichi, Giolito 1545), © Edizioni Res, Prima edizione Ottobre 2001, ISBN 88-85323-37-5]

Tre sono le edizioni del Libro primo:
1) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLV;
2) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo, con nuova additione ristampato. Con Gratia & Privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLVI;
3) Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo con nuova additione ristampato. Con gratia & privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLIX.
Le tre edizioni sono introdotte da una lettera dedicatoria di Lodovico Domenichi Allo Illustriss. S. Don Diego Hurtado di Mendozza, datata "Alli VIII di Novembre MDXLIV Di Vinegia". Nella terza edizione la data risulta modificata nell’anno (MDXLVI), ma non va escluso che si tratti di una semplice inversione delle ultime due cifre e non di una scelta del curatore o dell’editore. Rilevante invece è l’assenza nella terza edizione, che è riproduzione piuttosto fedele della seconda edizione, degli errata corrige, per cui passano sotto silenzio alcuni errori attributivi causati da incidenti tipografici. Anche nella prima edizione, del resto, agli errata sono affidate precisazioni circa la paternità di qualche lirica, oltre ad indicazioni su errori di lezione o su integrazioni testuali.
Il passaggio dalla prima edizione alla seconda è caratterizzato da un buon numero di innovazioni, la cui segnalazione è affidata nella seconda edizione alla laconica formula del frontespizio "con nuova additione ristampato". In realtà non solo di addizione si tratta, ma anche di consistente sottrazione, dato che non sono pochi gli autori e i testi espunti nella seconda edizione.

Cinque sonetti e una canzone di Gesualdo sono stati pubblicati su questo blog, tratti da "Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)":
Al bel nido real, ch'adorno e chiaro
Itene, o folti miei sospiri ardenti,
O chiara fonte, che con lucide onde,
Può bene il sol nel lucido orïente
Tra verdi piagge e tra correnti rivi, (canzone)
Voi ch'attendete a glorïose imprese,

Di Gesualdo sono stati anche pubblicati su questo blog 11 sonetti tratti da "Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (Giolito 1545)", curato da Lodovico Domenichi:
Chiaro, soave, dolce, ardente lume,
È questo il loco ove madonna suole
Né di selvaggio cuor feroce sdegno,
O stelle, o cielo, o fiero mio pianeta,
O viva fiamma, o miei sospiri ardenti,
Per acquetar le mie faville nuove
Qual empio mio destin, qual cruda voglia,
Quasi un puro, lucente e chiaro lume,
Quel gran Motor del lucido emispero,
Tra gli altri doni che dal cielo ardente
Verrà mai il dì che mia pace riporte

 
 
 

Canzoniere petrarchesco 9

Post n°1725 pubblicato il 09 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

53

Spirto gentil, che quelle membra reggi
dentro le qua' peregrinando alberga
un signor valoroso, accorto et saggio,
poi che se' giunto a l'onorata verga
colla qual Roma et i suoi erranti correggi,
et la richiami al suo antiquo vïaggio,
io parlo a te, però ch'altrove un raggio
non veggio di vertú, ch'al mondo è spenta,
né trovo chi di mal far si vergogni.
Che s'aspetti non so, né che s'agogni,
Italia, che suoi guai non par che senta:
vecchia, otïosa et lenta,
dormirà sempre, et non fia chi la svegli?
Le man' l'avess'io avolto entro' capegli.

Non spero che già mai dal pigro sonno
mova la testa per chiamar ch'uom faccia,
sí gravemente è oppressa et di tal soma;
ma non senza destino a le tue braccia,
che scuoter forte et sollevarla ponno,
è or commesso il nostro capo Roma.
Pon' man in quella venerabil chioma
securamente, et ne le treccie sparte,
sí che la neghittosa esca del fango.
I' che dí et notte del suo strazio piango,
di mia speranza ò in te la maggior parte:
che se 'l popol di Marte
devesse al proprio honore alzar mai gli occhi,
parmi pur ch'a' tuoi dí la gratia tocchi.

L'antiche mura ch'anchor teme et ama
et trema 'l mondo, quando si rimembra
del tempo andato e 'n dietro si rivolve,
e i sassi dove fur chiuse le membra
di ta' che non saranno senza fama,
se l'universo pria non si dissolve,
et tutto quel ch'una ruina involve,
per te spera saldar ogni suo vitio.
O grandi Scipïoni, o fedel Bruto,
quanto v'aggrada, s'egli è anchor venuto
romor là giú del ben locato officio!
Come cre' che Fabritio
si faccia lieto, udendo la novella!
Et dice: Roma mia sarà anchor bella.

Et se cosa di qua nel ciel si cura,
l'anime che lassú son citadine,
et ànno i corpi abandonati in terra,
del lungo odio civil ti pregan fine,
per cui la gente ben non s'assecura,
onde 'l camin a' lor tecti si serra:
che fur già sí devoti, et ora in guerra
quasi spelunca di ladron' son fatti,
tal ch'a' buon' solamente uscio si chiude,
et tra gli altari et tra le statue ignude
ogni impresa crudel par che se tratti.
Deh quanto diversi atti!
Né senza squille s'incommincia assalto,
che per Dio ringraciar fur poste in alto.

Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme
de la tenera etate, e i vecchi stanchi
ch'ànno sé in odio et la soverchia vita,
e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,
coll'altre schiere travagliate e 'nferme,
gridan: O signor nostro, aita, aita.
Et la povera gente sbigottita
ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
ch'Anibale, non ch'altri, farian pio.
Et se ben guardi a la magion di Dio
ch'arde oggi tutta, assai poche faville
spegnendo, fien tranquille
le voglie, che si mostran sí 'nfiammate,
onde fien l'opre tue nel ciel laudate.

Orsi, lupi, leoni, aquile et serpi
ad una gran marmorea colomna
fanno noia sovente, et a sé danno.
Di costor piange quella gentil donna
che t'à chiamato a ciò che di lei sterpi
le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già piú che 'l millesimo anno
che 'n lei mancâr quell'anime leggiadre
che locata l'avean là dov'ell'era.
Ahi nova gente oltra misura altera,
irreverente a tanta et a tal madre!
Tu marito, tu padre:
ogni soccorso di tua man s'attende,
ché 'l maggior padre ad altr'opera intende.

Rade volte adiven ch'a l'alte imprese
fortuna ingiurïosa non contrasti,
ch'agli animosi fatti mal s'accorda.
Ora sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
famisi perdonar molt'altre offese,
ch'almen qui da se stessa si discorda:
però che, quanto 'l mondo si ricorda,
ad huom mortal non fu aperta la via
per farsi, come a te, di fama eterno,
che puoi drizzar, s'i' non falso discerno,
in stato la piú nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia
dir: Gli altri l'aitâr giovene et forte;
questi in vecchiezza la scampò da morte.

Sopra 'l monte Tarpeio, canzon, vedrai
un cavalier, ch'Italia tutta honora,
pensoso piú d'altrui che di se stesso.
Digli: Un che non ti vide anchor da presso,
se non come per fama huom s'innamora,
dice che Roma ognora
con gli occhi di dolor bagnati et molli
ti chier mercé da tutti sette i colli.


54

Perch'al viso d'Amor portava insegna,
mosse una pellegrina il mio cor vano,
ch'ogni altra mi parea d'onor men degna.

Et lei seguendo su per l'erbe verdi,
udí' dir alta voce di lontano:
Ahi, quanti passi per la selva perdi!

Allor mi strinsi a l'ombra d'un bel faggio,
tutto pensoso; et rimirando intorno,
vidi assai periglioso il mio vïaggio;

et tornai indietro quasi a mezzo 'l giorno.


55

Quel foco ch'i' pensai che fosse spento
dal freddo tempo et da l'età men fresca,
fiamma et martir ne l'anima rinfresca.

Non fur mai tutte spente, a quel ch'i' veggio,
ma ricoperte alquanto le faville,
et temo no 'l secondo error sia peggio.
Per lagrime ch'i' spargo a mille a mille
conven che 'l duol per gli occhi si distille
dal cor, ch'à seco le faville et l'ésca:
non pur qual fu, ma pare a me che cresca.

Qual foco non avrian già spento et morto
l'onde che gli occhi tristi versan sempre?
Amor, avegna mi sia tardi accorto,
vòl che tra duo contrari mi distempre;
et tende lacci in sí diverse tempre,
che quand'ò piú speranza che 'l cor n'esca,
allor piú nel bel viso mi rinvesca.


56

Se col cieco desir che 'l cor distrugge
contando l'ore no m'inganno io stesso,
ora mentre ch'io parlo il tempo fugge
ch'a me fu inseme et a mercé promesso.

Qual ombra è sí crudel che 'l seme adugge,
ch'al disïato frutto era sí presso?
et dentro dal mio ovil qual fera rugge?
tra la spiga et la man qual muro è messo?

Lasso, nol so; ma sí conosco io bene
che per far piú dogliosa la mia vita
amor m'addusse in sí gioiosa spene.

Et or di quel ch'i' ò lecto mi sovene,
che 'nanzi al dí de l'ultima partita
huom beato chiamar non si convene.


57

Mie venture al venir son tarde et pigre,
la speme incerta, e 'l desir monta et cresce,
onde e 'l lassare et l'aspectar m'incresce;
et poi al partir son piú levi che tigre.

Lasso, le nevi fien tepide et nigre,
e 'l mar senz'onda, et per l'alpe ogni pesce,
et corcherassi il sol là oltre ond'esce
d'un medesimo fonte Eufrate et Tigre,

prima ch'i' trovi in ciò pace né triegua,
o Amore o madonna altr'uso impari,
che m'ànno congiurato a torto incontra.

Et s'i' ò alcun dolce, è dopo tanti amari,
che per disdegno il gusto si dilegua:
altro mai di lor gratie non m'incontra.


58

La guancia che fu già piangendo stancha
riposate su l'un, signor mio caro,
et siate ormai di voi stesso piú avaro
a quel crudel che ' suoi seguaci imbiancha.

Coll'altro richiudete da man mancha
la strada a' messi suoi ch'indi passaro,
mostrandovi un d'agosto et di genaro,
perch'a la lunga via tempo ne mancha.

E col terzo bevete un suco d'erba
che purghe ogni pensier che 'l cor afflige,
dolce a la fine, et nel principio acerba.

Me riponete ove 'l piacer si serba,
tal ch'i' non tema del nocchier di Stige,
se la preghiera mia non è superba.


59

Perché quel che mi trasse ad amar prima,
altrui colpa mi toglia,
del mio fermo voler già non mi svoglia.

Tra le chiome de l'òr nascose il laccio,
al qual mi strinse, Amore;
et da' begli occhi mosse il freddo ghiaccio,
che mi passò nel core,
con la vertú d'un súbito splendore,
che d'ogni altra sua voglia
sol rimembrando anchor l'anima spoglia.

Tolta m'è poi di que' biondi capelli,
lasso, la dolce vista;
e 'l volger de' duo lumi honesti et belli
col suo fuggir m'atrista;
ma perché ben morendo honor s'acquista,
per morte né per doglia
non vo' che da tal nodo Amor mi scioglia.


60

L'arbor gentil che forte amai molt'anni,
mentre i bei rami non m'ebber a sdegno
fiorir faceva il mio debile ingegno
e la sua ombra, et crescer negli affanni.

Poi che, securo me di tali inganni,
fece di dolce sé spietato legno,
i' rivolsi i pensier' tutti ad un segno,
che parlan sempre de' lor tristi danni.

Che porà dir chi per amor sospira,
s'altra speranza le mie rime nove
gli avessir data, et per costei la perde?

Né poeta ne colga mai, né Giove
la privilegi, et al Sol venga in ira,
tal che si secchi ogni sua foglia verde.

Francesco Petrarca

 
 
 
 
 

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